Clima: mentre alluvioni ed uragani devastano mezzo mondo e gli incendi l’altro mezzo, è uscito il sesto rapporto dell’IPCC e prontamente si sono formati i consueti due “partiti”. Da un lato una maggioranza che lo ha ignorato o quasi; dall’altra una minoranza di soggetti che hanno gridato che “bisogna agire subito per evitare il disastro”. E poi?
Un poco di storia.
Per prima cosa, chiediamoci quanto ci sia di nuovo in questo rapporto. Tanto per farsi un’idea, questa è una carrellata non esaustiva di punti nodali nell’evoluzione della scienza del clima e del suo molto graduale sfociare in “grida di allarme” sempre più acute e, ciò nondimeno, inutili. Almeno finora, il futuro rimane “in grembo a Zeus”.
1824: Jean Baptiste Joseph Fourier scopre lo “Effetto Serra”.
1896: Svante Arrhenius calcola che la combustione industriale del carbone provocherà un’alterazione della composizione dell’atmosfera ed un conseguente riscaldamento del clima, ma non si accorge che il fenomeno è già iniziato.
1938: Guy Stewart Callendar dimostra che la temperatura terrestre ha cominciato ad aumentare fin dal 1850 e che questo incremento è strettamente correlato al parallelo incremento dell CO2 in atmosfera.
1957 Roger Revelle dimostra che gli oceani assorbono una parte consistente di CO2 acidificandosi. Non sta quindi cambiando solo la chimica dell’atmosfera, ma anche quella dell’idrosfera.
1958 Charles David Keeling avvia un monitoraggio della CO2 molto più preciso di quelli precedenti e nel 1961 pubblica dati che dimostrano un incremento costante di CO2, anno per anno.
1967 Il primo modello climatico computerizzato prevede un drammatico incremento di 2,3 C° a fronte del raddoppio della concentrazione di CO2 equivalente rispetto al 1850 (cioè passando da 280 a 560 ppm, nel frattempo siamo arrivati a quasi 450). Le proiezioni attuali sono molto più accurate, ma non sostanzialmente diverse.
1988: James Hansen spiega al senato americano che il riscaldamento della Terra è una realtà, che è quasi interamente dovuto alle attività umane e che le conseguenze sono catastrofiche.
1990: Primo rapporto dell’IPCC che conferma quanto sostenuto da Hansen, sia pure in termini molto più edulcorati e “politicamente corretti”.
1992: Avviso per l’umanità dagli scienziati dal mondo. 1700 scienziati di fama mondiale, fra cui la maggioranza dei nobel per materie scientifiche, sottoscrivono e pubblicano un documento che indica nel cambiamento del clima, nell’estinzione di massa e nella sovrappopolazione i principali pericoli che minacciano la civiltà e finanche la sopravvivenza specie umana.
1995: Secondo rapporto dell’IPCC che conferma e precisa i risultati precedenti.
1998: Michael Mann, Raymond Bradley and Malcolm Hughes pubblicano il cosiddetto ‘hockey stick’ graph, che mostra che l’incremento delle temperature ha assunto un andamento esponenziale dall’inizio del XX secolo.
2001, 2007, 2013: Tutti i successivi rapporti dell’IPCC confermano la sostanza delle cose, chiariscono i dubbi residui, precisano osservazioni e scenari futuri, aggravando ed abbreviando via via le prospettive.
2017: Secondo avviso per l’umanità dagli scienziati dal mondo. Sottoscritto inizialmente da circa 15.000 scienziati (poi saliti a 25.000) ribadisce quanto detto nel primo, ma con toni assai più drammatici ed urgenti.
2021 Sesto rapporto dell’IPCC. Per chi volesse leggersi tutte le 4.000 pagine: https://www.ipcc.ch/assessment-report/ar6/; mentre per chi si accontenta di un buon riassunto: https://qz.com/…/what-does-the-ipcc-say-about-climate…/.
Alla fin fine, il tutto si può però condensare in poche righe:
1 – Il clima cambia in peggio ed è colpa nostra.
2 – Gli strumenti, le analisi, i modelli, ecc. migliorano di anno in anno, cosicché sappiamo che va sempre peggio sempre più in fretta. Ad ogni rapporto gli effetti delle retroazioni che contrastano il fenomeno vengono rivisti al ribasso, mentre quelli delle retroazioni che riscaldano il clima appaiono sempre più potenti; le previsioni sono quindi sempre più fosche e il riscontro dei dati conferma spesso le ipotesi peggiori.
3 – Niente di ciò che è stato fatto e proposto finora sfiora minimamente il livello necessario non già per evitare, ma anche solo per mitigare la catastrofe.
4 – Oramai la resa dei conti è cominciata e peggiorerà comunque, anche in caso di provvedimenti seri. Ciò non toglie che questi siano ugualmente necessari e urgenti perché “un po’ peggio” è comunque da preferirsi a “molto peggio”.
In buona sostanza, sono almeno 30 anni che sappiamo quello che succede e, indicativamente, quello che succederà, ma che si è fatto in proposito?
30 anni di fiaschi.
I primi, blandi, tentativi di affrontare il problema risalgono agli anni ’90, con il famigerato “protocollo di Kyoto”. Senza scendere in dettagli, possiamo distinguere una serie di fasi successive nell’approccio politico al problema.
La prima fu improntata all’idea che i meccanismi di mercato avrebbero potuto risolvere la situazione. In sintesi, parte dei profitti realizzati emettendo CO2 potevano essere investiti per rimuoverla e per favorire la cosa furono messi in campo complicati sistemi di compravendita di diritti ad inquinare e doveri a compensare. Il risultato fu molta attività di lobby e di business, ma zero risultati pratici.
Preso atto del fiasco, si puntò sull’efficientamento delle filiere, la parziale sostituzione del carbone con il metano, ecc. nella speranza che una maggiore efficienza d’uso avrebbe comportato una sostanziale riduzione dei consumi. Purtroppo, il risultato fu esattamente quello opposto, come si sarebbe potuto prevedere sia sulla base di dati empirici risalenti fino a James Jevons, sia dall’analisi termodinamica di Ilya Prigogine).
La terza fase puntò soprattutto sulla diffusione di energie rinnovabili, molte delle quali risultarono però ancora peggio di quelle fossili. In particolare, sovvenzionare l’uso del legname ha sortito effetti disastrosi sulle foreste, mentre le possibilità di sviluppo dell’idroelettrico sono risultate assai limitate in quando la maggior parte dei siti più idonei erano già sfruttati da decenni, mentre la capillare diffusione di questi impianti ha avuto un impatto devastante sui residui corsi d’acqua. Solare ed eolico hanno dato risultati assai migliori, ma anche loro non privi di impatti e con limiti consistenti nelle potenzialità di sviluppo. Ad ogni modo, oggi coprono una frazione del tutto marginale dei consumi globali e non è realistico che questa salga in misura e rapidità sufficienti ad avere un impatto sul clima dei prossimi decenni (mentre saranno probabilmente molto utili per ammortizzare le prevedibili crisi energetiche).
Intanto, il differenziale da recuperare cresceva e per far tornare i conti si cominciarono a considerare tecnologie sempre più estreme come l’estrazione diretta di CO2 dall’atmosfera per iniettarla negli ex-giacimenti di petrolio e gas, fino a fantascientifiche “geoingegnerie” di fattibilità ed efficacia sempre più dubbia. Al meglio, per ora, abbiamo degli impianti sperimentali; più spesso abbiamo solo delle ipotesi più o meno stravaganti e, comunque, niente di tutto ciò appare realmente fattibile; perlomeno non entro i tempi necessari.
All’atto pratico, la relativa riduzione dei consumi di USA, EU e Giappone sono avvenuti assai più in conseguenza della pertinace crisi economica che di tutto il circo di chiacchiere e progetti che si sono messi in ponte. Riduzione peraltro trascurabile rispetto all’aumento che nel frattempo si è registrato nel resto del mondo ed in particolare in Cina, che risulta oggi il maggior produttore mondiale di gas climalteranti.
Dunque un fallimento totale che necessita di una spiegazione perché ad esso hanno comunque collaborato non solo politici ed imprenditori, ma anche migliaia di tecnici molto competenti nei rispettivi campi.
I motivi sono in realtà molti e non sempre gli stessi per tutto il periodo e per tutti i paesi, ma in ultima analisi, il fallimento era inevitabile perché, fin dall’inizio, il problema è stato affrontato dando priorità al sistema economico, piuttosto che alla Biosfera. In pratica, quello che finora si è cercato e si continua a cercare è un modo per salvare la civiltà industriale ed il capitalismo, non la Biosfera. Un approccio suicida, visto che è la biosfera che consente all’industria, al capitalismo ed all’umanità stessa di esistere. Ma questo è un concetto che ancora non è penetrato nelle menti dei più e con buone ragioni perché ammettere che per salvare noi stessi bisogna salvare tutto il resto, significherebbe accettare di sacrificare noi stessi in misura molto consistente. Cioè rinunciare non solo al benessere, ma anche a molte delle cose che in occidente diamo per scontate (a cominciare da un’aspettativa di vita media ultra-octuagenaria) e che nel resto del mondo agognano da generazioni.
L’unico modo realistico di contenere le emissioni abbastanza in fretta da incidere sul clima prossimo venturo sarebbe, infatti, ridurre drasticamente i consumi finali di tutte le forme di energia in tutti i paesi industrializzati del mondo. Dunque razionare elettricità e combustibili, nonché l’acqua, la carne e parecchi altri generi di prima necessità. Bisognerebbe inoltre militarizzare molti settori della società e prendere parecchi altri parimenti molto impopolari perché deprimerebbero in modo sostanziale e definitivo gli standard di vita di tutti coloro che non sono già decisamente poveri. Insomma una decrescita precipitosa e tutt’altro che “felice”, ancorché necessaria per evitare ben di peggio. Altre opzioni forse erano praticabili 50 o 40 anni fa, ma non più oggi.
E allora?
Sul piano scientifico, credo che sarebbe interessante cominciare ad indagare le retroazioni fra le conseguenze socio-economiche del peggioramento climatico (siccità, alluvioni, ecc.) e forzanti climatiche principali (emissioni, ecc.). Se c’è una speranza di cavarsela, secondo me, è nella progressiva disgregazione del tessuto economico mondiale e non nei piani dei governi che si fanno sempre più fantastici man mano che la situazione degenera.
Sul piano pratico, ci torneremo in un prossimo post.
Io mi stavo chiedendo quanto possa ancora reggere un’economia globale già disastrata ai colpi dei vari eventi climatici estremi: la Germania, solo per le recenti alluvioni, ha dovuto stanziare un fondo da 30 miliardi di euro, che non si sa nemmeno se sarà sufficiente. Considerando che certi fenomeni saranno sempre più frequenti temo che anche i Paesi più ricchi avranno difficoltà a far fronte ai loro debiti. E siamo ancora nel pieno della crisi pandemica, dalla quale chissà quando usciremo, e con quanti, ulteriori debiti.
E’ quello che ci chiediamo tutti. D’altronde sembra che un collasso economico sia l’unica possibilità concreta di ridurre le emissioni di CO2 in modo consistente e veloce. D’altronde, questo cambierebbe (cambierà?) il tipo di impatti sulla biosfera, non li annullerebbe perché la gente che ha fame mangia e brucia tutto quello che trova.
Sì, esatto, l’incognita è quella.
E’ chiaro che le cose stanno cosi’. Personalmente direi che ci sono da fare 2 cose: 1) dal punto di vista pratico andare in montagna, possibilmente come piccola comunita’. 2) come azione politica “tutti con Greta tumberg”.
La montagna è fragilissima e può sostenere solo popolazioni molto piccole. La retorica del ritorno alla montagna è molto pericolosa – e lo dico perché vivo in montagna e ho fatto due conti. Sarebbe meglio de-antropizzare le pianure, riducendo case, infrastrutture, capannoni, ampliando aree verdi, riducendo il prelievo idrico…
Mi domando se sia possibile convertire gli attuali pascoli in aree di agroforestazione.
Immagino che la questione sia parecchio complessa, ma forse se ce ne fosse la possibilità, varrebbe la pena tentare.
I pascoli sono, in buona parte, GIÀ aree agroforestali. Il problema semmai è che ci sono troppo pochi pascoli e troppi capannoni con gli animali dentro, o troppi campi di mais e soia.
Cerca agricoltura regenerativa: ne parlano tutti, è quasi di moda. Il potenziale è immenso, anche come assorbimento di CO2. Il problema però non sono tanto i pascoli (tranne che quelli creati recentemente distruggendo foreste, soprattutto nei paesi poveri), quanto le monocolture vegetali e l’allevamento intensivo. I pascoli già possono assorbire CO2, se ben gestiti, e stiamo capendo come gestirli meglio. Io ho visto che dove passano i miei animali con il sistema a rotazione rapida, e parlo di terreni poveri e fragili di montagna, ogni anno c’è più erba e più fitta. Inoltre i pascoli, quelli veri, hanno tantissima biodiversità.
@Gaia
http://www.agroforestry.it/agro-silvo-pastorali/
Dunque, io avevo in mente qualcosa del genere.
Quindi, niente da fare?
Alberi come castagni, noci, querce o noccioli? Non c’è spazio? O ci sono già?
Soltanto mais e soia?
Per quanto riguarda l’agricoltura rigenerativa ho letto di recente un articolo piuttosto deprimente, perché pare che non sia possibile sequestrare stabilmente il carbonio nel terreno.
L’articolo era pubblicato in un sito che mi pare si chiamasse Quanta.
Nessun problema invece per quanto riguarda il recupero della fertilità.
Tra l’altro nulla vieterebbe di riprendere la vecchia usanza di coltivare alberi anche in pianura.
Fino a qualche decennio fa, nelle campagne emiliane era ancora presente la coltura promiscua. E che altro sarebbe se non una forma tipica di agroforestazione?
Niente è stabile, tutto prima o poi salta fuori o rientra in circolo. E comunque, c’è un massimo di carbonio che si può sequestrare, a quanto ho capito, per tot terreno, non puoi aggiungerne all’infinito. I miracoli non esistono. Comunque, tutti parlano dell’agricoltura regenerativa in termini entusiastici, per ora: se hai un articolo di critiche linkalo, mi interesserebbe!
La mia obiezione alla tua proposta riguardava l’idea di “sacrificare” i pascoli (che già, se ben gestiti, assorbono CO2) anziché riconvertire le monocolture vegetali o le aree urbanizzate. Se la tua proposta è un’altra, allora posso darti ragione.
(Per dire, io sto cercando di trasformare un terreno coltivato industrialmente, credo a mais, in pascolo alberato. Quindi ovviamente sono del tutto d’accordo. Però sto creando un pascolo, non lo sto eliminando.)
https://www.quantamagazine.org/a-soil-science-revolution-upends-plans-to-fight-climate-change-20210727/
Secondo me , alla luce di queste nuove ricerche, converrebbe limitarsi a piantare alberi, sempre che vengano azzerate le emissioni. (Mah).
Anche perché, non so in italia, ma nel mondo le superfici a pascolo sono almeno il doppio di quelle arabili, e darebbero un buon contributo in termini di clima alimentazione e legname. Sarebbe un peccato sprecare questa opzione.
Il post di Jacopo è davvero una chicca. Complimenti.
Detto questo, rimane sempre sullo sfondo quella che secondo me è la questione delle questioni.
Ovvero, finchè il Valore economico rimane un’astrazione sostanzialmente slegata dalla realtà dell’uomo e della biosfera, ogni provvedimento anche globale che lo prenda a unità di misura produrrà aria fritta. Anche se qualche finestra la potrà aprire, per qualche ricambio d’aria.
Infatti, i padroni del vapore e del suo software saranno loro stessi i primi, a farci mutare il concetto che abbiamo di Denaro. Con cambiamenti che faranno impallidire il passaggio dalle banconote ai bancomat. Cambiamenti gattopardeschi, dal punto di vista dell’uomo e della biosfera, che sono fatti di Limiti.
Tutto ciò, finchè le belle menti non finiscono di dar per scontata la teoria del valore monetario, quando parlano delle sfide esiziali. Sarebbe ora di ripensarla, prima che lo facciano altri con obbiettivi suicidi. Chi può farlo meglio, rispetto a chi già non si fa problemi a parlar di apocalottimismo?
Molto toste le conclusioni, attendo il prossimo post con le riflessioni “sul piano pratico”!
Fuzzy, l’articolo che hai linkato non dice quello che sostieni tu e non c’entra con il tuo discorso. Dice che non si sa bene come e quanto il carbonio resta nel suolo, che si stanno scoprendo sempre nuove cose, ma che in qualche modo, almeno un po’, nel suolo il carbonio ci resta: “Evidence suggests that when cover crop roots break down, some of their carbon stays in the soil”, “Studies of carbon isotopes have shown that a lot of carbon can stick around in soil for centuries or even longer”. Dice che la scienza del suolo è estremamente complessa, ma non parla di alberi vs pascolo.
L’idea di piantare alberi nei pascoli può avere senso per le Americhe, l’Australia, forse posti come la Mongolia, ma noi siamo in Italia e non capisco cosa c’entri con l’Italia. Tu hai mai visto un pascolo italiano e pensato: dovrebbero piantare degli alberi qui? Scommetto di no, perché nelle pianure italiane i pascoli praticamente non esistono (gli animali stanno chiusi e gli si dà mais, soia, e fieno, e nei campi di mais, soia e fieno non puoi mettere alberi altrimenti non riesci a lavorarli). I pascoli italiani sono in gran parte in montagna e collina, e a quanto ne so sono quasi sempre già alberati o circondati da alberi. Le più grandi minacce ai pascoli alberati al momento, a quanto mi risulta, è la competitività degli allevamenti intensivi, grazie non solo alle sovvenzioni, che hanno anche i pastori, ma all’importazione di mangimi dall’estero e soprattutto all’aumentare di predatori che stanno costringendo quelli che avevano ripreso in mano la pastorizia a chiudere di nuovo gli animali nelle stalle, con buona pace dei pascoli, alberati o no.
Gli animali che stanno al pascolo (che è meglio per loro, per la terra e per il clima, oltre che per la qualità del cibo) sono più esposti a furti e predazioni, e crescono più lentamente perché non sono imbottiti di mangimi. Prima bisognerebbe ricostituire e proteggere il pascolo, e poi pensare a piantarci alberi. Tra l’altro c’è anche un limite a quanti alberi puoi mettere in un pascolo, perché gli erbivori hanno bisogno di erba e un albero fa crescere meno o zero erba tutto attorno a sè.
Inoltre, non capisco tutta questa necessità di alberare i pochi pascoli in Italia quando si stanno distruggendo aree verdi per espandere le città e costruire infrastrutture, quando si pratica e soprattutto si incentiva l’agricoltura industriale (altro che agroforestale), e quando i boschi che ci sono li si lascia bruciare, e poi si dice che bisogna “fare prevenzione”, cioè in pratica eliminare il bosco… Ripeto, la nostra realtà è diversa e richiede soluzioni diverse.
Facile leggere un articolo e pensare: “ecco la soluzione!”, ma secondo me bisognerebbe valutare caso per caso (l’Italia non è l’Argentina) e conoscere la realtà sul territorio, magari parlando con chi ci lavora.
“Evidence suggests that when cover crop roots break down, some of their carbon stays in the soil
Si ma poi segue
“anche se, come con la suberina, quanto tempo dura è una questione aperta”.
Credo che non ci si possa aspettare di riportare grandi volumi di carbonio nel terreno piantando colture senza aratura.
Ma è quello che si trova più o meno all’inizio dell’articolo.
Per quanto riguarda i pascoli, la mia era una domanda. Io non ne so niente di pascoli, se non per quel poco che si legge in giro. Tra l’altro sono contrario agli allevamenti intensivi e a tutto il resto che hai scritto. Semplicemente mi chiedevo se quello che si sostiene nell’articolo che ho linkato, cioè che si potrebbero integrare pascoli e arboricoltura in modo anche redditizio, fosse fondato. Quindi secondo te, in italia no, mi pare di aver capito.
Però in altre parti del mondo si potrebbe fare. È così?
Bene, se è così, allora sarebbe il caso di farlo, perché, per quanto ne posso sapere io, non c’è attualmente nessun altro sistema economicamente fattibile per sequestrare carbonio
dall’atmosfera.
Ho scritto dal telefonino, perciò potrebbero esserci i soliti errori, ripetizioni ecc.
“Tutto il resto che hai scritto”
Cioè distruggere aree verdi agricoltura industriale ecc
Sì, secondo me certo che si possono integrare alberi e pascolo, è quello che nel mio piccolo sto cercando di fare! Forse mi sono spiegata male. Dicevo solo che in Italia i margini per farlo non sono molti se prima questi pascoli non li creiamo dove non ci sono più, cioè nelle immense aree urbanizzate o coltivate industrialmente. La scomparsa dei pascoli, dei boschetti e dei terreni comuni è una conseguenza della messa a coltura (soprattutto cerealicola) di queste aree per sostenere la Rivoluzione Industriale e una popolazione sempre crescente. Tornare indietro non sarà facile, perché c’è meno terreno a disposizione e perché questa transizione comporterà una riduzione delle rese e quindi dei consumi.
Per quanto riguarda le montagne, sto ancora cercando di capire se è vero o no che bisogna eliminare la vegetazione arborea per prevenire gli incendi, che mi sembra un controsenso (il bosco brucia, distruggiamo il bosco!). Jacopo, magari puoi aiutarci tu. Io davvero non riesco a capire come antropizzare e disboscare sia la soluzione agli incendi (perché è questo che si intende con “cura del bosco”), ma non sono competente.
Per quanto riguarda gli “altri sistemi” per riassorbire CO2, penso che non si possa prescindere da una riduzione dei consumi E della popolazione (non violentemente, si spera). Puoi piantare alberi dove vuoi, ma se poi hai sempre più gente da sfamare, e la gente oltre al cibo vuole comprarsi mille altre cose, alla fine quegli alberi o altri finirai di nuovo per tagliarli per far posto a colture, case, strade, villaggi turistici…
“bisogna eliminare la vegetazione arborea per prevenire gli incendi”
Nelle regioni del sud italia e nelle isole, e’ pratica ancestrale dei pastori incendiare la macchia e il bosco per riottenere il pascolo. E’ noto a tutti salvo gli ambientalisti, i giornalisti e gli inurbati.
“bisogna eliminare gli alberi per prevenire gli incendi” è un capolavoro di assurdità emblematica di una mentalità che incontro spesso. Da dove proviene la citazione?
io:
“Nelle regioni del sud italia e nelle isole, e’ pratica ancestrale dei pastori incendiare la macchia e il bosco per riottenere il pascolo.”
Precisazione: lungi da me condannare aprioristicamente la pratica e imporre la mia legge.
Ultimamente hanno beccato due pastori in sicilia che addirittura riaccendevano gli inneschi, apertamente, MENTRE gli altri tentavano di spegnere gli incendi.
Sono pazzi? Sono “delinquenti naturali” come la nostra imparziale magistratura defini’ lo “psiconano”?
Ma forse si tratta solo di persone che si sentono in diritto di fare quello che fanno per antica pratica.
“Non si puo’ piu’ fare perche’ siamo troppi e c’e’ il riscaldamento globale?”
Potrebbero rispondere, e a ragione, che non e’ per colpa loro e del loro antichissimo modo di vivere.
Questo, e’ un esempio della nostra inconscia arroganza.
Quell’antico modo di vivere ha prodotto gran parte dei deserti e dei sub-serti attuali da cui i pastori affamati sono fuggiti per andare a cercare fortuna nelle città industriali. Tuttavia alcuni di questi ecosistemi oltremodo degradati hanno sviluppato dei veri tesori di biodiversità. La questione degli incendi è dunque complicata, ma resta il fatto che dare fuoco nelle condizioni climatiche attuale è criminoso. Anche dal punto di vista dei pascoli.
Winston
Da altro blog.
Non so se qui siano tolleranti sui commenti a ruota libera, come lo è Miguel nel suo blog.
Ad ogni modo, il fatto che io tenda al veganesimo non mi impedisce di vedere con favore certi tipi di allevamento rispettosi dell’ambiente e del benessere degli animali. Certo allevi quel che è possibile allevare, i costi della carne o del latte sarebbero alti. Io mi limito al consumo saltuario di ricotta
Costa poco, potrei pagarla anche il doppio senza andare in rovina.
Adesso mi sa che Simonetta mi cancella. Non lo biasimo.
Perché dovrei cancellare? Non sono accetti solo i commenti idioti e gli insulti personali. Le modalità di allevamento ed il prezzo dei prodotti animali sono un tema importante
@jacopo
“Perché dovrei cancellare? Non sono accetti solo i commenti idioti e gli insulti personali.”
Perche’ in altri blog della galassia a cui e’ abituato fuzzy, sembra che il criterio di cancellazione sia quello opposto 😉
Jacopo, non è una citazione precisa, ma è l’unica, e sottolineo unica, cosa che sento proporre come forma di prevenzione (e se vedi il commento sopra al tuo qui, vedi che è un’idea piuttosto diffusa). Dallo specialista di boschi (articolo sul Fatto Quotidiano di qualche giorno fa, se ti interessa provo a risalire) al sito Ruralpini a qualsiasi commento casuale online alla retorica che si sente sui media a quello che dicono i montanari… l’unica cosa che sento dire è che contro gli incendi bisogna tornare alla “cura del bosco”, e quindi, in varie combinazioni:
– eliminare il sottobosco (con capre, capre pascolate da arabi, africani o pakistani, capre pascolate da autoctoni, piccoli incendi controllati, taglio, ecc. Addirittura so di fondi europei dati a uno che portava asini a ‘pulire’ il bosco sul Carso, cioè mangiarselo. Così facendo il bosco non si rigenera però)
– riportare i pascoli (vedi sopra)
– ripopolare i borghi (perché??? ma lo dicono TUTTI)
– creare fasce tagliafuoco (questo forse ha senso)
Insomma, a me sembra che quello che stiano tutti proponendo, in soldoni, è di distruggere il bosco e il sottobosco così non c’è niente che può bruciare. Non riesco a interpretarla diversamente.
Non riesco a capire. D’altronde molte culture, dagli aborigeni dell’Australia agli indiani d’America a popolazioni dell’Asia o del Sud America, da molto tempo “gestiscono” boschi, foreste e campi con incendi controllati e periodici (in cui comunque muoiono animali). Si fa o faceva anche qui, anche se è illegale. In realtà ho letto che in Nord America esistono foreste adattate al fuoco… ma da noi no, che io sappia.
La mia personale idea è che dovremmo evitare di seccare l’ambiente deviando e intubando i corsi d’acqua; togliere la presenza umana in aree irrimediabilmente destinate a bruciare (è possibile che in certe zone il bosco non sia più possibile per motivi climatici) e, questo sì, evitare di avere boschi proprio a ridosso delle case. Ma non capisco come ripopolare i borghi e distruggere la vegetazione prima che bruci possa risolvere il problema. Eppure le mie idee ce le ho solo io, e quelle della “cura” del bosco ce le hanno tutti.
Non so se mi sono spiegata bene.
Ti sei spiegata benissimo ed è perfettamente in linea con il modo di ragionare corrente.
Ma è vero o no che bisognerebbe fare queste cose? Io per l’appunto sono perplessa ma non sono competente.
@Gaia
Su come gestire al meglio i rischi di incendio, anche nei boschi, trovi alcune pagine sul testo di Morrison Holgren Permacoltura ed quaderni d’ Ontognano.
Magari lo hai già.
La pratica di bruciare regolarmente il sottobosco in modo circoscritto per evitare l’accumulo di materiali combustibili, nel tempo, riduce la fertilità del suolo. Inoltre produce inquinamento.
Invece la presenza di animali che bruciano raso terra, (pecore, capre) riduce il rischio di incendio senza effetti collaterali.
Inoltre ci sono molti altri fattori che aumentano o riducono i rischi di incendio, ma non te li posso elencare tutti perché sarebbe una lista troppo lunga.
Questo ho trovato, perché mi ricordavo di averlo letto.
Poi non so se sia giusto o no.
Se non sei competente tu, che vivi in montagna, figuriamoci io che ho passato tutta la mia vita in pianura, dove c’è ogni tanto un albero striminzito in mezzo al nulla.
Brucano, le capre e le pecore.
Fuzzy, ho sentito anch’io cose simili, ma mi rimangono molte perplessità. Per esempio, a me risulta che le capre mangiano i giovani alberi, impedendo al bosco di rigenerarsi. Le pecore non trovano molto da mangiare nel bosco, perché mangiano principalmente erba, a differenza delle capre (cerca, se ti interessa, grazers vs browsers, non so come si dice in italiano). Quindi se si vogliono usare le pecore in funzione anti-incendio bisogna eliminare il bosco, e torniamo al punto di cui parlavo sopra.
Inoltre, nel bosco ci sono già degli erbivori, come ad esempio caprioli e cervi (dalle nostre parti). Nelle immagini dalla Sardegna ho visto cavalli bruciati dopo gli incendi (in Sardegna dovrebbero esserci i cavallini della Giara, che vivono bradi). Quindi la presenza di erbivori, di per sé, evidentemente non è sufficiente. Si potrebbe aumentare forzatamente il numero di erbivori, ma questo significherebbe antropizzare tutte le aree del mondo a rischio incendio. Inoltre, nelle zone dove ci sono troppi erbivori e nessun controllo (come predatori naturali o altro), per esempio in Scozia con i cervi, questi distruggono tutto e il bosco non riesce a ricrescere. È un problema talmente grosso che i cervi vengono uccisi in quantità spaventose per proteggere il bosco.
Insomma, la questione ancora non mi torna.
Si, ho dato una sfogliata al libro per quanto riguarda la questione pecore e capre.
Le Capre sono distruttive, come hai detto, e in numero elevato sarebbero incompatibili con la permacoltura. Ma possono stare in una foresta di alto fusto ben sviluppata.
Per periodi di tempo brevi si possono far pascolare in zone più delicate, se si legano a picchetti.
Su pascoli abbandonati invasi dai rovi ecc, si possono usare le capre per mettere sotto controllo la vegetazione.
Le pecore sono adatte alle zone esterne ( riferito alla permacoltura, altrimenti immagino che si tratti dei margini del bosco).
Non esiste una “medicina” buona per tutto. Ogni bosco è diverso ed in ogni bosco sono quindi diverse le misure di prevenzione che di dovrebbero prendere e che raramente sono anche quelle che si possono effettivamente prendere.
Ciò detto, ci sono alcune cose che potrebbero essere fatte a livello generale tipo rendere molto più severe le pene per i piromani, evitare meccanismi di mercato che avvantaggiano chi brucia, sistematiche e prolungate campagne di sensibilizzazione, rafforzare i servizi di vigilanza e antincendio, chiudere l’accesso (ove possibile) alle zone pericolose nei periodi di punta, razionare l’acqua in città per lasciarne di più in montagna, cambiare i criteri silvicolturali, ecc.
Fuzzy, tu stai parlando di come gestire un allevamento di capre in un contesto agroforestale. Però non tutti i boschi sono allevamenti, o di proprietà di privati; esiste anche la natura (ormai sempre meno) selvaggia, o anche semplicemente boschi destinati ad altro uso. Quindi la risposta agli incendi non può essere portare capre ovunque nel mondo.
Jacopo, grazie della risposta. Molta dell’acqua prelevata in montagna non è destinata alle città ma all’agricoltura, alla produzione idroelettrica, e al consumo della montagna stessa. Proprio stamattina parlavo con una persona quassù che mi diceva che una volta c’erano trote fino quasi in cima. Adesso non ci sono neanche più in basso. Ma la gente ha le piscine e lava la strada con l’acqua potabile. Per quello non capisco che bene farebbe aumentare la popolazione in montagna. Anche le vacche consumano molta acqua, e l’enorme afflusso di turisti in quota richiede bagni moderni, acqua potabile in grandi quantità, ecc.
Inizio comunque a chiedermi se non ci siano zone destinate a bruciare qualunque cosa facciamo. In fondo la storia della Terra insegna che il bosco va e viene, non è che c’è sempre dappertutto.
Certamente una parte consistente dei boschi bruceranno in gran parte del mondo. La strategia dovrebbe cercare di rallentare e gradualizzare il fenomeno, oltre che facilitarne il ritorno. Ancora una volta, esattamente il contrario di ciò che stiamo facendo (sfruttare quello che c’è, sperando che domani ce ne sia magicamente dell’altro).
@gaia
“Inizio comunque a chiedermi se non ci siano zone destinate a bruciare qualunque cosa facciamo. In fondo la storia della Terra insegna che il bosco va e viene, non è che c’è sempre dappertutto.”
Ma non col ritmo incalzante, sempre piu’ incalzante, dettato dalla presenza umana.
Correre correre correre che altrimenti qualcuno ci sorpassa e arriva primo al posto nostro.
Stiamo al resto del mondo, salvo che i microrganismi che qualche spazio di liberta’ ancora se lo prendono, e qualche problema ancora ce lo creano, come quell’eroe dei fumetti che si muove talmente in fretta da risultare onnipotente e invisibile.
Un equilibrio (naturale), una volta intaccato, e per intaccarlo puo’ bastare un’azione che magari a noi sembra utile o irrilevante, tipo l’eradicazione dei grossi predatori, puo’ richiedere un tempo indefinito o geologico perche’ si ricostituisca (vedi il sottile strato fertile in islanda dilavato sul fondo dell’oceano in pochi secoli per merito della eccessiva e sbagliata pastorizia in un ambiente troppo marginale, introdotta dagli europei, superbioambientalisti per gli occhi attuali, nostri antenati). Senza i grossi predatori si moltiplicano a dismisura gli erbivori che a loro volta distruggono il bosco impedendone il rinnovo. E se gli ungulati vengono predati dall’uomo invece che dai predatori naturali, l’uomo a sua volta comunque distrugge i boschi per ottenere cibo dalla pastorizia e dall’agricoltura e moltiplicarsi a dismisura, a differenza di qualsiasi altro predatore apicale che e’ e deve essere raro sulla terra.
In australia prima hanno portato i topi, poi i gatti, poi hanno cacciato i gatti dagli elicotteri perche’ erano troppi e mangiavano tutti gli animaletti, infine sono sommersi dai topi di nuovo.
Se piantiamo un albero a lenta crescita in qualsiasi posto in italia, anche il piu’ sperduto, non fara’ mai in tempo a crescere perche’ nel frattempo in quel posto faranno in tempo a passare dieci uomini diversi, con dieci progetti diversi, che faranno e disferanno qualcosa, ognuno facendo il bene secondo il suo senno del momento. Nella pianura padana non e’ rimasta quasi nessuna farnia, e’ rarissimo vederne una, che fino a mille anni era l’albero endemico.
Stiamo convertendo la biomassa terrestre in biomassa umana e relativi servi animali e meccanici con enorme rapidita’ ed efficienza. E non come un cancro disorganizzato, ma con un’organizzazione sociale perfetta e superefficiente, superiore come effettivita’ a quella di qualsiasi insetto sociale.
Oltretutto, noi moderni meccanicisti, percepiamo l’equilibrio e la ricchezza naturale come caos da eliminare. Essi sono troppo complessi e incomprensibili per i nostri cervelli astratti, amanti delle linee rette, dei cerchi perfetti, del prato inglese, e dell’idea di dio (e Stato) a nostra immagine e somiglianza di demiurghi onnipotenti ordinatori di ogni geometrica perfezione.
Per questo sono molto scettico sul fatto che la mentalita’ aggressiva e interventista, che e’ la stessa che ha creato i problemi, possa risolverli. La parabola misera del movimento ambientalista lo dimostra, con tutte le sue idee bislacche e fantasiose che alla fine sono state usate solo per produrre ulteriore crescita, tassazione piu’ o meno surrettizia per costringere tutti a correre sempre di piu’ per restare a galla (e questo l’avrai capito anche tu alla fine), e PIL. Lo stanno facendo anche adesso, col PNRR. A seguire avremo il “avete vissuto sopra le vostre possibilita’, e adesso dovete pagare il debito, correndo e producendo ancora di piu'”. Scommettiamo?
Winston e Jacopo,
ho letto le intercettazioni dei tizi in questione e mi sembra che il loro comportamento fosse consapevolmente criminale. Io penso che uno dei problemi principali nel discutere cosa sia giusto e cosa sbagliato stia nel prescindere dal contesto – ci schieriamo “pro” o “contro” certe cose, anziché assumere posizioni che tengano conto della complessità (non mi riferisco a voi). Ci sono delle cose che sono sbagliate a prescindere, ma altre che vanno contestualizzate.
Ho letto che la pratica dello “slash and burn” (taglia e brucia o, apprendo ora, “debbio” in italiano) è sostenibile se fatta a intervalli lunghi in aree molto vaste. Aree così vaste qui non ce n’è più. Senza contare che gli animali bruciano vivi e quindi non è una pratica molto etica.
Secondo me è più arrogante, Winston, dire “io faccio quello che ho sempre fatto e me ne frego se i tempi sono cambiati”, piuttosto che far notare che non è il caso di fare certe cose.
Mi dispiace che non si riesca ad andare oltre la demonizzazione vs idealizzazione del pastoralismo. Anche qui, dipende dal contesto: il pastore può distruggere la vegetazione così come ripristinarla; dipende dal luogo e dal carico. Ho notato che da quando metto le mie pecore in terreni che precedentemente venivano falciati (e il fieno buttato nei dirupi o bruciato) l’erba è più fitta e cresce più in fretta. Cambia anche un po’ la composizione delle specie, e questa è una cosa a cui sto prestando attenzione per non fare danni inconsapevolmente.
” l’erba è più fitta e cresce più in fretta”
Be’ certo, gli agricoltori da sempre danno in uso temporaneo i terreni ai pastori proprio perche’ li fertilizzano. Il sovescio e’ meglio se prima e’ pascolato da un gregge. E’ il ciclo del carbonio e dell’azoto.
“Secondo me è più arrogante, Winston, dire “io faccio quello che ho sempre fatto e me ne frego se i tempi sono cambiati”
Guarda che non lo puoi dire dall’alto della cultura che i tempi li ha cambiati e li sta cambiando a velocita’ esponenziale, a cui appartieni volente o nolente anche se personalmente adesso te ne stai ritraendo, a chi invece bene o male aveva trovato un modus vivendi che e’ durato millenni se non decine di millenni. Non hai mai preso un aereo per andare di la’ del mondo a fare cose che potevi benissimo fare qua? Ognuno ha la sua pena, “non giudicare!”, si diceva un tempo.
Non mi sto ritraendo da un bel niente. E non penso si possa difendere l’allevatore che, nel bel mezzo dell’estate più calda mai registrata e della stagione degli incendi, cerca di allargare i suoi pascoli appiccandone altri. Non è un buon selvaggio, è un delinquente.
https://www.teatronaturale.it/pensieri-e-parole/associazioni-di-idee/36460-danni-per-un-miliardo-di-euro-per-la-siccita-e-ondate-di-calore.htm
Circa 300 miliardi di metri cubi d’acqua che cadono annualmente in Italia, ma per le carenze infrastrutturali se ne trattiene solo l’11%
Il progetto – conclude la Coldiretti – prevede la realizzazione di una rete di piccoli invasi con basso impatto paesaggistico e diffusi sul territorio, privilegiando il completamento e il recupero di strutture già presenti, progettualità già avviata e da avviarsi con procedure autorizzative non complesse, in modo da instradare velocemente il progetto e ottimizzare i risultati finali. L’idea è di “costruire” senza uso di cemento per ridurre l’impatto l’ambientale laghetti in equilibrio con i territori, che conservano l’acqua per distribuirla in modo razionale ai cittadini, all’industria e all’agricoltura, con una ricaduta importante sull’ambiente e sull’occupazione.
@Gaia
“la risposta agli incendi non può essere portare capre ovunque nel mondo”.
Tu scrivevi
“Per esempio, a me risulta che le capre mangiano i giovani alberi, impedendo al bosco di rigenerarsi. Le pecore non trovano molto da mangiare nel bosco, perché mangiano principalmente erba, a differenza delle capre (cerca, se ti interessa, grazers vs browsers, non so come si dice in italiano). Quindi se si vogliono usare le pecore in funzione anti-incendio bisogna eliminare il bosco”,
E io ti ho risposto semplicemente su questo punto.
“tu stai parlando di come gestire un allevamento di capre in un contesto agroforestale. Però non tutti i boschi sono allevamenti”
Ho cercato alcune informazioni in un libro di permacoltura, ma se tu guardi a come sono organizzate le zone 4 e 5 in un sistema di permacoltura vedrai che gli elementi di cui si discuteva, pascoli, foreste ecc ci sono tutti. E ci sono pure la gestione dell’acqua e degli incendi. Questi ultimi vengono presi seriamente in considerazione (con suggerimenti generici da adattare ai vari contesti) per la presenza di settori a rischio.
Mollison scrive che dopo molti anni, una permacoltura evoluta dovrebbe diventare praticamente immune da incendi, come una foresta pluviale.
Ripeto, io non ne so niente. Riporto quello che ho letto.
Altrimenti detto “ambasciator non porta pena”.
@fuzzy
In pianura dalle mie parti il “pubblico” sta riadattando vastissimi appezzamenti, anche da molte decine di ettari e tutti di ottima terra agricola, a “zona umida”, con gran gioia degli ambientalisti, anche se dal punto di vista pratico il motivo primario credo sia la creazione di cosiddetti bacini di laminazione per scongiurare le alluvioni in occasione di grandi piogge (nel frattempo quasi tutte le nuove abitazioni, per nuove si intende dell’ultimo mezzo secolo, hanno costruito un piano interamente interrato perche’ cosi’ poteva aumentare la volumetria massima che altrimenti non sarebbe stata consentita dai piani regolatori, che regolano minuziosamente la distanza minima dai confini, altezza massima eccetera – e forse c’era anche un motivo fiscale, cosi’ si evitavano alcune salate gabelle/oneri applicati ai piani fuori terra, ma di questo non ricordo).
D’altra parte, prima della invasione completa da parte dell’uomo avvenuta probabilmente durante l’ultimo millennio, la gran parte della pianura era di fiumi impaludati, le bonifiche non sono certo solo quelle fatte durante il “ventennio”, quelle sono solo le ultime. Adesso fa un po’ ridere che, dopo solo qualche decennio, contrordine compagni, si cambia tutto di nuovo, si fa il contrario! Ma fino a quando non si invertira’ di nuovo la rotta? E sempre con la sincera, se non fanatica convinzione di salvare il mondo per come lo lo intende la moda del momento…
Comunque, in pianura le piu’ belle se non uniche zone naturalistiche sono le vecchie cave abbandonate. Anche in questo caso, e’ paradosso che una delle attivita’ piu’ esecrate dall’ambientalismo poi venga riconosciuta come altamente pregevole e venga fatta oggetto, di nuovo, di fanatica protezione. L’unica cosa che non manca mai nei secoli, e’ il fanatismo delle buone intenzioni.
Ma non c’e una cosa fatta dall’uomo che per riparare a un danno non ne abbia creati due… e’ il famoso R con zero dell’azione umana…
Questa è malafede! Non è che gli ambientalisti sono improvvisamente entusiasti delle cave. Semplicemente, se si riesce a recuperare qualche briciolina di ambiente naturale, sia pure negli spazi scartati dall’industria, ben venga.
E neanche credo che le bonifiche di secoli fa possano essere addebitate agli ambientalisti di oggi.
Fuzzy, nessuna pena, rispondo solo. Conosco Mollison, che però parla di un contesto diverso dal nostro, non solo più soggetto agli incendi naturalmente, ma in cui ci sono enormi proprietà in mano a singole aziende. La nostra realtà non è questa. Buona parte dei boschi che bruciano in Italia, ad esempio, a quanto so non sono parte di aziende agricole, ma sono beni pubblici o privati che occupano grandi estensioni di quasi solo bosco o solo bosco. Pensare di applicare le idee della permacultura (che io seguo, tra l’altro), che presuppone in questo caso grandi estensioni a varia destinazione tutte in mano a una singola attività plurifunzionale, a un contesto completamente diverso, di agricoltura più specializzata, e soprattutto ad ambienti quali parchi naturali (nei quali non si fa agricoltura o la si fa marginalmente), non ha senso. Sono proprio due contesti diversi. Tu stai citando una cosa che risponde al 10% (mettiamo) del problema e non ha quasi niente da dire sul restante 90.
Riguardo agli invasi, Coldiretti può dire quello che vuole: io non mi fido. Piccoli bacini di raccolta dell’acqua localmente, sì, sono d’accordo, ma solo sulle proprietà agricole, ed entro certi limiti. In montagna non è possibile farli senza sbancare i versanti (danno irreversibile) e spesso anche prosciugare i fiumi (vai a vedere gli invasi per l’innevamento artificiale), inoltre si tratta di strutture artificiali che impediscono l’abbeveramento alla fauna selvatica oppure costituiscono un pericolo mortale per essa, come i canali di irrigazione o i sopracitati laghetti, con base in plastica o cemento. Sono strutture fortemente innaturali, che, essendo l’acqua scarsa, entrano in competizione con i corsi d’acqua naturali e ospitano poca o nulla biodiverità. E tutto questo perché non si vuole ridimensionare il ricorso all’acqua in agricoltura, ridurre la produzione e lo spreco, produrre più sostenibilmente, addirittura ripristinare pesca, caccia e raccolta (entro certi limiti, siamo troppi ormai) come sistema di approvvigionamento di cibo. Mi leggo tutti i numeri del giornalino di Coldiretti. Sono super antropocentrici e agriculturalcentrici. Sono quelli che fanno arrivare gli incentivi agli allevamenti intensivi, per capirci.
Scusa, aggiungo: la tua citazione dice che si trattiene solo l’11% dell’acqua che cade. Questo per me vuol dire pensare che TUTTA l’acqua serve solo per gli umani, e che le altre forme di vita si arrangino. Loro ragionano così.
In pianura forse le cose sono più semplici.
L’acqua cade e va sui terreni agricoli. Boschi non ce ne sono. Oppure finisce nelle fognature.
La campagna qua e là è puntellata dagli stagni che si usavano per far macerare la canapa. Quest’anno, malgrado la siccità che c’è stata, conservano ancora delle riserve d’acqua. (ma in genere questa si attinge dai canali d’irrigazione).
Io immagino che i laghetti di equilibrio potrebbero assomigliare a questi che noi chiamiamo “maceri”. Ma un macero può occupare anche un ettaro di terreno e oltre.
Chi rinuncerebbe al terreno per avere un macero?
Certo, l’acqua non verrebbe dispersa, e in più si creerebbe intorno al laghetto un ambiente naturale di alberi, animali acquatici e altro , ma tutto ciò avrebbe un costo.
Purtroppo non si possono fare le nozze coi fichi secchi. Chi paga?
https://www.ciwf.it/nonnelmiopiatto/abuso-delle-risorse/acqua/
Se questi vogliono fare i laghetti e contemporaneamente continuare con gli allevamenti intensivi, la vedo dura con l’acqua. Tra l’altro cambiando il clima cambiano anche le possibilità di produrre certe specialità dell’agricoltura da reddito.
Ad esempio mi spiegavano in un agriturismo del luogo, che il famoso prosciutto “Culatello” tipico della zona parmense, non viene quasi più prodotto perché con i cambiamenti climatici non stagiona più in modo ottimale. Chi cerca il Culatello oramai deve accontentarsi della sua parente povera, la “Culatta” stagionata in montagna. Oddio, è buona ugualmente, dicono, ma non è la stessa cosa.
Come dici tu, non si ha niente in cambio di niente. Ho da poco comprato un terreno e sto pensando a come avere una fonte d’acqua senza attingere a quella dell’irrigazione. Ovviamente dovrei sacrificare una parte di terreno, e poi, appunto, un conto è avere a disposizione l’acqua dei fiumi o delle falde (caduta o in tempi o in luoghi molto più ampi del tuo campo e del tuo ciclo annuale, quindi prelevata da altrove), un conto doverti accontentare dell’acqua che piove sul tuo terreno. Non solo lo spazio a disposizione per le coltivazioni, ma la resa stessa ne soffrirebbe. I prodotti potrebbero essere meno acquosi e più buoni, ma i vende a peso, non a sapore. C’è un motivo se si è sempre prelevata l’acqua dai fiumi, da millenni.
Sembrerà assurdo, ma i migliori alleati in questa battaglia potrebbero essere i pescatori. Ahimè, sono tra i pochi a essersi accorti delle conseguenze del prelievo di acqua da fiumi e laghi.
Prendo la stura dal “contrordine compagni” di Winston per rilevare come rimanendo fermi in questo folle circolo pseudo progressista si finisca sovente con l’essere ben più “avanti” di quanto si pensi. Da noi in Sardegna laddove il finto progresso non giunge o comunque giunge con estremo ritardo, il sistema allevatoriale tradizionale, quello ancora più diffuso, si svolge esattamente come descritto da Gaia ( la cui intrapresa trovo encomiabile) e cioè in modo estensivo, sia in pianura che in media e alta collina, su pascoli alberati o cespugliati. Non vi è dubbio che si tratti di pratiche più che sostenibili, ma come altresì detto da Gaia, non penso affatto che sia una ricetta esportabile altrove. Piuttosto è necessario difenderla da tutta quella rete di criminali istituzionali, mi riferisco ad associazioni di categoria, confcoop ecc. che stanno spingendo anche qui la pastorizia a “modernizzarsi”. Quanto alla pratica del fuoco posta in essere dai pastori per stimolare, con l’abbrucciamento delle stoppie e dei cespugli, la nuova crescita vegetativa e guadagnare superficie da pascolare ai rovi ecc., va detto che essa non è più da tempo la principale causa degli incendi in Sardegna, essendovi ora altri interessi ben più esecrabili legati al business dello spegnimento e della riforestazione. Ora dopo IL DESOLANTE incendio del Montiferru, che ahimè ha toccato anche miei terreni, qui è partita la delirante discussione : il bosco è abbandonato, deve essere tenuto pulito, deve essere gestito, deve essere riforestato, deve essere…… Ritengo che il bosco debba essere semplicemente lasciato in pace ( e preservato finanche dalle capre, animali splendidi ma esiziali per il bosco e soprattutto per i ricacci vegetativi ),anche affinché con i suoi lenti tempi di decomposizione della biomassa sequestri quanto più possibile il carbonio. Ma come dice rettamente Winston, l’omuncolo non può resistere alla stupida tentazione di riformattare tutto secondo i suoi schemi, e, qui in fondo troviamo tutta la dimensione tragica dell’avventura umana. Sono d’accordo con Jacopo, può essere solo la mera dissoluzione dell’esistente a salvare quel che si potrà salvare ma temo il peggio poiché, da un lato le forze ripianificatrici sono soverchianti, e non mi riferisco solo a quelle che intendono perpetuare l’ordine capitalista ma anche a quelle che in buona fede continuano a pensare che si debba curare e salvare il pianeta; dall’altro l’uomo antropologicamente inteso si va ahimè totalmente scollando dalla realtà di cui invece è pregna questa discussione.
Intanto, i lupi stanno colpendo sempre di più anche qui in Friuli. So che non mi renderò popolare, ma questa è una delle più grosse minacce alla pastorizia al momento – non tanto il lupo in sé, quando l’ostinazione a proteggerlo senza limiti, senza buon senso e senza deroghe, conseguenza di un (finto, secondo me) ambientalismo che non concepisce l’equilibrio, l’adattamento, la mediazione e il contesto, ma ha solo totem e assoluti. Per i “grandi carnivori” si sta sacrificando tutto il resto.
C’è un ambiente che deve essere tenuto selvaggio, perché il pianeta non è solo degli esseri umani, ma c’è anche un ambiente in cui dobbiamo poter vivere decentemente e produrre sostentamento. Ormai la nuova moda dell’ambientalismo è questo sogno (incubo): grattacieli idroponici e sovraffollati circondati da natura selvaggia. L’idea che noi potremmo anche fare parte di questa natura e trarne cibo in modo estensivo, anziché intensivo, non è più prevista.
Se arriva il lupo anche qui, altro che pecore: chiudiamo tutto e abbandonerò il mio progetto come già tanti hanno fatto (e no, i sistemi di difesa proposti non funzionano per la maggior parte delle realtà, non siamo in Mongolia).
P.S. Scusa lo sfogo. Hai prove che ad appiccare gli incendi siano quelli che ci guadagnano dallo spegnimento e dalla riforestazione?
Eppure ci sono economie pastorali che convivono coi lupi da sempre. Capisco bene che facciano dei danni e proprio per questo sono previsti dei rimborsi (lo sono ancora?). Capisco però anche l’ira. Personalmente non ho mai avuto problemi coi lupi, ma una bella notte di primavera un cervo pensò bene di venirsi a grattare i velluti su di un giovane castagno che mi stavo allevando “a mollichine di pane”; dell’albero non c’è rimasto gran che. Se lo avessi colto sul fatto forse una schioppettata gliela avrei tirata. Perciò penso che l’uccisione di un lupo dovrebbe essere punita con molto più rigore di adesso, con l’eccezione del pastore che lo ammazza “in flagranza”, proprio perché capisco la rabbia. Epperò chiedo a te che sei del mestiere, ti fanno più danno i lupi o i prezzi irrisori a cui devi vendere i tuoi prodotti, le regole assurde imposte da burocrati che non sono mai usciti dai loro uffici, la siccità ecc.?
Jacopo, perdonami la lunga risposta, spero sia interessante. I lupi finora non hanno fatto danni a me personalmente; se arrivano, però, io devo mollare tutto. Ho parlato con altri allevatori e sono quasi tutti disperati, tranne un mio amico che ha praticamente una montagna solo per sé e può tenere i cani (che comunque non bastano).
Subisco regolarmente danni da fauna selvatica – quest’anno i topi mi hanno distrutto quasi tutto, persino le piante di zucca, le faine vivono in paese e mangiano volpi e conigli, e di recente ho avuto, letteralmente, un corpo a corpo con una volpe. Il mio pollaio è stato decimato. Ho visto volpi e astori prendermi gli animali davanti al naso e non ho fatto niente (non solo sarebbe illegale, ma anche non ce la farei – ammetto che ho inseguito la volpe con un bastone, ma non l’ha dissuasa). Però mi chiedo quanto si potrà andare avanti senza un minimo di controllo della fauna selvatica – controllo non vuol dire sterminio.
Tu parli del cervo: pensa che qui alla gente i campi vengono spesso distrutti da cinghiali, cervi e caprioli. C’è chi ha recintato con la plastica, chi ha rinunciato proprio. Questi poi si cacciano, però, per cui ci è permesso vivere in una sorta di equilibrio per cui vedere uno di questi animali è una gioia, perché sono parte di un sistema, vivono qui con noi, e al limite abbiamo i mezzi per difenderci o recuperare il danno senza distruggere la specie – cosa proibita per quanto riguarda i lupi. È quando si proibisce alle persone di provare a creare un equilibrio, di reagire entro dei limiti, che scatta la rabbia di cui tu parli. Ormai sono l’unica a lamentarmi delle volpi: quasi tutti hanno poche galline spelacchiate sempre chiuse che fanno pena a vederle, ma almeno non vengono sbranate. Le volpi cacciano di giorno in paese ormai. E non credere che le persone odino le volpi, anzi. Ma è giusto far soffrire le galline per non intervenire sulle volpi?
Che io sappia, i pastori non sono autorizzati a fare NULLA nei confronti dei lupi per difendere il proprio gregge, altro che schioppettata. Se ti va, ti consiglio di leggere Ruralpini: la iper-protezione del lupo sta distruggendo la pastorizia sulle Alpi e sta iniziando a minacciare anche l’uomo. Ormai arrivano fin nei centri abitati.
Convivere con i lupi è possibile solo se ti è permesso di adottare sistemi di difesa attiva, non solo passiva. Sinceramente non conosco nessuna cultura pastorale che conviva con i lupi nel modo che adesso è imposto in Italia, cioè senza toccarli proprio e lasciando che si riproducono all’infinito. Ho visto un video tremendo dei pastori mongoli che ammazzano i lupi usando le aquile, e non conosco nessuna cultura indigena in cui non si caccino anche i predatori. D’altronde, i predatori stessi, in natura, si attaccano a vicenda per difendere il territorio. Il problema non è “convivere” con qualche lupo, ma avergli permesso, appunto, di riprodursi senza freni (e quindi ha sempre più fame, e preda sempre di più), e, cosa pericolosissima, di perdere la paura dell’uomo.
Il discorso dei rimborsi è complesso, non sempre vengono dati, ci sono delle condizioni alle volte onerose o difficili da rispettare, nessun pastore sopporta a lungo di veder distrutto il proprio lavoro (perché non ha senso, perché vuoi bene ai tuoi animali, perché una pecora che selezioni da anni è impossibile da rimpiazzare), e infine a lungo andare non ha senso pagare i pastori perché allevino capre e pecore da far mangiare ai lupi, dato che abbiamo anche sessanta milioni di italiani da sfamare.
Riguardo alla tua domanda, la risposta non è semplice. Come ti ho detto, danni i lupi a me non ne hanno fatti finora (altri predatori e animali selvatici sì, e non ho diritto a un euro di risarcimento), e le cose che tu citi sicuramente mi stanno danneggiando molto di più, ma secondo me sono facce della stessa medaglia. Prezzi bassi, burocrazia e regole assurde delle ASL, e persino il cambiamento climatico sono sia causa che conseguenza dello sviluppo di un’agricoltura industriale sempre peggiore. Io mi sono messa, anche un po’ per caso, a cercare di sviluppare un’agricoltura più sostenibile; paradossalmente, mi sono accorta che non poter controllare i predatori è funzionale all’agricoltura industriale, non alla sostenibilità. Gli animali in un capannone non vengono sbranati. I campi pieni di veleni e con nessuna biodiversità non vengono distrutti dagli animali selvatici (tranne i cinghiali), perché tutto viene ucciso prima che possa anche solo avvicinarsi.
Secondo me sbagli a dire che ci vorrebbero pene più severe per chi uccide il lupo; penso che, se vogliamo (e sono d’accordo) che la gente non si metta a sparare ai lupi a propria discrezione, bisogna trovare una soluzione concordata e programmata che limiti la specie, per cui ci siano aree intoccabili ma altre in cui i pastori hanno la priorità. Soprattutto, bisogna iniziare a capire che produrre cibo è una lotta per la sopravvivenza, e che se si continua a massacrare (nei modi che tu citi, e in quelli che dico io) chi lo fa sostenibilmente, alla fine resteranno solo le carogne che fanno terra bruciata attorno a sé.
Grazie della lunga risposta. E’ difficile parlare di corda in casa dell’impiccato e quindi comincerò da un dettaglio marginale: la questione del pericolo per gli umani. Non esiste un solo caso documentato di attacco di lupi sugli umani in tutta la storia europea, mentre sono molto comuni quelli da parte di cani. Questo non significa che non possa assolutamente accadere, ma certamente significa che non è una cosa di cui preoccuparsi quando solo in Italia il numero dei morti e feriti per altro tipo di incidenti è di molte migliaia l’anno.
Più complessa è la questione dei danni per discutere dei quali bisognerebbe avere sotto mano dei dati un tantino affidabili. Anche perché, per esempio, è vero che i lupi mangiano le pecore, ma assai più spesso mangiano cervi, caprioli, cinghiali e volpi che possono far danno anche loro. C’è poi da considerare il fatto che gli ungulati selvatici si stanno diffondendo in tutta l’Europa e sappiamo per certo che il lupo è un elemento indispensabile per una corretta gestione di queste popolazioni. E tutta l’Europa meridionale si sta ripopolando di lupi che vengono dall’Italia. Ciò significa che stiamo fungendo da serbatoio a vantaggio di altri territori dove ancora non ci sono. Il punto che sollevi non è però banale: quanti lupi? Quello che posso dirti è che in tutta Italia si stima che ce ne siano fra i 1.000 ed i 1.200. Il che significa uno ogni 10.000 ettari di bosco, senza contare pascoli e colture varie. Certo, localmente possono anche essercene di più, ma sono animali territoriali e dunque difficilmente si concentrano. Insomma, su questa faccenda girano troppe parole e troppo pochi fatti, da entrambe le parti. Il punto è infatti che il Lupo ha un valore simbolico fondamentale sia per chi lo vuole combattere che per chi lo vuole proteggere,per non parlare delle speculazioni economiche e politiche (soprattutto politiche) che stanno gonfiando su questa faccenda.
Un’ultima notazione a latere. Mio bisnonno diceva che ci sono tre modi per perdere i propri soldi: il più divertente è con le donne (o gli uomini), il più stupido è con il gioco ed il più sicuro è con l’agricoltura. Sono passati più di cento anni, e da questo punto di vista va solo peggio.
Jacopo, non voglio dare l’impressione di essere anti-lupo tout court, anzi. Il mondo non è solo degli umani (qui in paese sono l’unica a difendere il bosco mentre tutti vorrebbero solo prati). Quello che tu dici non è falso (tranne la storia degli attacchi), ma mi sembra riecheggiare le argomentazioni solo di una parte; provo a illustrare l’altra.
Riguardo alla fauna e all’indispensabilità del lupo nel controllarla, sono scettica, parchi naturali a parte. Gli animali che tu citi qui vengono regolarmente cacciati, per cui semmai il lupo mangiandoli sottrarrebbe ulteriormente cibo alle popolazioni, non il contrario. Inoltre alcuni dei luoghi in cui il problema di animali quali i cinghiali è più serio sono zone densamente abitate o addirittura urbane, in cui sarebbe impensabile far entrare i lupi, che tra l’altro possono mangiare o uccidere (questo mi sembra non sia in discussione) anche animali domestici. Certo, in un ecosistema completamente selvaggio non si può prescindere dai predatori; dove hai gente che caccia per mangiare, il discorso è più complesso. Non so se il mondo sarebbe migliore lasciando tutti i cervi ai lupi e mangiando solo polli di batteria.
Quantità di lupi: non credo a quei dati. Ruralpini sostiene che siano regolarmente e deliberatamente sottostimati (loro si basano sul numero di lupi investiti e sulle segnalazioni), e ho conosciuto allevatori che dicono che le autorità si rifiutano o esistano a certificare un’aggressione da lupo per non dover poi ammettere la presenza dell’animale. Le persone che hanno interesse a favorire la presenza del lupo (ricercatori, amministratori, gestori di parchi, guardie forestali) pesano più nella nostra società e mediaticamente di chi ha l’interesse opposto, che è isolato, spesso meno istruito, non ha altrettanti canali mediatici e spesso troppo lavoro per uscire anche solo dal proprio paese.
Sugli attacchi, qui ti sbagli. Sicuramente ci sono attacchi documentati nella storia europea, non voglio riempirti di link quindi se vuoi puoi cercare tu. Di solito quello che si legge è “non esistono casi documentati dall’800”, che è ben diverso. Alcuni attacchi in realtà sono molto recenti: addirittura leggo adesso che persino Wolf Alps, super pro-lupo, ammette un aggressione nel 2017 (rarissima, ecc ecc). Ci sono poi i casi non registrati o controversi. Non so quanto sia attendibile, ma qui trovi una carrellata piuttosto inquietante di aggressioni recenti: https://iocaccio.it/lupo-e-rischio-di-aggressione-alluomo-verita-bugie-e-mistificazioni/
Magari alcuni erano cani… ma tutti?
Io personalmente ho conosciuto una persona che ha memoria di un parente ucciso dai lupi. Se non ricordo male, in pianura.
Tra l’altro millenni del nostro folklore – che azzecca le caratteristiche di tutti gli animali, lo sto sperimentando ogni giorno – ci dicono che il lupo è pericoloso. In tutte le aree del mondo i grandi predatori attaccano l’essere umano; se qui non lo fanno più è o perché sono stati eliminati (che non è giusto, sono d’accordo), o perché hanno imparato a temere l’uomo. Ora questa paura l’hanno persa, ed è questa la cosa che mi spaventa di più.
Ti faccio un esempio: la volpe dovrebbe temere l’uomo e cacciare galline solo di notte. Come ti ho detto, ne ho affrontata di persona una, in pieno giorno, inseguendola con un bastone. Poco dopo era di nuovo lì. Mi guardava da vicino, cercando di capire il pericolo e se poteva colpire di nuovo (un momento speciale per me, nonostante tutto). Evidentemente aveva molta fame. Una caratteristica del predatore è l’astuzia e l’adattabilità, indispensabili per sopravvivere. Proprio ieri un’allevatrice mi ha detto che i lupi la studiano per mesi prima di attaccare. Se permettessimo ai pastori e ai cacciatori di ridurre leggermente la popolazione, e di ripristinare la paura reciproca tra orsi e lupi e uomini, sarei più tranquilla.
P.S. Purtroppo tuo nonno aveva ragione; riguardo agli incidenti stradali, non solo solo d’accordo ma è uno dei motivi per cui da quasi dieci anni rifiuto di salire su un’automobile privata anche solo per un passaggio.
Ci ho messo un poco di tempo, ma mi sono letto l’articolo linkato. Una volta spurgato del linguaggio ricercatamente ansiogeno, alcuni dei fatti riportati sono molto probabilmente falsi o da attribuire a cani, mentre altri sono molto probabilmente veri e si riassumono nel fatto che in caso molto particolari i lupi possono minacciare le persone od anche morderle. Nessun caso di ferite serie o di morte viene riportato con un minimo di attendibilità, cosa che non si può dire dei cani (cronaca di questi giorni a parte). E il fatto che sulle Alpi si segnalino un gran numero di aggressioni, mentre in Appennino meridionale no, si spiega in modo assai più realistico col fatto che i pastori ed i montanari meridionali conoscono i lupi, quelli alpini no. Quella della liberazione di lupi è certissimamente una bufala che gira fin dagli anni ’80 e della cui nascita sono stato personalmente testimone.
Ribadisco quello che ho detto: i lupi sono potenzialmente pericolosi, anche se molto meno di un sacco di cose che non ci spaventano solo perché ci siamo abituati. Se capita di averli intorno occorre quindi prudenza e non è impossibile che qualcuno venga morso, punto. Se stilassimo una tabella del rischio, l’essere morso da un lupo avrebbe un punteggio molto inferiore a quello di essere investito da una settantenne in bicicletta. I lupi sono sempre stati un problema concreto per i pastori, ma non hanno mai impedito la pastorizia. Neppure i pastori sono in realtà pericolosi per i lupi. Ogni tanto ne ammazzano uno, è vero, ma la vera minaccia mortale per i lupi è un’eterogenea accozzaglia di politicanti in cerca di voti, giornalisti e professionisti in cerca di soldi e mitomani in cerca di notorietà.
Se mi permetti di darti un consiglio, prendi le necessaria misure di protezione e sii prudente se ti vengono vicino, ma non farti abbindolare da loschi figuri cui tutto interessa, meno il tuo gregge.
Jacopo, non siamo d’accordo e quindi è inutile insistere, ti ringrazio per la pazienza nella discussione. L’unica cosa che mi preme sottolineare è che tu stai parlando per assoluti, per realtà statiche, “il lupo”, “la pastorizia”, “il pericolo”, mentre io cerco di vedere la cosa nel suo aspetto naturale e dinamico, non i lupi in assoluto o i pastori in assoluto ma questi lupi in questo posto in questo momento con questa gestione e questa economia. È come se, per capire il problema delle sparatorie in un quartiere di una città americana, la questione si riducesse al fatto che “i neri ci sono sempre stati e i bianchi anche”, o la soluzione fosse: “se vedi un uomo con una pistola, non farlo arrabbiare”.
Riguardo al farsi abbindolare, se posso permettermi, questo è il tipico atteggiamento (comune in molti campi, quali l’immigrazione) di chi pensa che se la gente comune (soprattutto i meno istruiti e i meno ricchi) pensa qualcosa è perché è ignorante o manipolata, mentre gli esperti sono necessariamente meglio informati. Conosco pastori sia sulle Alpi che sugli Appennini, conosco le verità “ufficiali” e quello che la gente vede, dice e racconta, per cui credo di non essere facilmente abbindolabile come supponi tu.
Il fatto che tu dici che i pastori meridionali conosco i lupi e quegli alpini no scarica tutta la colpa sui pastori, in modo secondo me piuttosto offensivo, mentre per ogni singolo elemento di questa storia, dal fatto che le cose vengano o meno segnalate alle differenze tra Alpi e Appennini e presenza antropica (hai idea di quanta gente ci sia sulle Alpi, turisti compresi?), ci sarebbe da discutere approfonditamente per capire meglio.
Scusa: le faine mangiano le galline, non le volpi.
Difficile aver prove, Gaia, quando non si individuano e processano incendiari. Certo é che le pressioni per stabilizzare e assumere forestali non sono solo un fenomeno siciliano o calabrese. Quanto alla riforestazione ora vedremo se si vorrá riforestare in senso tecnico, spendendo vagonate di soldi con cantieri di riforestazione, magari, come giá fatto in passato in modo assurdo, con conifere ( proprio sul montiferru loc. Pabarile ) , oppure si interverrá in modo mirato con pazienza, e minor spesa, aspettando i ricacci di varietá autoctone come ad es. il corbezzolo o l olivastro che sono capaci di riprese miracolose. Purtroppo il problema dei lupi affaccia questioni inquietanti e apparenti paradossi come evocati da Gaia, e cioé: sia in allevamento che in agricoltura ( ne so qualcosa ahimé ) siamo arrivati ad un punto di squilibrio tale che solo gli allevamenti intensivi e le coltivazioni protette, e cioé proprio ciò che ha causato gli attuali disastri, saranno nelle condizioni di proteggersi meglio dal , per cosi dire, dissesto antropico ed entropico dell agro.Un esempio tra i tanti : io coltivo hobbisticamente.. ho un ettaro di frutteto, ( risparmiato dal fuoco a differenza di un oliveto e di un area boschiva limitrofa ) )potete immaginare dove si son riversati volatili di ogni specie dopo che l incendio li ha privati delle piccole fruttificazioni spontanee. Che fare : coltivare per loro ( giá lo faccio accettando di dividere il raccolto, ma quest’ anno me lo “confiscano” in toto) oppure difendersi con impianto obbrobrioso e costoso di reti ecc. ?? Purtroppo solo quando si sta sul fronte si comprende bene quanto lo stato delle cose metta alla prova le proprie convinzioni.
Luca, grazie per entrambe le informazioni. Dovrebbero essere, oltre alla magistratura, i giornalisti ad approfondire, invece di inneggiare a soluzioni semplicistiche.
Ho gli stessi tuoi dilemmi. Si parla tanto di biodiversità, ma a un certo punto se vuoi vivere di agricoltura devi portare a casa qualcosa, e vederti mangiare tutto sotto gli occhi è desolante, per quanto tu ami leprotti, volpi e uccellini. (Come la gente che si vanta “io le mie galline e i miei conigli non li uccido”, giudicandoti negativamente perché lo fai, e poi compra la carne e le crocchette al supermercato)
E poi le persone pensano che la fauna selvatica mangi solo insetti infestanti e altra roba selvatica, e non capiscono che la mera presenza umana di fatto allestisce un banchetto molto più abbondante e accessibile di quello a cui sono abituati, e gli animali quindi si avvicinano!
Le riforestazioni forzose, così come anche lo sfalcio sovvenzionato per poi bruciare il fieno (comunissimo qui e il motivo per cui ho deciso di allevare), secondo me sono un esempio di quella logica del contributo pubblico e dell’iperinterventismo che ho denunciato nel mio libro contro i contributi all’agricoltura… non essendo riuscita a farmelo recensire in molti posti, lo propagando abusando dell’ospitalità altrui 🙂
Gaia, non credo né nella magistratura, che conosco da vicino guadagnandomi il pane da vent’anni come avvocato, né nei giornalisti. Il primo rappresenta ancora un ceto che, con poche eccezioni, vive e si muove all’interno del mito borghese, o meglio post borghese, tecnoprogressista e totalmente privo di sensibilità ecosistemica; idem per i secondi anch’essi perfettamente integrati al sistema ( Covid docet anche se su questo, avendo letto un post sul tuo blog credo siamo in dissonanza), ossequiosi al dictum dei propri editori e soprattutto profondamente ignoranti sui temi che si dibattono in questo blog o in altri della ” galassia Bardi” (che seguo da anni). Cadono davvero le braccia a sentire e leggere le baggianate che si pubblicano al riguardo.
Piuttosto, l’attualità sta mettendo alla prova il mio convincimento che siano i miti e cioè l’orizzonte inconscio di senso in cui si vive e non i complotti di singoli o di gruppi di potere a costituire la matrice degli eventi. Questo repentino mutamento di narrazione su cambiamenti climatici, CO2 ecc, oramai chiaramente percepibile e capillarmente diffuso anche in testate e media locali, mi fa pensare davvero che ci sia una sapiente regia alle spalle. Nè mi rassicura il fatto che si vada nella direzione giusta poiché ciò è solo apparente, visto che dei reali e profondi cambiamenti di paradigma ( metanoetici direbbe R. Panikkar) di cui vi è necessità, non frega un bel niente a lor signori , nè, ahimé, alle masse.
Gaia, c’è qualcosa ( che credo condividiamo) di profondamente umano, e quindi meraviglioso e da preservare, nell’imprecare ed al contempo amare quegli animaletti piccoli o grandi che disturbano le nostre intraprese nell’agro, le quali, pur se dignitose, sono in fondo pregne di Hybris, pretendendo, con maggiore o minore leggerezza, di occupare uti domini spazi che solo temporaneamente la natura ci dà, obtorto collo, in prestito. Capisco, però che per te volendo far reddito con le pecore i lupi siano un problema serio. Quì non li abbiamo ma nel tempo i pastori hanno imparato a difendersi dalle volpi, innanzitutto con la migliore conoscenza del territorio ( che non era solo un parcheggio per il bestiame ma un luogo di vita), con i cani e anche con mezzi deprecabili ( trappole ecc.), e tutto questo non ha affatto portato all’estinzione della volpe. Sono quasi sempre le strategie pianificate su larga scala ( che anche se con le migliori intenzioni finiscono sempre per portare effetti non previsti ed indesiderati) a minacciare le specie, non gli atti di legittima difesa, anche se plurimi.
Le campagne e le montagne sono credo i punti di osservazione migliori per comprendere la gigantesca aporia in cui siamo immersi o in altri termini, in quei luoghi tocchiamo con mano più che nell’artefatto mondo urbano, il senso dell’ eco-sistemicità e cioè il combinarsi di una molteplicità di elementi che ci mettono innumerevoli anni a trovare precari equilibri e che noi pensiamo di potere scombinare e ricombinare a piacimento nel breve periodo. Faccio un altro esempio legato agli incendi che mi pare calzante: a latere dello spegnimento dell’ incendio dei miei terreni parlavo con un forestale il quale osservava come molte aree di pascolo, specie bovine, abbandonate per l’anzianità dei pastori e la mancanza di ricambio generazionale, rimanendo intonse sono dei formidabili combustibili per il fuoco. Ebbene io, convinto da sempre della necessità del ritorno di molte aree al selvatico ( ed ho preservato questa destinazione in una parte dei miei terreni), ho sempre considerato positivamente il detto fenomeno di abbandono, ma ecco che sorge la controindicazione…. Non mi stupirebbe che la pratica del taglia e brucia di cui parli ( che qui non esiste) possa essere incentivata anche da noi proprio al fine di tenere ” puliti” i terreni non pascolati.
P.S. Acquisterò il tuo libro convinto di trovare anche li il combinarsi di riflessioni e di vitale esperienza rurale che fa, come si dice, tutta la differenza del mondo,
Il dilemma del ritorno del bosco è l’aspetto che ho fatto più fatica a capire da quando vivo qui. Se avessi un euro ogni volta che qualcuno mi ha detto, con sguardo nostalgico, indicando fino alle cime, “qui una volta era tutto prato”, sarei ricca. Nel nostro caso non credo che c’entri con gli incendi, anzi (quando parlo di acqua se ne fregano quasi tutti), ma con la sensazione di perdere il controllo e i mezzi di sostentamento tradizionali, e forse con l’effettivo pericolo di trovarsi, come sta succedendo in effetti, con il selvatico fuori dalla porta di casa (non solo volpi e faine, ma anche serpenti, ecc). Non mi hanno ancora del tutto convinto, ovviamente, ma nel mondo niente è solo bene o solo male, e quindi capisco anche se non condivido il loro punto di vista – paradossalmente, è proprio grazie a questo punto di vista che ho così tanti pascoli gratis 🙂
Sulla narrazione riguardo al cambiamento climatico, per me è molto semplice: la gente che decide ha trovato o crede di aver trovato il modo di farci un sacco di soldi. Tutto qui. Evviva, possiamo continuare con la crescita! Ovviamente, così, le energie rinnovabili creeranno e stanno creando problemi forse anche peggiori di quelli creati dal petrolio, ma chi se ne frega, la questione si porrà più avanti (questo è il motivo principale forse per cui ho smesso di leggere Bardi, oltre al Covid: non risponde mai su questo punto).
Se si inizia a parlare di distruzione di habitat, biodiversità, plastiche, è già più difficile conciliare l’azione su questi temi con la crescita economica. Ma stanno arrivando anche lì, per esempio sembra che si stiano cacciando gli indigeni dalle poche zone selvagge rimaste, per fare da un lato industria e agricoltura industriale, dall’altro parchi. L’adattamento delle persone al proprio luogo, di cui parli tu e che esiste anche se non va idealizzato, viene così soppiantato da ordini dall’alto (che è quello che sta succedendo con il lupo sulle Alpi, che non è tornato da solo e riguardo al quale le popolazioni umane non sono state consultate).
Io sarò contenta il giorno in cui, anziché litigare sul poco verde rimasto in montagna, si inizierà a mettere mano alle nostre atroci pianure, a cominciare da quella Padana. Io sto cercando di trasferire un po’ della mia attività a Udine, per fare la guerra al mais e al cemento 🙂
Gentilissimi,
avete toccato un gran numero di argomenti importantissimi e di difficile soluzione, infatti vi è in natura una molteplicità di situazioni per cui generalizzare è molto difficile. Oggi i mutamenti climatici, che in montagna sono più sensibili che in pianura, rendono ancora più arduo trovare soluzioni adeguate. Accenno solo ad un problema che sembra dibattuto, il pascolo. Un ricordo personale: anni fa avevo iniziato un rimboschimento con salici, frassini, betulle, ontani, per contrastare una frana in atto (chiamata localmente Boa Granda di Rumerlo a quota 1300 metri). Purtroppo un gregge ha distrutto la mia fatica e la frana prosegue il suo percorso foriera di gravissimi danni. La mia simpatia per pecore e capre è rimasta immutata (la capra è l’animale più produttivo in relazione al suo peso) però va governata all’interno del bosco e del rimboschimento con una recinzione. Non vi sono alternative. Per questo motivo è considerata dai forestali una “disgrazia”. La capra è leggera, rustica, adattabile, frugale, produttiva, autonoma, intelligente… è l’uomo che deve governarla. Per il pascolo libero è necessario che vi sia erba a sufficienza, altrimenti si adatta a scortecciare gli alberi d’altofiusto, o distruggere la rinnovazione. Secondo il sottoscritto il più grande pregio, dal punto di vista ambientale, sta nel fatto che, per il suo modesto peso, non rovina il terreno, al contrario del pascolo bovino, oggi effettuato da animali di peso esagerato e non più come un tempo da animali di dimensioni e peso accettabile. Anche per il pascolo di bovini andrebbe effettuata la rotazione del pascolo, con recinzioni adeguate.
Con simpatia
Silverio Lacedelli
Una delle funzioni ecologicamente importanti dei grandi predatori è infatti quella di costringere gli erbivori a spostarsi, anziché insistere sulle zone migliori fino ad averle degradate. Ovviamente questo vale per gli ungulati selvatici e non per quelli domestici i cui spostamenti dipendono da tutt’altri fattori. Questo era uno dei numerosi motivi per cui un paio di decenni or sono si parlava molto di sostituire gli ungulati domestici con i selvatici per la produzione di carne. Potrebbero dare produzioni superiori con impatti inferiori e nessun problema con i predatori, ma un passo del genere avrebbe richiesto una serie di riforme nei campi più disparati della normativa e delle abitudini talmente radicale che non se ne fece di nulla.
Silverio, se il gregge è entrato senza autorizzazione il proprietario ha agito fuori dalla legge. Ovviamente gli animali vanno recintati; come si diceva sopra, il ricorso alle capre va fatto con parsimonia, e le pecore tendono a danneggiare meno il bosco.
Jacopo, scusami se mi accanisco ma quello che scrivi non è proprio vero.
Innanzitutto, il pascolo gestito con le reti, se fatto correttamente, imita proprio il continuo spostamento degli erbivori inseguiti dai predatori, quindi non è determinato da altri fattori ma sostanzialmente funziona allo stesso modo, e così anche il vecchio spostamento con i pastori. Se però hai lo stesso i predatori, è inutile farlo perché ti mangiano gli animali loro e quindi oltre al beneficio ambientale hai zero prodotto.
Infatti, anche se tu continui a negarlo, è proprio il problema dei predatori che sta costringendo gli allevatori a rinunciare al pascolo vagante e a chiudere gli animali in un recinto che poi finiscono per esaurire; quindi il contrario di quanto dici tu.
Per quanto riguarda la proposta di cui parli, inizio a pensare che esista una specie di lobby di forestali o chi per loro che vuole distruggere la pastorizia, perché altrimenti un’idea così assurda non si spiega.
Innanzitutto, non capisco come facciano gli ungulati selvatici a dare produzioni superiori: come fanno a convertire lo stesso cibo in più carne, tra l’altro muovendosi di più? Magari qui però c’è qualcosa su cui sono ignorante io.
Ma gli animali domestici producono anche latte e lana. Se eliminiamo pecore e capre, cosa facciamo, rinunciamo ai formaggi? E tutti i vegetariani mangiano solo selvaggina?
Gli animali da allevamento sono stati selezionati nei millenni per essere più produttivi anche se più indifesi, quindi, di nuovo, non capisco come possano essere più produttivi gli animali selvatici, che invece si sono autoselezionati per sopravvivere con poco (l’animale domestico ha una maggiore disponibilità di cibo, e quindi si riproduce e ingrassa di più) e scappare.
E poi, come verrebbe presa questa carne? Con la caccia? Ma quella c’è già, non serve nessun cambiamento né di normativa né di abitudini. Le popolazioni montane, che avranno esagerato in alcune cose ma conoscono meglio il loro ambiente di tutte queste persone che non fanno altro che cercare di dir loro cosa fare, sanno già che è furbo integrare la produzione di cibo tramite agricoltura e allevamento con la caccia e la raccolta. Ma non esistono più gli spazi immensi necessari per vivere di sola caccia e raccolta, perché ci sono troppe persone (e troppi cani e gatti).
Riguardo al problema dei predatori, i lupo o l’orso devono mangiare tot: se togli le pecore e metti i cervi, non capisco come il loro consumo complessivo cambierebbe. Forse il cervo è più difficile da prendere, ma questo allora varrebbe anche per noi, quindi di nuovo non mi torna quale sia il vantaggio produttivo del sostituire un sistema che funziona, se ben gestito, e coesiste con l’altro, con: solo l’altro.
Non capisco questo accanimento contro la pastorizia e stili di vita tradizionali rodati nei millenni, e modulabili in caso di eccessi, quando la vera devastazione è altrove.
Beh, esiste un certo pregiudizio nel mondo ambientalista ad esclusivo favore del selvatico, ( non parlo di Jacopo )ma cosi facendo si cade dall antropocentrismo all ecocentrismo condannando l uomo ad abitare l’oikos come mero spettatore. La pastorizia a pascolo brado ha imparato nel tempo a porre in essere nel suo precipuo interesse buone pratiche in armonia con le proprie specificitá bioregionali, ossequiose, ad esempio, della capacitá di carico dei terreni. Penso alle rotazioni corte ( da noi cortissime, vista l estrema parcellizzazione dei fondi non accorpati) con cui si impedisce il degrado dei pascoli analogamente a quanto accade nel selvatico per la spinta continua dei predatori di cui parla Jacopo. Certo noi non abbiamo i lupi ( da cui ci si autodifende ) ma qui come altrove é in essere il vero problema da cui é più arduo difendersi, alludo alla spinta ad intensificare ed incrementare le produzioni, di cui ad esempio. é causa il fenomeno su cui mi capitò di scrivere :
https://appuntioristanesi.it/2019/02/19/chi-salvera-i-protettori-del-pecorino-romano-luca-perdisci/
( corrige)..di cui é EFFETTO il fenomeno su cui….
Paradossalmente, inizio a vedere un nesso tra la spinta ad intensificare la produzione e l’ambientalismo di cui tu parli, che vede l’uomo come mero spettatore. Mi riferisco non solo alle questioni già discusse sopra, ma anche a quanto scrivono famosissimi ambientalisti come David Attenborough e George Monbiot. A sentir loro, dovremmo vivere in un mondo di produzioni vegetali iper-intensive (fino all’agricoltura verticale nei grattacieli…) circondate da natura selvaggia. Tutto ciò che sta in mezzo, cioè l’estensivo, l’uomo integrato nel suo ambiente in un equilibrio precario ma reciproco… deve scomparire. Monbiot ha liquidato il pascolo come “inefficiente” e fa battaglia da anni contro i pastori (con una parte di ragione, ma esagerando).
Se l’agricoltura iper-tecnologica, in nome delle maggiori rese “per ettaro”, finisce per avere alleati così illustri, faremo la stessa fine dei fiumi imbrigliati e delle campagne coperte di pannelli in nome della “transizione energetica”.
È per questo che mi infilo in discussioni infinite su questi temi, che mi preoccupo così tanto… vorrei che ci rendessimo conto di cosa rischiamo di distruggere – un rapporto intimo e quotidiano, profondissimo perché basato sull’esperienza di ogni singolo giorno e sulla stessa nostra sopravvivenza.
E’ cosi ! Quel rapporto a cui alludi é originato dalla capacitá di sentire la vita é non di comprenderla e descriverla teoreticamente col logos, sia esso a declinazione scientifica o filosofica ( che pure amo ).Per questo non é altresi facile veicolarlo attraverso la mera discussione. Banalizzando, ma mica tanto…ieri ho finito di fare la conserva di pomodoro, anni addietro mi applicai in astrusi ragionamenti sulla sostenibilita’ e sulla convenienza economica di questa pratica piuttosto che procedere all ‘ acquisto del vasetto di conserva al market. Ragionai su economie di scala, eroi km 0 ecc,, tutti criteri e parametri opportuni ed utili per vagliare le nostre condotte, ma compresi che in quel caso poco centravano, perché in quella pratica, dalla semina del semenzaio alla chiusura e sterilizzazione dell ultimo vasetto si svolgeva e compiva un unica e speciale esperienza colturale e vitale che nessun astratto ragionamento e men che meno alcuna produzione agro industriale avrebbe potuto corrompere. P.S. purtroppo, ci stanno invece riuscendo le condizioni climatiche estreme. ..8 gg di continue temperature oltre i 40 gradi hanno davvero provato le colture ortive e non solo. Ecco perché, daccapo, la tecno agro industria rischia davvero di avere la meglio.
Anche perché è super-incentivata. Come sostengo nel mio libro, se potessimo competere ad armi pari, non so chi vincerebbe… ma i contributi, checché se ne dica, sono a vantaggio dell’agricoltura industriale e dell’industria a discapito dell’artigianato.
http://www.ilnuovoagricoltore.it/quando-lagricoltore-diventa-protagonista-sulle-etichette-alimentari/
Ci sono delle “vie intermedie”
che comunque stentano a farsi strada. Non ai sa come inquadrarlo.
Inquadrarle
http://www.ilnuovoagricoltore.it/ecco-perche-i-prossimi-cinque-anni-sono-decisivi-per-la-sopravvivenza-delle-aziende-agricole/
Nello specifico
Però:
“La soluzione ai cambiamenti climatici non passa dall’alimentazione o dai trasporti ma dalla finanza”.
https://valori.it/clima-capitalismo-intervista-francois-gemenne/
Fuzzy, quella é proprio la bibbia dell agroindustria o se vuoi il museo degli orrori….però devo dire che la locuzione “intensificazione sostenibile ” dell’ agricoltura nel suo abominio semantico mi ha strappato pure una risata…..ne parlerò a mio zio, allevatore di 82 anni,chiedendogli di metterla in essere senza indugio.
Luca
Le linee di sviluppo per l’agricoltura europea nei prossimi cinque anni,
Aumentare la fertilità dei suoli.
Valorizzare la diversificazione colturale.
Incrementare le produzioni/ettaro.
Salvaguardare sanità e qualità dei raccolti.
Diminuire gli input energetici e le emissioni.
Utilizzare meglio l’acqua di irrigazione.
Creare filiere a tracciabilità totale e favorire le aggregazioni.
A parte la voce incrementare le produzioni/ettaro ( Che potrebbe suonare un poco ambigua)
non mi sembra che ci si possa proprio schierare contro gli altri punti.
Casomai il problema potrebbe nascere sul come perseguire questi obiettivi
l’articolo dice
“No tillage” (NT, semina su sodo) e “Minimum tillage” (MT, minima lavorazione compreso strip-till) salvaguardano la struttura del terreno, migliorano la stabilità chimico-fisica dei suoli, aumentano il tasso di sostanza organica, favoriscono il ritorno dei microrganismi utili del suolo, la circolazione dell’acqua e dell’aria necessari alla vita delle piante. Oltre a contrastare i fenomeni erosivi, a sequestrare carbonio e limitare le emissioni di gas in atmosfera.
Questo è ciò che pensano coloro che hanno scritto la nuova politica agricola. E infatti per la prima volta tutti i PSR regionali sostengono, pur con diversità e anche qualche contraddizione tra una regione e l’altra, gli agricoltori che applicano d’ora in poi la semina su sodo, la minima lavorazione, lo strip-till e le cover crops (colture di copertura).
Certo si potrebbe obiettare che un approccio diciamo agroecologico come questo sarebbe più auspicabile
https://www.arc2020.eu/russia-2000m%c2%b2-of-hospitality/
E sono d’accordo.
Ma purtroppo bisogna fare anche i conti con ciò che sarebbe possibile e ciò che sarebbe utopia, in un paese come il nostro dove l’agricoltura è ancora quella dell’aratro, dei fertilizzanti chimici e dei pesticidi.
Pure diminuire il consumo di prodotti di origine animale sarebbe auspicabile, ma da questo orecchio in tanti non ci sentono.
https://ilsalvagente.it/2021/04/30/119947/
Nuovi ogm, probabilmente correlati alla famosa voce incrementare produzione ettaro.
Di questi se ne potrebbe volentieri fare a meno.
Fuzzy, se oggi l agricoltura é quella che dici tu : aratro, pesticidi, fertilizzanti chimici ecc é esattamente causa di coloro che oggi propongono nuovi miracolosi decaloghi, le cui voci non stanno insieme non solo nei campi ma neanche sulla carta. Costoro ai miei occhi hanno commesso il crimine dei crimini nel minare alle fondamenta la resilienza del mondo rurale che, ora,se si staccassero le spine di indennità compensative ecc sarebbe in larga parte morto. Perdona se sono tranciante al cospetto della tua garbata ed onesta replica, ma io queste imposture le ho toccate e le tocco con mano e ció mi basta e avanza.
Luca e Fuzzy, se posso intromettermi.
Riguardo all’aratro, ho appreso che lo usavano già i celti, quindi non ne darei la colpa all’agroindustria. Consiglio questo bellissimo libro: https://www.ucpress.edu/book/9780520272903/dirt che fa capire quanto sia antico il problema dell’erosione causato dagli umani. Solo che, siccome non ce ne si accorge in breve tempo, le società che aravano bene e aumentavano le rese a breve termine erano (e sono tutt’ora) considerate vincenti, anche se a lungo andare hanno distrutto la terra.
Riguardo al “decalogo”, sono d’accordo con Luca, nel senso che non è il cosa ma il come e il perché. È vero che stiamo assistendo a una presa di coscienza riguardo ad alcuni temi, ma, come per la transizione energetica, se il tuo obiettivo è mantenere il tenore di vita e il consumo energetico attuali, cambiando solo fonte, stai continuando a fare gli stessi danni o peggio. In agricoltura, chi propone riforme ma mantiene l’obiettivo dell’iper-produzione di cibo e della priorità assoluta dell’agricoltura su qualsiasi altra forma di “utilizzo” dello spazio, troverà il modo di fare danni lo stesso anche sotto queste belle bandiere verdi. Per esempio, in molti casi l’aratura è stata sostituita sì dal “no till”, ma con un ricorso massiccio agli erbicidi… dov’è il vantaggio? L’aratura permette di accedere in breve tempo a risorse accumulate a lungo, ma esaurendole: chi si rifiuti di fare questo, preferendo la sostenibilità, cioè il prendere solo quello che è in grado di rigenerarsi man mano, avrà meno rese ma potenzialmente molto più a lungo. Ma bisogna essere chiari su questo.
Un altro esempio da un altro campo: l’edilizia. I vari bonus, incentivi, eccetera, secondo me non sono volti tanto a ottenere un effettivo risparmio energetico, quanto a far girare soldi, agevolare l’edilizia, ottenere consensi e far lavorare agenti immobiliari, costruttori, impresari, geometri… Altrimenti, si sarebbero dati questi incentivi a case piccole, una casa a testa, criteri così, anziché a ville e seconde case. Inoltre, tante di queste tecnologie di fatto si traducono nel fare le case di plastica o cavare ancora più materie prime.
Questo non per negare la bontà delle idee che tu elenchi, ma per contestualizzarle.
Gaia
Per quello che ho capito, (ma sottolineavo che non riesco a inquadrare il fenomeno se non come una via intermedia tra le vecchie pratiche e quelle più sostenibili e auspicabili), l’Europa sta spingendo verso questo decalogo sotto la spinta delle lobby dell’agroindustria.
La cosa peggiore è che ci si basa sulla speranza che i nuovi ogm facciano funzionare tutto il sistema, ma nessuno lo ha ancora dimostrato, e col tempo potrebbero rivelarsi un fallimento.
Gaia hai mai visto un aratro tirato da un cavallo o da una giumenta ? Lo scasso che fa é risibile al cospetto di quello di un modesto trattore da 40 cavalli ( appunto ) . Parliamo della semina su sodo : negli anni 70 inizió, non a causa della follia di un pastorello incolto, ma dei fior di incentivi sempre di lor signori, la terribile pratica della ” bonifica ” dei terreni mediante spietramento. I terreni sono stati violentati , impoveriti e banalmente assoggettati a monocolture foraggere, creandosi anche un danno paesaggistico per le montagne di massi accumulatisi. Ed ora costoro fanno gli splendidi parlando di no tillage ?! Ma suvvia ! E si badi che non sto affatto dicendo che i pastori e le pratiche di un tempo originassero da chissá quale sensibilita ambientale, ma semplicemente che le stesse, se si vuole per eterogenesi dei fini, fossero in accettabile equilibrio ecosistemico.
Non vi é dubbio, Gaia,che stiamo assistendo a meri fenomeni gattopardeschi, posti in essere anche con lo spregevole pervertimento dello stesso linguaggio. Tuttavia siamo in pochi a ravvisarli ed a non cavalcarli per mero interesse.
Buona parte degli attuali deserti sono stati creati da pastori e contadini del passato, tuttavìa è vero che in numerosi casi pratiche colturali hanno creato ecosistemi ricchi di biodiversità e capaci di resistere a secoli di sfruttamento. A mio avviso, il motivo principale di questo risiede nella scarsa disponibilità di energia (appunto la differenza fra usare un cavallo e 40 – che poi oggi si va normalmente per i 100). Questo imponeva gradualità e tempi lunghi, cosicché la biocenosi aveva il tempo di adattarsi, tanto che esistono moltissime specie esclusive di ambienti antropizzati. La poca energia imponeva anche di pensarci bene, prima di fare qualcosa.
Per quanto sia un mio obiettivo utilizzare i cavalli in agricoltura, temo che l’aratura, anche fatta dal cavallo, sia sufficiente a distruggere il suolo. La dust bowl americana, credo, non fu causata da trattori. Altri danni sono stati fatti dall’irrigazione, ma su questo argomento ho trovato poche informazioni. Sembra che a lungo andare, oltre ai danni ai corsi d’acqua, provochi salinizzazione.
È vero che il sovrapascolo è disastroso per il terreno e la vegetazione. Però, mentre, a quanto mi risulta, non esiste un livello di aratura che non faccia danni, il pascolo ben gestito può essere migliorativo.
L’ideale sarebbe arieggiare solamente il terreno sollevandolo e riadagiandolo con una forca. Questo per non sconvolgerne gli strati.
Poi non bisognerebbe mai calpestare.
Non so se le moderne tecniche meccanizzate riescano a lavorare il terreno in questo modo. Ho visto in foto che si usano dei ripuntatori, e in teoria il principio sarebbe lo stesso.
Certo se si coltiva un’estensione grande poco più di un orto una lavorazione del genere si può fare anche a mano, (non dover rivoltare la zolla comporta un enorme risparmio di fatica) e altrettanto dicasi per la controversa questione del diserbo. (Con un buon lavoro di pacciamatura il diserbo diventa quasi superfluo).
Questo sistema però richiederebbe un gran numero di addetti o meglio di piccolissimi proprietari terrieri, cosa non conforme ai dettami della moderna ma oramai decadente civiltà industriale.
Non sono esperto dell’argomento, ma per quanto vedo gli effetti dell’aratura cambiano moltissimo a seconda di una serie eterogenea di fattori, dalla profondità alla frequenza e la velocità di lavorazione, passando per la pendenza, la tessitura, le rotazioni, ecc. In generale l’aratura impoverisce il terreno e si pratica soprattutto per controllare le infestanti, ma ogni campo ha la sua storia e le sue esigenze. Alcuni che conosco invece di arare ripuntano e dicono di trovarsi bene, ma non mi sentirei di dare consigli in merito.
L’irrigazione sala il terreno se si irriga molto e piove poco, come è la regola nei paesi tropicali. Per quel che ne so io, qui era un problema solo in alcune zone e nelle serre, ma le cose cambiano in fretta. Comunque, meno si irriga e meglio è per via della carenza di acqua.