Clima: mentre alluvioni ed uragani devastano mezzo mondo e gli incendi l’altro mezzo, è uscito il sesto rapporto dell’IPCC e prontamente si sono formati i consueti due “partiti”.  Da un lato una maggioranza che lo ha ignorato o quasi; dall’altra una minoranza di soggetti che hanno gridato che “bisogna agire subito per evitare il disastro”.  E poi?

Un poco di storia.

Per prima cosa, chiediamoci quanto ci sia di nuovo in questo rapporto. Tanto per farsi un’idea, questa è una carrellata non esaustiva di punti nodali nell’evoluzione della scienza del clima e del suo molto graduale sfociare in “grida di allarme” sempre più acute e, ciò nondimeno, inutili.  Almeno finora, il futuro rimane “in grembo a Zeus”.

1824: Jean Baptiste Joseph Fourier scopre lo “Effetto Serra”.

1896: Svante Arrhenius calcola che la combustione industriale del carbone provocherà un’alterazione della composizione dell’atmosfera ed un conseguente riscaldamento del clima, ma non si accorge che il fenomeno è già iniziato.

1938: Guy Stewart Callendar dimostra che la temperatura terrestre ha cominciato ad aumentare fin dal 1850 e che questo incremento è strettamente correlato al parallelo incremento dell CO2 in atmosfera.

1957 Roger Revelle dimostra che gli oceani assorbono una parte consistente di CO2 acidificandosi.  Non sta quindi cambiando solo la chimica dell’atmosfera, ma anche quella dell’idrosfera.

1958 Charles David Keeling avvia un monitoraggio della CO2 molto più preciso di quelli precedenti e nel 1961 pubblica dati che dimostrano un incremento costante di CO2, anno per anno.

1967 Il primo modello climatico computerizzato prevede un drammatico incremento di 2,3 C° a fronte del raddoppio della concentrazione di CO2 equivalente rispetto al 1850 (cioè passando da 280 a 560 ppm, nel frattempo siamo arrivati a quasi 450).  Le proiezioni attuali sono molto più accurate, ma non sostanzialmente diverse.

1988: James Hansen spiega al senato americano che il riscaldamento della Terra è una realtà, che è quasi interamente dovuto alle attività umane e che le conseguenze sono catastrofiche.

1990: Primo rapporto dell’IPCC che conferma quanto sostenuto da Hansen, sia pure in termini molto più edulcorati e “politicamente corretti”.

1992: Avviso per l’umanità dagli scienziati dal mondo.  1700 scienziati di fama mondiale, fra cui la maggioranza dei nobel per materie scientifiche, sottoscrivono e pubblicano un documento che indica nel cambiamento del clima, nell’estinzione di massa e nella sovrappopolazione i principali pericoli che minacciano la civiltà e finanche la sopravvivenza specie umana.

1995: Secondo rapporto dell’IPCC che conferma e precisa i risultati precedenti.

1998: Michael Mann, Raymond Bradley and Malcolm Hughes pubblicano il cosiddetto ‘hockey stick’ graph, che mostra che l’incremento delle temperature ha assunto un andamento esponenziale dall’inizio del XX secolo.

2001, 2007, 2013: Tutti i successivi rapporti dell’IPCC confermano la sostanza delle cose, chiariscono i dubbi residui, precisano osservazioni e scenari futuri, aggravando ed abbreviando via via le prospettive.

2017: Secondo avviso per l’umanità dagli scienziati dal mondo. Sottoscritto inizialmente da circa 15.000 scienziati (poi saliti a 25.000) ribadisce quanto detto nel primo, ma con toni assai più drammatici ed urgenti.

2021 Sesto rapporto dell’IPCC. Per chi volesse leggersi tutte le 4.000 pagine: https://www.ipcc.ch/assessment-report/ar6/; mentre per chi si accontenta di un buon riassunto: https://qz.com/…/what-does-the-ipcc-say-about-climate…/.
Alla fin fine, il tutto si può però condensare in poche righe:
1 – Il clima cambia in peggio ed è colpa nostra.
2 – Gli strumenti, le analisi, i modelli, ecc. migliorano di anno in anno, cosicché sappiamo che va sempre peggio sempre più in fretta.  Ad ogni rapporto gli effetti delle retroazioni che contrastano il fenomeno vengono rivisti al ribasso, mentre quelli delle retroazioni che riscaldano il clima appaiono sempre più potenti; le previsioni sono quindi sempre più fosche e il riscontro dei dati conferma spesso le ipotesi peggiori.
3 – Niente di ciò che è stato fatto e proposto finora sfiora minimamente il livello necessario non già per evitare, ma anche solo per mitigare la catastrofe.
4 – Oramai la resa dei conti è cominciata e peggiorerà comunque, anche in caso di provvedimenti seri. Ciò non toglie che questi siano ugualmente necessari e urgenti perché “un po’ peggio” è comunque da preferirsi a “molto peggio”.

In buona sostanza, sono almeno 30 anni che sappiamo quello che succede e, indicativamente, quello che succederà, ma che si è fatto in proposito?

30 anni di fiaschi.

I primi, blandi, tentativi di affrontare il problema risalgono agli anni ’90, con il famigerato “protocollo di Kyoto”.  Senza scendere in dettagli, possiamo distinguere una serie di fasi successive nell’approccio politico al problema.
La prima fu improntata all’idea che i meccanismi di mercato avrebbero potuto risolvere la situazione.  In sintesi, parte dei profitti realizzati emettendo CO2 potevano essere investiti per rimuoverla e per favorire la cosa furono messi in campo complicati sistemi di compravendita di diritti ad inquinare e doveri a compensare. Il risultato fu molta attività di lobby e di business, ma zero risultati pratici.
Preso atto del fiasco, si puntò sull’efficientamento delle filiere, la parziale sostituzione del carbone con il metano, ecc. nella speranza che una maggiore efficienza d’uso avrebbe comportato una sostanziale riduzione dei consumi. Purtroppo, il risultato fu esattamente quello opposto, come si sarebbe potuto prevedere sia sulla base di dati empirici risalenti fino a James Jevons, sia dall’analisi termodinamica di Ilya Prigogine).
La terza fase puntò soprattutto sulla diffusione di energie rinnovabili, molte delle quali risultarono però ancora peggio di quelle fossili.  In particolare, sovvenzionare l’uso del legname ha sortito effetti disastrosi sulle foreste, mentre le possibilità di sviluppo dell’idroelettrico sono risultate assai limitate in quando la maggior parte dei siti più idonei erano già sfruttati da decenni, mentre la capillare diffusione di questi impianti ha avuto un impatto devastante sui residui corsi d’acqua. Solare ed eolico hanno dato risultati assai migliori, ma anche loro non privi di impatti e con limiti consistenti nelle potenzialità di sviluppo.  Ad ogni modo, oggi coprono una frazione del tutto marginale dei consumi globali e non è realistico che questa salga in misura e rapidità sufficienti ad avere un impatto sul clima dei prossimi decenni (mentre saranno probabilmente molto utili per ammortizzare le prevedibili crisi energetiche).
Intanto, il differenziale da recuperare cresceva e per far tornare i conti si cominciarono a considerare tecnologie sempre più estreme come l’estrazione diretta di CO2 dall’atmosfera per iniettarla negli ex-giacimenti di petrolio e gas, fino a fantascientifiche “geoingegnerie” di fattibilità ed efficacia sempre più dubbia. Al meglio, per ora, abbiamo degli impianti sperimentali; più spesso abbiamo solo delle ipotesi più o meno stravaganti e, comunque, niente di tutto ciò appare realmente fattibile; perlomeno non entro i tempi necessari.
All’atto pratico, la relativa riduzione dei consumi di USA, EU e Giappone sono avvenuti assai più in conseguenza della pertinace crisi economica che di tutto il circo di chiacchiere e progetti che si sono messi in ponte.  Riduzione peraltro trascurabile rispetto all’aumento che nel frattempo si è registrato nel resto del mondo ed in particolare in Cina, che risulta oggi il maggior produttore mondiale di gas climalteranti.
Dunque un fallimento totale che necessita di una spiegazione perché ad esso hanno comunque collaborato non solo politici ed imprenditori, ma anche migliaia di tecnici molto competenti nei rispettivi campi.
I motivi sono in realtà molti e non sempre gli stessi per tutto il periodo e per tutti i paesi, ma in ultima analisi, il fallimento era inevitabile perché, fin dall’inizio, il problema è stato affrontato dando priorità al sistema economico, piuttosto che alla Biosfera. In pratica, quello che finora si è cercato e si continua a cercare è un modo per salvare la civiltà industriale ed il capitalismo, non la Biosfera.  Un approccio suicida, visto che è la biosfera che consente all’industria, al capitalismo ed all’umanità stessa di esistere.  Ma questo è un concetto che ancora non è penetrato nelle menti dei più e con buone ragioni perché ammettere che per salvare noi stessi bisogna salvare tutto il resto, significherebbe accettare di sacrificare noi stessi in misura molto consistente.  Cioè rinunciare non solo al benessere, ma anche a molte delle cose che in occidente diamo per scontate (a cominciare da un’aspettativa di vita media ultra-octuagenaria) e che nel resto del mondo agognano da generazioni.
L’unico modo realistico di contenere le emissioni abbastanza in fretta da incidere sul clima prossimo venturo sarebbe, infatti, ridurre drasticamente i consumi finali di tutte le forme di energia in tutti i paesi industrializzati del mondo.  Dunque razionare elettricità e combustibili, nonché l’acqua, la carne e parecchi altri generi di prima necessità. Bisognerebbe inoltre militarizzare molti settori della società e prendere parecchi altri parimenti molto impopolari perché deprimerebbero in modo sostanziale e definitivo gli standard di vita di tutti coloro che non sono già decisamente poveri.  Insomma una decrescita precipitosa e tutt’altro che “felice”, ancorché necessaria per evitare ben di peggio.  Altre opzioni forse erano praticabili 50 o 40 anni fa, ma non più oggi.

E allora?

Sul piano scientifico, credo che sarebbe interessante cominciare ad indagare le retroazioni fra le conseguenze socio-economiche del peggioramento climatico (siccità, alluvioni, ecc.) e forzanti climatiche principali (emissioni, ecc.). Se c’è una speranza di cavarsela, secondo me, è nella progressiva disgregazione del tessuto economico mondiale e non nei piani dei governi che si fanno sempre più fantastici man mano che la situazione degenera.
Sul piano pratico, ci torneremo in un prossimo post.

 

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