Morire non è mai piaciuto a nessuno; ancora meno piace soffrire ed è per questo che lo straordinario progresso delle medicina e della farmacopea nel corso degli ultimi 100 anni rappresenta per tutti la maggiore e più irrinunciabile conquista della modernità.   Lo è al punto che anche chi si occupa attivamente di capire e spiegare come e perché la civiltà attuale non potrà durare ancora a lungo, anzi è già in declino e forse nelle prime fasi del collasso, evita accuratamente di toccare questo argomento.   Perfino i movimenti per la decrescita, che pure stanno compiendo un notevole sforzo per delineare una possibile “Uscita d’emergenza” dalla rotta attuale, evitano di trattarlo.
A titolo di semplice pro-memoria, vorrei quindi accennare ad alcuni fatti con cui dovremo comunque fare i conti, cominciando dall’esame di questo grafico (dati Banca Mondiale 2019) che riporta l’aspettativa di vita alla nascita, contro la spesa sanitaria pubblica pro capite per i vari paesi del mondo.  Prima però di affrontare la questione, vorrei enfatizzare il fatto che, anche se le statistiche parlano di dollari, il problema non è assolutamente il denaro, bensì il consumo delle risorse e gli impatti ambientali che sono approssimativamente proporzionali ai dollari.  Non dimentichiamoci infatti che l’industria sanitaria e farmaceutica è una delle più energivore, inquinanti ed affamate di risorse di eccellente qualità che esistano, nonché una di quelle in cui riuso e riciclo sono praticamente assenti per motivi pratici molto concreti. Per di più, la ricerca scientifica e tecnologica, nonché la realizzazione di medicamenti ed attrezzature efficaci contro molte malattie comuni, come molti cancri, sono possibili solo ad un sistema economico globalizzato ad altissima intensità energetica e finanziaria.

Morire quando?

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Una prima osservazione è che passando dai 55 ai 70 anni non si registrano crescite apprezzabili di spesa.  Evidentemente, i fattori principali in gioco sono altri.   Fra 70 e 75 si vede un modesto incremento della spesa sanitaria, ma non in tutti i paesi, mentre per arrivare a 80 anni, mediamente, occorre cominciare a spendere di più, ma ancora non dappertutto e comunque non moltissimo. Segno che alimentazione, clima, inquinamento, sicurezza ecc. contano ancora circa altrettanto o forse più che la disponibilità di servizi sanitari d’alta gamma. Invece, oltre gli 80 la curva si impenna alla verticale, con incrementi di spesa che si moltiplicano a fronte di incrementi di vita nell’ordine di pochi anni, se non di mesi.
Questo è un indizio molto forte del fatto che anche noi siamo “progettati” per campare una settantina d’anni, massimo 80, al netto di una manciata di novantenni e centenari che ci sono sempre stati, ma che sono sempre stati e sempre saranno l’eccezione.  I gerontologi ci assicurano che non è così e che presto vivremo 120 anni e passa, un poco come gli ingegneri ci assicurano che colonizzeremo Marte, ma tutti gli organismi individuali hanno una loro “obsolescenza programmata” e non possono farci nulla.  Nemmeno gli interessa, a dire il vero, tranne a noi che qualcosa infatti ci abbiamo fatto, ma a che prezzo?  Argomento spinoso quanto altri mai, ma anche molto importante per il nostro futuro poiché superare in massa questa “barriera” richiede un imponente ricorso a tecnologie estremamente costose ed inquinanti.
Ci torneremo, per ora facciamo ancora qualche osservazione di contorno.  Per esempio, che di ultranovantenni è più facile incontrarne nei villaggi di campagna che nelle megalopoli e quasi sempre sono persone che durante la loro lunghissima vita hanno avuto molto poco a che fare con medici e farmacisti.
Inoltre, le condizioni ambientali e di vita, l’alimentazione, il grado di stress ecc. contano quanto la tecnologia anche per gli ultraottantenni, come suggerito dal fatto che paesi migliori da questi punti di vista vantano una longevità uguale o superiore ad altri che, magari, spendono di più.  Particolarmente impressionante da questo punto di vista il dato statunitense, dovuto probabilmente anche ad un sistema sanitario meno efficiente dei corrispondenti europei.

Ora osserviamo un altro grafico: la piramide della popolazione italiana nel 2040, quando chi scrive avrà all’incirca la fatidica età di 80 anni (sempre che ci arrivi).

Morire, ma quando e come?
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Ad essere pignoli, questo genere di proiezioni sono da prendere “con le molle” perché si basano sul presupposto che nei prossimi decenni i fattori ambientali ed economici, le tendenze demografiche ecc. restino all’incirca quelle del recente passato, cosa che sicuramente non sarà.  Tuttavia, visti i limiti di questa piccola discussione, la possiamo considerare come approssimativamente valida.
Dunque nel 2040 circa un terzo della popolazione avrà oltre 65 anni e dovrebbe quindi essere in pensione, circa tanti quanti quelli che saranno invece a lavoro, sempre che ne trovino uno.  Già questo è un dato allarmante per ovvie ragioni, ma c’è di più.  Un quarto della popolazione, per un totale di circa 15.000.000 di persone, saranno al varco, od avranno già varcato, la fatidica soglia dell’ ”obsolescenza programmata”. Con le conseguenze che abbiamo visto poc’anzi sui portafogli dei giovani e quasi-giovani, molti dei quali non saranno neppure figli e nipoti dei vecchi e dei vecchissimi che non avranno discendenza (per fortuna, ma questa è un’altra storia).  Lo tollereranno? Probabilmente si, ma solo se potranno.
Se infatti osserviamo il passato, vediamo chiaramente che il mantenimento ad oltranza dei vecchi è una sorta di “lusso sociale” che si permettono tutti coloro che possono, sia pure con un certo sacrificio.  Ma coloro che vivono in gravi ristrettezze i vecchi li abbandonano oppure, nei casi migliori, li uccidono con un’eutanasia il meno peggio che sia loro possibile.

Noi “boomers”

Mi si dirà che non stiamo parlando di numeri, ma di esseri umani e che l’etica impone comunque di fare il possibile per salvare vite umane.  Vero, ma di quali vite stiamo parlando?  Le nostre di vecchi attuali e prossimo-venturi, o di quelle degli attuali giovani e bambini?  Abbiamo infatti visto prima che, al di sotto dei 70-75, le condizioni di vita sono molto più importanti di un servizio sanitario avanzato e se per mantenere i vecchi le condizioni di vita di giovani e adulti dovessero peggiorare in modo sensibile, salvare vite vecchie costerebbe vite giovani, anche se in modo indiretto.  Sarebbe etico?  Io credo di no, soprattutto da parte della nostra generazione, quella del “baby boom”, che ha usufruito appieno dei migliori 50 anni dell’intera storia umana passata e futura, senza neppure prendersi la briga di capire che non poteva durare per sempre. Ovviamente al netto di quanti hanno invece fatto di tutto per fermare questa follia; tanti, ma una minoranza che, comunque, ha fallito.

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Dunque la domanda da porsi è se, presumibilmente, fra una ventina d’anni il tessuto socio-economico italiano (e in generale occidentale) sarà in grado di permettersi un raddoppio delle spese sanitarie e previdenziali, o meno.  Per sicuro non lo possiamo sapere, “il futuro giace in grembo a Zeus” dicevano gli antichi, ma sia pure come indicazione di larghissima massima possiamo sicuramente fidarci del leggendario “Limiti della crescita” cui 50 anni di fatti hanno dato sostanzialmente ragione.

 

 

 

E dunque?

E dunque lungi da me il proporre un suicidio generazionale che dispiccerebbe non solo a noi, ma anche ad amici e discendenti (si spera).
Molto più umanamente, una “exit strategy” dovrebbe essere fatta di cercare di migliorare, o perlomeno smettere di attivamente peggiorare, le condizioni di vita della popolazione.  Per fare solo un esempio particolarmente facile da capire, bisognerebbe alberare tutto l’alberabile, anziché demolire sistematicamente il verde urbano e non come si sta facendo.
In generale, dare per persa la “battaglia del PIL” e concentrare invece gli sforzi ancora possibili sul cercare di limitare in tutti i modi fattori di stress sociale ed ambientale.   Dare anche per persa la “battaglia geriatrica”, concentrando i servizi sanitari prioritariamente sui giovani e solo nei limiti del possibile sui vecchi che non dovrebbero però essere abbandonati, bensì aiutati a morire con calma e dignità.  In altre parole, offrire una buona eutanasia come alternativa ad una cattiva e breve sopravvivenza.  Perlomeno, far sparire anche il ricordo di quell’orrore che va sotto il nome di “accanimento terapeutico”.  Certo, la scelta, caso per caso, sarebbe spesso difficile e penosa, ma poiché, comunque, andiamo incontro a tagli sostanziali al sistema sanitario e previdenziale, penso che sia meglio cercare di gestire il fenomeno entro i limiti del possibile, anziché continuare ad ignorarlo. In fondo, si tratta di accontentarsi di un’aspettativa di vita ottantenne, molto di più di quello di cui hanno goduto i nostri predecessori.  E se l’idea non piace, considerate che l’alternativa più realistica è che molti, forse la maggioranza, di noi “boomers” finisca col morire abbandonato in un appartamento o magari sotto un ponte.

In conclusione, fare buon viso a cattivo gioco non significa essere dei nazistoidi che propugnano lo sterminio dell’umanità, bensì essere persone sinceramente preoccupate di ridurre al minimo possibile la sofferenza umana.  Perché se morire è necessario, soffrire non lo è.

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