Cinghiali: ci sono sempre stati e sempre hanno fatto qualche danno, peraltro compensato dalla gustosa carne che, loro malgrado, hanno sempre portato in tavola. Sterminati nel recente passato, sono tornati prepotentemente alla ribalta, pare che siano diventati un’emergenza nazionale, tanto che lo Stato interviene pesantemente con la legge n. 197 del 2022 che dovrebbe essere la legge di bilancio e che, in realtà, parla di tutto e di più. Un solo articolo con 903 commi: il classico elenco di provvedimenti a pioggia per tappare buchi urgenti ed accontentare lobby importanti, senza nessuna sia pur minima traccia di strategia e coerenza. Insomma un monumento al fallimento della politica. Comunque, qui ci interessano i commi 447-448-449 che modificano la legge 157 del 1992 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio) stabilendo che regioni e provincie autonome possono decidere di ammazzare “specie di fauna selvatica anche nelle zone vietate alla caccia, comprese le aree protette e le aree urbane, anche nei giorni di silenzio venatorio e nei periodi di divieto.”
Tanto per cominciare, si introduce volutamente una finestra, o perlomeno, uno spiraglio interpretativo, che potrebbe essere sfruttato per uccidere anche lupi, orsi, aquile e quant’altro, visto che il riferimento all’art. 18 della legge 157 (che stabilisce le specie cacciabili) non è ripetuto nei punti seguenti al primo e non è per una svista, perché è stato fatto notare in parlamento. Tanto che a Bruxelles qualcuno ha drizzato le orecchie e chiesto chiarimenti, malgrado di questi tempi da quelle parti siano più preoccupati dai carri armati che dalle doppiette.
Ma facciamo finta di fidarci e che davvero il provvedimento riguardi solo i maiali selvatici, abbiamo comunque un meraviglioso paradosso: i cacciatori che, come categoria, sono sia i responsabili del problema, sia coloro che ne traggono beneficio, ottengono dallo stato ulteriori vantaggi a spese altrui.

I danni dei cinghiali.

Fanno danni i cinghiali? Si, certo, ma quali e quanti?  I principali riguardano l’agricoltura, sia per i raccolti perduti che per il grufolamento di prati e pascoli che, se limitato, è anzi giovevole, ma che se esteso e ricorrente rappresenta effettivamente un danno importante. Vi sono poi anche altri costi più indiretti come recinzioni più efficaci, il tempo perso per chiedere i rimborsi, la rabbia di fronte ad un campo grufolato, fino ai calmanti che talvolta è necessario prendere (previa ricetta medica).
A livello nazionale, l’entità di tutto ciò è stata monetarizzata dal Ministero in oltre 100 milioni in 6 anni, dunque una media di circa 17 milioni l’anno, in peggioramento. Per confronto, si consideri che i danni accertati dovuti ai lupi nello stesso periodo, sono stati circa 10 milioni, vale a dire 1/10. Se si considera che nei medesimi anni risulta che siano stati abbattuti circa 300.000 cinghiali l’anno (sempre con tendenza all’aumento) si fa presto il calcolo che ogni cinghiale incarnierato costa al contribuente più di 500 euro, considerando solo i danni rimborsati, che sono una parte di quelli subiti dagli agricoltori. Di contro, ogni cinghiale frutta ai cacciatori perlopiù fra i 500 ed i 200 euro. Anche se le cifre sono molto variabili a seconda della località, della stagione ecc., si capisce bene che sia un grosso business. Ciò che risulta meno chiaro è perché le autorità lo incoraggino, anche con la norma di cui abbiamo appena parlato, anche se non sembra.

Quanti sono i cinghiali?

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Storicamente erano diffusi ovunque, ma ai primi del ‘900 erano stati ridotti ad un’area a cavallo fra la Calabria settentrionale e la Basilicata meridionale e zone della Sardegna, oltre che in piccole parti di altre regioni dove erano stati protetti in alcune grandi riserve di caccia sia private che demaniali. I fattori principali di un tale declino erano stati la caccia (anche di frodo), ma soprattutto, il disboscamento e la presenza capillare di una popolazione umana molto inferiore a quella attuale, ma molto più sparpagliata sul territorio.Soprattutto negli anni ’70 e ’80, ma fino ai giorni nostri o quasi, i cacciatori hanno cominciato a reintrodurre questi animali, utilizzando perlopiù cinghiali catturati od allevati in est Europa perché erano più grossi, più prolifici e meno costosi di quelli nostrali. Rapidamente, però, sorsero una miriade di allevamenti che vendettero sia per carne che per ripopolamento animali di origine anche molto stravagante, spesso ibridati con varie razze di maiale domestico sia per renderne più tenera la carne, sia per aumentarne il peso e la prolificità. Dal 2015 l’immissione in natura di cinghiali è vietata, ma non il commercio e, comunque, si potrebbe parafrasare un celebre proverbio in: “E’ inutile chiudere la stalla dopo che i cinghiali sono scappati”.  Tanto più che niente è ancora stato fatto per contrastare le altre cause del vertiginoso aumento di questa specie.
Ad oggi, si stima che in Italia ci siano da uno a due milioni di cinghiali a seconda delle fonti, ma comunque in aumento esponenziale. Dunque anche se l’” emergenza cinghiali” è in parte una montatura politica, non lo è del tutto e, soprattutto, potrebbe davvero diventarlo, specie se ci si ostinerà a contrastarla con metodi controproducenti.

Metodi ci caccia.

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Ci sono molti modi per ammazzare i cinghiali, sia leciti che non. Fra gli illeciti, il più efficace e crudele sono i lacci. Fra i leciti, c’è la caccia individuale, in cui il cacciatore cerca o aspetta un singolo animale, e varie tipologie di caccia collettiva fra cui la più popolare è la battuta, a sua volta articolata in varianti a seconda del numero di persone coinvolte. Comunque, si tratta di circondare un territorio più o meno vasto e batterlo, anche con l’ausilio di mute di cani, per stanare ed inseguire i cinghiali che, fuggendo, finiscono sotto il tiro di cacciatori appostati lungo i passaggio obbligati o, comunque, più probabili. Alla fine della giornata sono spesso decine i capi abbattuti con gran soddisfazione dei cacciatori e dei contadini che, però, sono quelli che ci rimettono.  Questo tipo di caccia, infatti, non solo ha impatti devastanti su tutta la fauna, è anche la principale causa sia dell’incremento esponenziale delle popolazioni, sia dell’elevata erraticità degli animali sfuggiti alla trappola. Già, perché mentre i cinghiali in natura si spostano su distanze nell’ordine delle centinaia di metri, gli animali terrorizzati dalle braccate fuggono anche per decine di chilometri e non tronano mai più a casa.  Privi di qualunque riferimento, vagano quindi cercando da mangiare che, spesso, finiscono per trovare nei campi di qualcuno e perfino nelle periferie, specie laddove la raccolta dei rifiuti non è quella che dovrebbe essere.D’altro canto, in condizioni normali i cinghiali vivono in famiglie in cui solo la femmina più anziana e grossa si riproduce una volta all’anno. La distruzione della struttura sociale e lo stress conseguenti una battuta, provocno invece l’estro in tutte le femmine sopravvissute, anche se di età molto più giovane del normale, e per due volte all’anno. I meccanismi fisiologici e etologici sono stati studiati in dettaglio e passano attraverso la chimica sofisticata dei feromoni, ma di fatto è così che funziona.
Per soprammercato, in molte zone i cacciatori hanno anche l’abitudine di nutrire i cinghiali nei periodi di silenzio venatorio, così da aumentare il tasso di sopravvivenza dei cuccioli, cioè esattamente il contrario di ciò che sarebbe necessario per stabilizzare la popolazione.  Cosa che invece fanno i predatori naturali, specialmente i lupi, che attaccano quasi esclusivamente i giovani ed i porcellini. Solo che non è pensabile che circa 3000 lupi e un centinaio di orsi possano da soli controllare uno o due milioni di cinghiali.  E allora?

C’è rimedio?

Si, perlomeno parziale, ma solo se si esce dall’ottica grossolana di “e allora li ammazziamo a più non posso” che è comprensibile da parte degli agricoltori danneggiati, ma non da parte del legislatore che avrebbe il dovere di fare i conti con come funzionano le cose. Ed a questo proposito, tanto per cominciare, non si può pensare di porre rimedio a 50 anni di errori nel giro di pochi anni, men che meno con un articolo di legge buttato a casaccio, tanto per accontentare un manipolo di potenziali elettori.
Per quanto riguarda la stabilizzazione delle popolazioni, le azioni principali dovrebbero comunque essere 4:
– Incrementare la quantità e varietà dei predatori (che però marginalmente attaccano anche il bestiame domestico).
– Vietare le battute, o perlomeno ridurle ad un occasionale fenomeno di folklore.
– Concentrare l’attività venatoria sui giovani dell’anno.
– Vietare di appastare gli animali, se non come trappola per un prelievo mirato di giovani.
Purtroppo, sono tutti provvedimenti impopolari e dunque improbabili. Il primo per i danni al bestiame domestico che per la paura che i grandi predatori suscitano in molte persone (e la speculazione politica conseguente). Gli altri tre soprattutto perché ridurrebbero drasticamente il ritorno economico di questa forma di caccia.

Per quanto riguarda gli incidenti stradali, in certe zone sarebbero utili dei sotto- o sovrapassaggi per gli ungulati, ma più economici e generalizzabili sarebbero dei limiti di velocità , non dimentichiamo che  comunque sono le auto ad investire gli animali e non viceversa.

Per le periferie urbane, evidentemente rimane molto da fare per migliorare la raccolta differenziata dei rifiuti, ma comunque, in questi contesti (dove guarda caso si trovano prevalentemente giovani) uccidere tutti i cinghiali ha senso, solo che è un’operazione difficile e rischiosa che richiede personale specializzato, pena un rischio estremo di incidente grave.

In ogni caso, i costi di tutto questo dovrebbero essere addebitati a coloro che tutto questo hanno provocato e qualcuno ha cominciato: ad esempio, in Francia i danni causati dai cinghiali li pagano i cacciatori, non lo stato. Non è sufficiente, ma è già qualcosa.

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E’ uscito ‘La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell’umanità‘, libro scritto da Jacopo Simonetta e Igor Giussani.

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