Dopo ogni consultazione elettorale, spiegare le ragioni dell’astensionismo sempre più diffuso è diventato oramai un esercizio di stile ripetitivo e tedioso. Essendoci però in ballo quella piccola ma grande cosa che sarebbe la nostra libertà politica, vale la pena di trovare la voglia per ragionarci sopra, magari senza fare la figura della disco rotto che ripete ininterrottamente le stesse cose. Cerchiamo quindi di essere in qualche modo originali, senza prenderla inutilmente alla lontana ma restando legati alla stretta attualità. 

Lo stato di emergenza pandemica da Covid-19, indubbiamente, ha sicuramente influenzato un fenomeno (l’astensione) che, di per sé, origina da almeno vent’anni. Anche nei paesi di lunga tradizione liberale, non solo i governo si sono arrogati poteri in qualche modo speciali (vedi i DPCM italiani), ma hanno imposto, in misura maggiore o minore, pesanti provvedimenti restrittivi delle libertà personali che non si vedevano dai tempi della guerra, vedi il coprifuoco.

Se a tutto ciò aggiungiamo la sospensione del laissez-faire per implementare un’economia abbastanza dirigistica, si potrebbe quasi pensare che tutto abbia assunto i contorni di quel ‘ritorno dello Stato’ da molti auspicato contro l’ortodossia neoliberista dominante. Non è andata così, per ragioni abbastanza ovvie.

In realtà, a parte i fascisti dichiarati, nessuno voleva ‘più Stato’ nel senso di un maggior controllo esercitato sulla vite degli individui, ma si chiedeva di regolamentare problematiche economiche e sociali prodotte dalla globalizzazione, in particolare dalla concorrenza commerciale internazionale. Quasi tutti i governi, invece, si sono sforzati di mantenere il più possibile inalterato lo status quo, cercando di preservare chi occupa gli scrani più elevati della piramide sociale; non a caso, con la pandemia i redditi dei super-ricchi, afferenti alle maggiori multinazionali e banche d’affari del mondo, sono cresciuti ‘esponenzialmente’ alla maniera del virus .

In questo quadro, le formazioni politiche ‘anti-sistema’ o percepite come tali (M5S e Lega in Italia, Fronte Nazionale in Francia, ecc) si sono opposte in maniera molto blanda quando non hanno collaborato apertamente con i partiti mainstream. I recenti ‘successi’ (virgolette obbligatorie con una così bassa partecipazione alle urne) di Melanchon e Fratelli d’Italia si devono con ogni probabilità al fatto di essere visti come i meno collusi con le politiche governative del periodo pandemico.

Mi rendo conto che, fin qui, si tratta della scoperta dell’acqua calda, ossia che la pandemia ha aggravato la disaffezione verso la politica. Molto più complicato è proporre soluzioni in qualche modo utili a ravvivare l’interesse degli elettori per la fruizione del loro diritto, che non sia banalmente auspicare politici e partiti ‘migliori’ degli attuali o agitare lo spettro della ‘ democratura ‘.

Può essere interessante, ad esempio, prendere in considerazione l’opinione di uno dei padri nobili della sociologia, Émile Durkheim. Lo studioso francese non credeva nella democrazia diretta, riteneva che una società complessa potesse essere governata solo da una minoranza ristretta. Anche per questa ragione, temeva che lo stato potesse trasformarsi in un apparato repressivo, staccato dagli interessi della massa e della società civile.

Ma più che affidarsi ai partiti politici, riteneva che si potesse arginare tale deriva attraverso ‘corpi intermedi’ all’interno del tessuto sociale abbastanza saldi per controbilanciare gli sconfinamenti dello stato a danno delle libertà individuali e collettive. Puntava in particolare nelle associazioni professionali come enti capaci di rafforzare la regolamentazione morale e promuovere quindi la solidarietà organica, molto meglio di quanto non possa fare la famiglia. Auspicava perciò un sistema elettorale a due o più livelli, nel quale i gruppi professionali avessero la funzione di unità elettorale intermedia.

Scrive in Le regole del metodo sociologico :

 

Dove lo stato è il solo ambiente nel quale gli uomini possono vivere in comunità, essi inevitabilmente perdono contatto tra di loro, si isolano e così la società si disgrega. Una nazione si può conservare solo se, tra lo stato e l’individuo, è inserita una intera serie di gruppi secondari che sono abbastanza vicini agli individui per attrarli con forza nella loro sfera d’azione e trascinarli in questo modo dentro la corrente generale della vita sociale.

 

A pensar bene, i gruppi intermedi di cui parla Durkheim (associazioni, sindacati, ecc) sono stati molto vitali in Italia negli anni 60-70, percepiti spesso quale ‘epoca d’oro’ della democrazia italiana, malgrado l’ininterrotta presenza della Democrazia Cristiana al governo. Poi si sono sclerotizzati trasformandosi in carrozzoni burocratizzati sempre più verticistici e distanti dalla loro base. La loro degenerazione potrebbe forse aver anticipato quella degli stessi partiti politici, in certi casi.

Se il sociologo ha ragione, si capisce anche il fallimento della ‘democrazia digitale’ grillina, di fatto una mera conta dei click eseguiti da individui atomizzati davanti ai propri device, pratica in grado solo di aumentare la disgregazione sociale. Si comprenderebbe pure il successo del comunitarismo identitario, in quanto capace di surrogare in qualche maniera a un’esigenza profondamente radicata.  

Insomma se si vuole superare virtuosamente la crisi della democrazia liberale (che di fatto è un ‘liberalismo democratizzato’) occorre ricreare il legame sociale perduto, prima di pensare alla conquista di scranni parlamentari e governativi inventandosi l’ennesimo partito/movimento che parte per rivoluzionare il mondo per poi esplodere in una bolla di sapone o riconvertirsi al mainstream. Da un libro presto in pubblicazione:

Ricreare sistemi di coesione sociale e di mutuo soccorso sarà quindi, sempre e comunque, la cosa più difficile, ma anche più necessaria da fare.

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