di Jacopo Simonetta
Terzo articolo di una serie di 10. Per i precedenti si veda qui: primo; secondo.
Il livello di disparità della ricchezza è uno degli argomenti oggi più sentiti e dibattuti, ma viene di solito trattato in modo molto approssimativo. Rimandando al testo di Piketty per una trattazione approfondita dell’argomento, qui riassumeremo molto per sommi capi i punti fondamentali.
Reddito da capitale e reddito da lavoro.
Sembra una distinzione netta, ma non lo è. Vi sono infatti casi evidenti: lo stipendio mensile è un reddito da lavoro, mentre l’affitto percepito da un inquilino è un reddito da capitale. Ma in effetti la distinzione è chiara solo ai due estremi della classe sociale: i nullatenenti il cui reddito è quindi interamente da lavoro, ed i multimilionari, che generalmente pagano dei professionisti per gestire i loro patrimoni. Nel mezzo le cose si complicano parecchio.
Per esempio, gli imprenditori che dirigono le proprie aziende hanno tipicamente un reddito misto: in parte derivante dal loro lavoro dirigenziale ed in parte dal fatto che posseggono impianti, brevetti, ecc. Un caso che è in realtà molto diffuso, specialmente fra professionisti, artigiani e consulenti che sono pagati a fattura per delle prestazioni, ma che per svolgere il proprio lavoro investono cifre consistenti in apparecchiature ed attrezzi, programmi, studi, automezzi, immobili, ecc. I contadini, a fronte di redditi netti spesso molto ridotti, investono capitali consistenti in terreni, bestiame, macchine ed altro. Ma anche il tizio che ha semplicemente ereditato un piccolo appartamento dalla nonna e che lo affitta su B&B ha un reddito misto in cui è impossibile distinguere la parte ascrivibile al valore dell’immobile e quella ascrivibile al suo lavoro di gestione e manutenzione. Perfino l’operaio o l’impiegato che hanno comprato casa propria godono di una rendita indiretta dalla proprietà, a meno che non stiano ancora pagando il mutuo.
Dunque, tenendo ben presenti queste difficoltà, si può procedere ad una molto sommaria ripartizione fra reddito da capitale e reddito da lavoro. Sempre prendendo ad esempio la Francia e tenendo conto che gli altri paesi europei hanno vissuto evoluzioni analoghe, relativamente poco influenzate dagli eventi politici che, invece, sono stati molto diversi da un paese all’altro.
Dunque, in Europa, il periodo di massimo potere economico del capitale fu sostanzialmente alla metà del XIX secolo, guarda caso quando l’internazionale socialista prima si formava e poi si sfasciava. Durante i “30 terribili” (1914-1945) il reddito da capitale precipitò ai minimi storici, per poi recuperare molte delle posizioni perdute, ma assolutamente non tutte. Oggi fornisce circa il 25% del reddito nazionale francese (in altri paesi la cifra è analoga), cioè poco più della metà di quello che rendeva nelle economie “belle epoque”.
Un punto questo su cui ritorneremo perché è molto importante: Il rapporto al PIL, la quantità di capitale oggi è quasi altrettanto alta che alla fine del XIX secolo, ma la quota di reddito che fornisce è molto inferiore. Forse qualcuno troverà la cosa sorprendente.
La ripartizione del capitale.
Ma come è ripartito fra le diverse classi sociali il capitale? Confrontando la media dei paesi europei e gli Stati Uniti si notano alcuni dettagli interessanti.
In Europa la concentrazione del capitale era già molto alta nel 1810 (80% del capitale detenuto dal 10% della popolazione) ed è salito fino al 90% nel 1910, picco storico della concentrazione. Il 50% era concentrato nelle mani di solo l’1% dei nostri concittadini. Negli USA la situazione era meno esasperata, ma la tendenza esattamente la medesima.
In Europa, le due guerre mondiali e le altre crisi correlate provocarono non solo la massiccia distruzione di capitale che abbiamo già visto, ma anche una drastica riduzione dei livelli di ineguaglianza che, si badi bene, è proseguita fino a tutti gli anni ’60; cioè per tutto il periodo della ricostruzione e del seguente “miracolo economico”. E’ interessante notare anche che “’a livella” colpì in proporzione più gli altissimi capitali: la quota di proprietà del 10% più ricco diminuì infatti del 30%, mentre la quota di proprietà dell’1% più ricco diminuì di circa il doppio. A far data dagli anni ’80 la tendenza si è invertita, ma di poco in rapporto ai dati storici.
Negli USA la tendenza è stata molto simile, ma meno esacerbata, visto che le guerre si sono combattute in casa nostra. Per questo a partire dagli anni ’60 il grado di concentrazione del capitale è stato maggiore oltre Atlantico, ma anche in questo caso permane a livelli nettamente inferiori di quelli di cento anni fa.
Per capire meglio, nella tabella si mostrano quattro situazioni tipiche: la ripartizione della proprietà in società diverse. quattro sono situazione reali ed una è ipotetica. Consiglio di studiarla e meditarla con calma.
L’utilità della tabella è che non illustra solo la situazione del 10% più ricco (la classe superiore), ma anche come la proprietà si articola all’interno di questa classe, con una tendenza alla concentrazione nei livelli più alti, anche fra i membri privilegiati della società.
Illustra anche cosa succede negli strati intermedi e inferiori della società. Osserviamo così un fenomeno fondamentale del secondo dopoguerra: la formazione di una classe di mini e micro capitalisti molto diffusa. Mentre nel 1910 la classe media europea deteneva qualcosa come il 5% del capitale, negli anni successivi al boom economico deteneva il 35-40% dei beni. Nello stesso periodo, migliorò anche la situazione patrimoniale delle classi povere, anche se in misura molto minore.
Un cambiamento epocale poiché si passò da una società strutturata su due sole classi: ricchissimi e poveri o quasi; ad una strutturata su tre classi, con una classe media numericamente molto consistente (i leggendari “piccolo borghesi” di sessantottina memoria).
Una situazione che a noi sembra normale, ma che rappresenta invece una forte anomalia storica. Del resto, per il poco che si sa della maggioranza dei paesi non occidentali, le società continuano ad essere sostanzialmente bi-stratificate, tranne che in alcuni paesi che hanno recentemente avuto una tumultuosa crescita economica.
La ripartizione del reddito.
Andiamo ora a dare un’occhiata a come è invece ripartito il reddito da lavoro, fra le diverse classi sociali.
Anche in questo caso il prof. Piketty ci fornisce una tabella da cui si arguisce che il reddito da lavoro è assai meno concentrato della proprietà del capitale. Per esempio, oggi in Europa il 10% più ricco detiene circa il 60% del capitale, ma percepisce solo il 25% del monte-stipendi complessivo. Vice versa, il 50% più povero della popolazione possiede, complessivamente, solo il 5% del capitale, ma si ripartisce il 25% del monte-stipendi.
Se ora andiamo a vedere il reddito totale (lavoro più capitale) troviamo che la disparità della ricchezza è ovviamente superiore rispetto ai soli stipendi, ma inferiore rispetto al valore del capitale detenuto. In pratica, la classe superiore detiene il 60% del capitale, ma questo aggiunge solo un 10% circa al reddito che percepisce.
Prima di chiudere su questo argomento, diamo ancora un’attenta occhiata ad un altro grafico che confronta la percentuale di reddito nazionale afferente al 10% più ricco (N. B. L’incremento europeo è perlopiù dovuto alla traiettoria del Regno Unito, assai più simile a quella americana che a quella dell’Europa continentale). Per quanto possa sorprendere, nel “primo mondo”, l’esplosione delle disparità retributive rimane per ora un fenomeno principalmente anglo-americano.
Per gli altri paesi bisogna accontentarsi dell’indice Gini, assai meno preciso, ma comunque interessante.
Ciò non significa che non vi siano nella UE persone che percepiscono stipendi inverecondi (esistono e sui giornali talvolta se ne parla). Significa però che la struttura sociale, legale e fiscale europea per ora limita un fenomeno che, viceversa, in altri paesi ha un andamento decisamente impressionante.
Conclusioni 3
Nel 1914 la classe dirigente capitalista commise un vero e proprio suicidio politico-economico (spesso anche fisico). Ben poche delle famiglie che erano ricche nel 1910 lo erano ancora nel 1950. Molte, anzi, erano letteralmente estinte.
Nei decenni successivi il capitalismo risorse, ma era radicalmente cambiato.
In primo luogo, in USA e nei paesi suoi satelliti, si venne formando una consistente classe di mini e micro capitalisti, proprietari di un’ abitazione, di almeno un’automobile e di consistenti dotazioni di elettrodomestici; più tardi anche di computer e vari gadget tecnologici. Oltre che di risparmi sotto forma di fondi pensione, BOT e cose simili.
In secondo luogo, il reddito fornito dal capitale è proporzionalmente molto più basso di un tempo e la classe dominante, il famigerato 1%, deve il suo alto ed altissimo reddito anche al possesso di cospicui patrimoni, ma soprattutto grazie al fatto di percepire degli stipendi altissimi, spesso pagati proprio dai detentori dei capitali che costoro amministrano.
Prima di pensare che tutto ciò sia molto democratico, riflettiamo però su di un fatto: le carriere che permettono di raggiungere stipendi molto alti sono accessibili quasi esclusivamente ai figli di coloro che possono investire cifre molto alte per far laureare i propri pargoli in una decina di università costosissime ed esclusive, oltre ad avere un giro di conoscenze ed amicizie negli ambienti che contano. “L’uomo che si è fatto da solo” esiste, ma è sempre più raro, man mano che la crescita economica rallenta ed il divario fra i “vincenti” e tutti gli altri si allarga.
Per saperne di più: Pico per Capre
Permettetemi di esprimere dei dubbi sulle conclusioni che vengono tratte dai dati esposti sopra: nel mondo economico fortemente virtualizzato di oggi (credo sia piu’ esplicativo usare il termine virtualizzato che finanziarizzato) il capitale azionario, frazione sempre piu’ importante del capitale di cui si parla sopra, ha pochissima attinenza, a volte nulla, con la realta’ dell’oggetto stesso cui si riferisce. La stima del suo valore e’ determinata da un mercato, quello finanziario, che vive in un suo mondo a parte, e che determina il valore della sua finzione solo finche’ puo’ permettersi di vivere nella sua bolla, in cui la remunerazione del capitale e’ di solito ricorsiva: si ripagano segni su pezzi di carta con altri segni su altri pezzi di carta, finche’, a cadenza periodica, si ha qualche assestamento in cui si cancellano un po’ di quei segni, che chiamiamo crisi. Per questo sembra risultare che i paesi con un’economia piu’ virtual-finanziarizzata, quelli anglosassoni, notoriamente inclini a scommettere su tutto, sono anche quelli con il peggior indice di gini, anche se poi le persone al loro interno sono quelle che magari vivono meglio.
Quindi, usare la quantificazione del capitale finanziario per trarne osservazioni politiche e sociologiche, e’ solo un esercizio retorico, da cui si puo’ trarre qualunque conclusione si desideri, e magari dice qualcosa solo sulla psicologia di chi quell’esercizio fa, e da che parte sta: qual e’ la sua affiliazione tribale. Una specie di Rorschach.
Ma anche il capitale “reale”, quello ad esempio fatto di solidi mattoni, e’ molto piu’ arduo da quantificare di quanto sembri: la sua valorizzazione viene fatta basandosi sul valore di scambio della esigua e non sempre costante parte che viene scambiata sul mercato in un dato momento, che percio’ sembra stabile (immobile) e avere un solido senso economico-patrimoniale, ma nel momento in cui si verifica una brusca accelerazione o rallentamento delle transazioni _reali_, il che quasi sempre succede non per ragioni materiali ma psicologiche e di “moda” (si fa quello che fanno gli altri), il valore puo’ andare da zero a infinito, e tornare a zero in men che non si dica.
Ogni tanto, piu’ spesso di quanto sembri, capita che tutti vogliano vendere e nessuno comprare (valore a zero), oppure il contrario (valore a infinito), in un circolo vizioso che alimenta se stesso fino al reset, da cui poi si riparte con un altro ciclo.
Cio’ non e’ evitabile, e’ inerente allo scambio, al mercato, e’ nel mercato che si da’ un valore alle cose scambiate, e si potrebbe eliminarlo solo eliminando la facolta’ sociale e collaborativa degli esseri umani, cioe’ quella loro principale e che li caratterizza, per fare invece come i gatti per cui ognuno basta completamente a se stesso e non ha bisogno di scambiare nulla con gli altri della sua specie: allunga una zampa e prende cio’ che gli serve e la natura gli offre senza tanti ragionamenti, come un tempo noi prima di essere scacciati dal paradiso terrestre.
A suo tempo, col Glass-Steagall act, si separo’ il mercato dei beni reali da quello dei valori finanziari proprio e solo per questo, per cercare di separare il mondo dell’economia virtuale da quello reale, per non tanto evitare (impossibile) ma perlomeno limitare il fenomeno per cui ogni tanto tutta l’economia va in risonanza ricorsiva e distruttiva e si trasforma in una gigantesca casuale lotteria a premi (e punizioni).
Infine, gli economisti hanno sempre ragione, nella loro bolla culturale: scelti opportunamente gli assiomi, e sorvolando sul fatto che sono del tutto arbitrari, arrivano sempre alla conclusione da loro desiderata. Che e’ un modo gentile per dire che gli economisti hanno sempre torto: alcuni di loro, a fine carriera, lo ammettono, ma sono pochi quelli che tradiscono il segreto della professione.
Dati questi presupposti, macchinare chissa’ che ragionamenti da massimi sistemi, o anche solo semplicemente voler predire il futuro prossimo da questi ragionamenti, e’ una perdita di tempo, salvo che per quelli, come gli economisti, i giornalisti e i politici, ne ricavano un reddito – un salario, una rendita o un profitto.
Certamente il valore di mercato del capitale è volatile. Non è un fenomeno nuovo, risulta infatti che la distruzione di capitale sia stata maggiore durante la prima, piuttosto che durante la seconda Guerra Mondiale, proprio per la maggiore perdita di valore dei titoli. Tuttavia, il denaro è esattamente ciò che ci informa sul valore del capitale. Oggi è praticamente solo questo: un’informazione sul valore relativo degli “asset” e su chi a diritto a disporne. E’ la macchina economica reagisce a questi flussi di informazione.
Non esiste un altro parametro e, quindi, se non si vuole usare questo, semplicemente ci si occupa di un’altra cosa più concreta. C’è l’imbarazzo della scelta.
Vorrei anche ricordare che la scienza non è mai stata fatta sulla base dei dati desiderabili, bensì su quelli disponibili ed è per questo che le teorie esplicative non sono mai definitive. Anzi, spesso, prima o poi si rivelano sbagliate. E il processo scientifico è esattamente questo: verificare e adattare le teorie ai fatti, via via che questi si delineano meglio, ma sempre e comunque in modo parziale ed imperfetto. Newton si era sbagliato, ma senza di lui Einstein non avrebbe saputa da che parte cominciare. E Magari si troverà che anche Einstein si era sbagliato.
Con ciò, ovviamente né io, né Piketty od altri qui citati sono Einstein.
Quindi rielaborando i dati se il valore del capitale fosse 600% del PIL e le rendite da capitale il 30% del PIL vorrebbe dire che in media il capitale rende un 5% (che mi pare verosimile).
Se considerassimo il capitale come un credito (o diritto ad una rendita) vorrebbe dire che i debitori “pagano” con il proprio lavoro il proprio debito ai creditori… Quindi ha senso che il reddito da lavoro delle classi abbienti sia basso perché comunque godendo di una rendita si appropriano del reddito prodotto da altri lavorando.
Quindi se io detenessi 6 case e una rendita del 5% in una piccola economia di 7 persone io avrei un settimo del lavoro (ad es il 10% del PIL) più una rendita del 30% che va a decurtare il reddito dei miei compagni di lavoro. Ottenendo quindi il 40% del reddito prodotto invece che il 14,3 come da divisione fra bravi fratelli.
Quindi la differenza di ricchezza mi consente di accaparrare il reddito prodotto dal lavoro dei miei “colleghi”.
Non mi sembra sia molto diversa la borghesia dall’aristocrazia, solo la smaterializzazione del credito e il diritto di nascita…
Sono andato in OT
Marco Caccia, come vedrai nella prossima puntata, i tuoi calcoli sono giusti, ma non le conclusioni perché ci sono differenze enormi nel rendimento del capitale, a seconda della sua taglia. E i redditieri “belle epoque” avevano redditi da lavoro modesti non perché fossero modesti i loro salari, ma perché vivevano della rendita del capitale. Viceversa, i ricchi di oggi hanno grossi patrimoni che gli forniscono però una parte marginale del reddito; la “top class” attuale è composta prevalentemente da persone che ricevono salari fantasmagorici, non si sa bene perché.