Ecoansia non è un termine inventato da un giornalista, bensì una patologia riconosciuta sotto il nome scientifico di “solastalgia”. E’ però venuto alla ribalta in seguito ad una trasmissione televisiva in cui una ragazza in lacrime è riuscita a lasciare visibilmente commosso nientedimeno che un vecchio volpone della politica professionale come il signor Gilberto Pichetto Fratin, attuale ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica.
Come sempre quando un aneddoto “buca lo schermo”, si è subito scatenata la rissa fra le opposte tifoserie: chi dice che la ragazza ha ragione e chi che i giovani d’oggi sono solo degli smidollati.

Intanto, se davvero avessimo una generazione di “bambocci”, vorrebbe dire che abbiamo anche una generazione di genitori incapaci, per non parlare delle responsabilità generazionali di noi “boomers” rispetto alla piega che hanno preso gli eventi.  Ma lasciando da parte le recriminazioni, voglio qui ricordare che chiunque non abbia congelato il proprio cervello si rende conto non solo che il clima sta cambiando in peggio oramai da un anno all’altro. A seconda di dove si abita e di cosa si è soliti osservare, si vedono anche boschi e perfino montagne sparire, si vedono fiumi diventare rigagnoli e torrenti diventare tubi. Sulla spiaggia, dopo una mareggiata è diventato raro trovare una conchiglia od un granchio fra i cumuli di plastiche e pezzetti di legno, a loro volta provenienti dalla sistematica distruzione della vegetazione di sponda e dall’erosione delle pendici disboscate (ancora poche, è vero, ma in rapido aumento). Per chi, poi, ha l’abitudine di “spippolare” su internet, il fuoco di fila di pessime notizie dal mondo intero è tale da suscitare non già ansia, bensì angoscia e panico.
E’ pur vero che qui gioca anche l’effetto moltiplicatore dell’enfasi giornalistica e della concentrazione sul nostro piccolo schermo di eventi avvenuti a migliaia di chilometri di distanza gli uni dagli altri, ma sta di fatto che la sensazione che “il mio mondo brucia” è netta e perfettamente giustificata.  Ancor più giustificata quando si studiano non solo gli aspetti climatici in senso stretto, ma anche tutti gli altri fenomeni correlati.

Dunque, smidollati o meno che siano, giovani e vecchi hanno delle ottime ragioni per essere in ansia ed anche per essere arrabbiati, solo che le reazioni alla sofferenza cronica sono diverse a seconda del carattere e del retroterra culturale delle singole persone.  “C’è chi piange, chi soffre, chi si dispera, a me è venuta la colite” cantava Giorgio Gaber, così come c’è chi invece nega i fenomeni e deride chi ne parla con tanto più accanimento, quanto più il dramma diviene manifesto e le prospettive oscure. Spesso, la negazione è infatti una reazione difensiva di fronte ad un pensiero che, se riconosciuto, ci terrorizzerebbe. Del resto, è perché il grillo aveva ragione che Pinocchio lo prese a martellate. Una reazione che trova l’incondizionata solidarietà dei bambini, ma anche di molti adulti e vecchi sottoposti allo stress di dover decidere fra cambiare idea o schiacciare il grillo.

Man mano che la percentuale di persone affette da ecoansia, o solastalgia che dir si voglia, aumenta ed il tempo passa, le conseguenze si dimostrano in grado di danneggiare irreversibilmente la psiche delle persone. Per lenire questa sofferenza, gli psicoterapeuti consigliano non già di “pensare positivo” (che sarebbe uno scherzo di cattivo gusto), bensì di darsi all’attivismo perché la sensazione di porsi personalmente in gioco e di potersi dire “Io la mia parte la sto facendo” offre uno sfogo costruttivo alla tensione nervosa.  Disporre di uno scopo può infatti ridare una speranza o, perlomeno, dare un significato alla vita ed alla sofferenza. Un po’ come arruolarsi volontario per combattere l’invasore può dare sollievo, malgrado gli orrori ed i pericoli della guerra.
Ma se di affetti da ecoansia ce ne sono sempre di più, specie fra i giovani, di attivisti ce ne sono sempre di meno e quasi tutti vecchi, se si eccettua il fuoco di paglia di FfF.  Su questo fenomeno non so se ci siano studi di esperti (probabilmente sì, ma non li conosco), tenterò quindi una spiegazione sulla base della mia personale, cinquantennale esperienza sul campo.

Di solito l’attivismo comincia quando qualcuno si scontra con qualcosa di particolarmente evidente e stupido che lo tocca da vicino, ad esempio l’abbattimento di un’alberatura (per nessuna buona ragione) vicino a casa sua. Si formano così comitati ed associazioni locali che contano parecchi aderenti di cui però solo pochissimi, talvolta uno solo, si fa davvero carico dell’enorme mole di lavoro che necessita opporsi anche a interventi minimali e palesemente sbagliati o perfino illegali. Dunque si comincia subito con una buona dose di solitudine. Quindi si continua con un’overdose di lavoro che viene svolto togliendo tempo alla famiglia, lo studio, gli amici, gli altri interessi, il sonno, la salute, la carriera, ecc.
Tempo che viene invece dedicato a cercare di penetrare lentamente e faticosamente il muro di gomma che protegge quella macchina tritatutto che è l’amministrazione pubblica. Pian piano, si impara così che la pletorica burocrazia, la retorica paternalista e la dedalica normativa, in definitiva consentono ad un manipolo di “Chi può” di fare ciò che più gli comoda.
Non per caso questa situazione si è andata aggravando man mano che la situazione economica peggiorava.

Fino al 2010 circa era infatti ancora possibile fermare almeno qualcuna delle iniziative più scellerate giocando di sponda fra i diversi poteri preposti alla gestione della cosa pubblica. Ma da quando è diventato manifesto che il sistema economico vigente è entrato in una crisi irreversibile, si è verificato un sostanziale allineamento di tutti i poteri e di tutte le autorità su di un imperativo assoluto: favorire il business, costi quel che costi. E se costa molto non importa, è sempre possibile convincersi di aver ragione quando ci conviene qui ed ora.
Come ha recentemente dimostrato il ministro Picchetto che, malgrado sia rimasto palesemente commosso dalla ragazza, ne ha poi aggirato la domanda (“Lei non ha paura per i suoi figli e nipoti?”); men che meno ha cambiato gli indirizzi politici del suo ministero.

Alla resa dei conti, in 50 anni non solo l’attivismo ambientalista non è riuscito a cambiare la rotta del sistema economico-politico-sociale (il famigerato BAU), ma addirittura ha spesso visto i propri sforzi diventare pretesto per ulteriori speculazioni a danno di quella biosfera di cui facciamo parte a da cui dipende totalmente il fatto che la Terra sia abitabile. Lo “sviluppo sostenibile”, divenuto viatico per le peggiori porcate, e la “conversione energetica”, pretesto per una gigantesca operazione di greenwashing, sono solo due degli esempi possibili.

In definitiva dunque, l’attivismo lenisce l’ecoansia, ma accresce la frustrazione, oltre che costare caro in termini di carriera e finanche di libertà ed incolumità fisica man mano che alla crescente frustrazione degli ambientalisti risponde la crescente repressione del potere costituito. E non accade più solo in paesi da sempre oppressivi ma, anche se in misura minore, nel cuore di un’Europa che si pretende “democrazia matura”. Il recente, formale tentativo di criminalizzare “Les sulévements de la Terre” (fortunatamente rintuzzato dal Consiglio di Stato francese) che si oppone alla follia dei bacini di irrigazione alimentati dalla falda freatica in Francia è eloquente a questo proposito. Ma anche le vicende di “ultima generazione” e molte altre sigle vanno nella stessa direzione. In modo meno appariscente ma forse perfino più nocivo è il segreto che sempre di più circonda piani e progetti finquando non sono stati definiti ed approvati, alla faccia dei pretesi “processi partecipativi” a loro volta divenuti una pietosa farsa.

E mentre il pianeta diventa sempre meno abitabile, una pletora di altri problemi inutili ci investono quotidianamente. Sono assai meno gravi, certamente, ma non meno ansiogeni perché più diretti.
Ad esempio, la sempre maggiore complessità delle procedure che avviluppano qualunque attività è un altro tra i tanti fattori di stress cronico che ci colpisce.  Aggravato considerevolmente dal fatto che, dopo la scomparsa di quasi tutti gli uffici periferici, stanno svanendo anche i centralinisti ed i consiglieri telefonici, sostituiti da robot che sembrano studiati apposta per frustrare e scoraggiare gli utenti.  Sempre più spesso l’unica opzione possibile è quella di farsi da soli il lavoro per cui un tempo era pagato qualcuno, solo che nessuno ci ha insegnato come farlo ed i siti di riferimento sono solitamente chiari solo per chi li ha realizzati. Per non parlare del fatto che, a questo punto, sei costretto a pagarti un computer ed una buona connessione. “Con un semplice clic da casa vostra” è insomma una delle tante, troppe fregature appioppate al cittadino in nome e per conto del progresso.

C’è poi il grande tema del lavoro su cui gli studi, le analisi ed i libri si sprecano. Qui vorrei solo ricordare che tutti noi abbiamo bisogno di essere tranquilli circa le nostre principali fonti di sostentamento. Quando queste diventano instabili, una dose supplementare di ansia non ce la toglie nessuno, neppure nei rari casi in cui il lavoro che abbiamo sia interessante e ben pagato.  Certo, c’è sempre stato chi ha evitato, o subìto, come una mortificazione situazioni “fantozziane”, ma sta di fatto che oggi, rivedere i film di Villaggio fa una strana impressione in quanto quella triste caricatura di “sfigato”, trasportato nel mondo di oggi, ai più sembra quasi un privilegiato.

L’elenco potrebbe durare a lungo, ma più di tutto questo e del molto di più di cui si potrebbe parlare, ciò che impatta sulla psiche di giovani e vecchi è la rapidità del cambiamento, in questi come in molti altri campi, ed il senso di smarrimento che ne deriva. In definitiva ci troviamo a vagare in un mondo palesemente sempre più difficile, spesso apertamente ostile, senza una mappa. Avete mai provato la sensazione di smarrirvi la sera in un bosco o, peggio, in un quartiere malfamato? E la sensazione di sollievo di ritrovare un sentiero od una cantonata conosciuta?  Ebbene, nel mondo che ci attende non necessariamente andrà tutto male, ma sicuramente non troveremo sentieri conosciuti perché non ci sono.

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