La guerra in Ucraina? Poteva finire in un mese. Ma Usa, Ue e Boris Johnson sabotarono tutto, così titola un articolo di Salvatore Cannavò sul Fatto Quotidiano. Fonte di riferimento l’articolo The Talks That Could Have Ended the War in Ukrained pubblicato su Foreign Affairs, basato sui documenti dei colloqui intercorsi tra Ucraina e Russia nei primissimi mesi successivi all’invasione. Ho consultato personalmente l’articolo della rivista americana al fine di comprenderlo e verificare quanto il messaggio di fondo fosse stato rispecchiato dalla testata italiana, ed ho scoperto cose molte interessanti.

Innanzitutto, i tentativi di pace si sono basati su presupposti esattamente contrari agli accordi di Minsk: mentre questi precisavano meticolosamente le misure da intraprendere per terminare il conflitto tra governo di Kiev e ribelli del Donbass, le bozze di pace tra Ucraina e Russia vertevano quasi esclusivamente sulle condizioni da attuare a guerra già finita. Forse consapevoli dell’esito negativo del precedente trattato (fallito sostanzialmente per la riluttanza ucraina a concedere autonomie consistenti al Donbass e per il rifiuto russo di disarmare i miliziani e ripristinare il controllo di Kiev su tutta la nazione), si è preferito inaugurare il negoziato mettendo il carro davanti ai buoi.

Gli sforzi diplomatici, condotti in Bielorussia, in Turchia e in teleconferenza, sono culminati il 15 aprile 2022 con una bozza che, pur essendo recepita da entrambe le parti nei punti fondamentali, presentava comunque profonde divergenze nel merito di ciascuno di essi: in particolare, riguardo alle dimensioni massime consentite alle forze armate dell’Ucraina e al suo status internazionale. Essa sarebbe divenuta una nazione permanentemente neutrale, non nucleare e impegnata a non ospitare truppe straniere sul suo territorio; in cambio, avrebbe goduto di un dispositivo internazionale di protezione in caso di attacco. E’ su questo punto che le divisioni si sono fatte insormontabili.

Nel 1994, con il Memorandum di Budapest gli ucraini hanno restituito alla Russia tutte le testate atomiche ex sovietiche in loro possesso, in cambio dell’assicurazione di Mosca a garantire l’integrità territoriale dell’Ucraina: dopo la palese violazione dell’accordo, agli ucraini ovviamente non bastavano più assicurazioni sulla parola. Dopo aver proposto una serie di stati garanti (oltre ai paesi membri del consiglio di sicurezza dell’ONU – quindi anche la Russia – Canada, Germania, Israele, Italia, Polonia e Turchia), gli ucraini hanno premuto sul diritto di ogni singola nazione di intervenire in loro difesa, mentre i russi hanno insistito per una decisione concordata tra tutti i garanti.

In sostanza, in caso di nuova invasione la Russia avrebbe potuto esercitare un diritto di veto e condurre tranquillamente l’offensiva contro un avversario sottoposto a demilitarizzazione forzata; una prospettiva chiaramente inaccettabile. Il problema della garanzia di sicurezza era fondamentale e, benché all’opinione pubblica filorussa piaccia dipingere il governo ucraino come fantoccio agli ordini di Washington, gli USA non sono stati consultati sulla proposta di bozza finale, benché prevedesse importanti oneri a loro carico. Senza un accordo risolutore, i negoziati sono falliti e il conflitto è definitivamente deflagrato.

Foreign Affairs ricostruisce l’origine del sostegno militare occidentale a Kiev, a partire dalle dichiarazioni pubbliche dell’allora premier britannico Boris Johnson, in modo molto diverso dalle reciproche propagande, inneggianti alla ‘guerra per procura’ o alla ‘difesa della libertà occidentale’. Anziché invischiarsi in un accordo che avrebbe potuto costringerli a una guerra in prima persona contro la Russia, gli USA e i suoi partner hanno preferito un sostegno indiretto, in modo non dissimile da quanto fecero URSS e Cina con il Vietnam del Nord proprio contro gli USA.

Il tramonto dell’ipotesi di rapido ingresso dell’Ucraina nella NATO e le titubanze sulla fornitura di armi a lungo raggio e caccia F16 testimoniano il desiderio di non portare troppo ai ferri corti i rapporti con la Russia, forse anche per non rinsaldarne ulteriormente i legami con la Cina. L’atteggiamento occidentale all’insegna del motto “armiamoci e partite” può essere stato interpretato da Putin come il via libera per un cambio di strategia, volto non più a occupare Kiev e a rovesciarne il governo legittimo bensì ad annettere il Donbass alla federazione (ovviamente, l’opzione imperialista non era l’unica sul tavolo. Nessuno è mai costretto a conquiste militari).

In definitiva, i colloqui avvenuti nei primi due mesi successivi all’invasione sono stati davvero a un passo dal mettere la parola fine al conflitto se non fosse stato per il boicottaggio occidentale, come sostenuto da Cannavò e molti altri? L’opinione di Foreign Affairs (nonché la mia) è abbastanza scettica. Certo, non sono mancati segnali reciproci di buona volontà: gli ucraini non hanno interrotto le trattative neppure dopo la scoperta degli eccidi di Bucha e Irpin, mentre i russi hanno messo sul tavolo alcune proposte molto appetibili come consentire all’Ucraina di aderire alla UE o risolvere pacificamente le problematiche relative alla Crimea.

Tuttavia, si è sempre soprasseduto sulla spinosa quanto cruciale questione dei territori occupati dalle forze militari russe. Evidentemente, i negoziatori sapevano che discuterne avrebbe determinato uno stallo immediato e l’hanno procrastinata, pur trattandosi di un punto ineludibile per la pace. Qualsiasi bozza avrebbe dovuto poi ricevere l’approvazione finale di Putin e Zelensky, per nulla scontata trattandosi di una decisione altamente impattante sui rispettivi destini politici, di qui la necessità di uscirne da vincitori agli occhi dei connazionali. Se non altro, pur non riuscendo a fermare la guerra, i negoziati di due anni fa potrebbero almeno gettare le basi per nuove trattative? Foreign Affairs è possibilista, io meno.

Troppe cose sono cambiate: da una parte, USA ed Europa, al di là delle dichiarazioni di facciata, sono poco propense a spendersi ancora in favore di Kiev, soprattutto con i venti di guerra in corso in Medio Oriente. In patria la popolarità di Zelensky è calata drasticamente: il sindaco della capitale, l’ex campione di pugilato Vitali Klitschko, è una delle non poche voci autorevoli a chiedere un governo di unità nazionale. Il siluramento del generale Zaluzhny, ex comandante in capo delle forze armate, è sembrata una mossa disperata simile a quella di un presidente di una squadra di calcio in zona retrocessione che, non potendo cambiare l’intera rosa di giocatori, esonera l’allenatore nella speranza di dare una scossa all’ambiente e sovvertire l’andamento negativo.

Ma se Atene piange, Sparta non ride più di tanto. Incontestabilmente, la Russia si trova in una posizione di grande vantaggio e minaccia in estate di sfondare su tutto il fronte orientale. Tuttavia, ciò ha richiesto il varo di una vera e propria economia di guerra con tutti i rischi in termini di sostenibilità a breve e lungo termine, soprattutto a livello sociale. Il pericolo di implosione è elevatissimo, specialmente se la resistenza ucraina si rivelasse più tenace del previsto.

  • Facebook
  • Twitter
  • Google+
  • Buffer
  • Evernote
  • Gmail
  • Delicious
  • LinkedIn
  • Blogger
  • Tumblr

 

Non stupisce trovare sull’Economist, giornale decisamente anti-putiniano,  previsioni infauste sulle sorti della Russia, ma sorprende quando a farle è un accademico dell’Università di Pechino, il professor Fen Yung. La Cina ha creato una potente partnership commerciale con Mosca e la sua reale neutralità nel conflitto ucraino è discutibile, ma forse in certi ambienti serpeggia un po’ di insofferenza per il protrarsi di una grave fonte di destabilizzazione globale poco consona agli interessi di lungo periodo del paese del dragone. Ma se tali preoccupazioni fossero recepite dal presidente Xi, quanto potrebbe influenzare le decisioni di Putin, apparentemente vittima di una vertigine da successo?

Dopo la morte di Navalny, la lista di proscrizione dei ‘fiancheggiatori dell’estremismo e del terrorismo’ si allunga sempre di più fino all’assurdo, includendo persino l’ex campione del mondo di scacchi Garry Kasparov, il sociologo marxista Boris Kagarlitsky e la regista Evgeniya Berkovich (a parte il primo, si trovano tutti in carcere), solo per citare alcuni dei nomi più noti. In questo clima impregnato di militarismo dove vige un regime quasi da dittatura conclamata, in cui il patriarca Kiril santifica la ‘operazione militare speciale’ quale crociata contro l’Occidente satanista e il vicepresidente Medvedev ostenta cartine dove l’Ucraina è quasi completamente inglobata nella Federazione Russa, Putin può davvero ‘permettersi’ di conquistare ‘solo’ alcuni oblast del Donbass?

Se fosse seriamente interessato alla pace, quale momento sarebbe migliore di questo, approfittando della posizione di forza sul campo di battaglia? Il mantra “i territori annessi non si toccano” blocca sul nascere qualsiasi serio processo negoziale, perché indice della volontà di accettare solo una resa quasi incondizionata. Tuttavia, giunti a questo punto, forse non ha più molto senso interrogarsi sulle reali intenzioni di Putin, essendo probabilmente succube di eventi da lui stesso innescati ma sui quali esercita oramai un controllo molto parziale. Con Prigozhin e la milizia mercernaria Wagner ha scherzato con il fuoco rischiando di rimanere seriamente scottato e non è detto che riuscirà sempre a schivare ogni ritorno di fiamma.

 

 

Share This