Impegnato come commissario negli esami di maturità, fatico ad esprimermi in maniera adeguata riguardo al fatto saliente che ha contrassegnato la scorsa settimana, ossia il tentativo di golpe (?) della milizia privata Wagner in Russia, dai contorni ancora oscuri e risoltosi con l’esilio in Bielorussia del leader dei mercenari Evgenij Viktorovič Prigožin e l’inglobamento della compagnia all’interno del potere statale. Propongo ai nostri lettori un articolo di Nicola Melloni apparso su Jacobyn Italia, a mio parere molto convincente sia per l’analisi dei fatti recenti sia per la ricostruzione storica del travagliatissimo periodo successivo alla disintegrazione dell’URSS e al passaggio di potere tra Boris Eltsin e Vladimir Putin.
Gli eventi russi hanno ridimensionato un’altra notizia che fino ad allora aveva fatto capolino sui media di tutto il mondo, ossia la tragedia del sottomarino turistico Titan, imploso durante un’immersione per raggiungere il relitto del Titanic. Al riguardo, il noto psichiatra Paolo Crepet si è così espresso pubblicamente:
La cosa che più mi stupisce è che la scelta di queste persone risulti incomprensibile a più. È dai tempi di Ulisse che il rischio è insito nelle grandi o anche piccole imprese umane. Chi denigra questi signori sono i Proci, le Sirenette, li chiami come vuole. Per arrivare a tempi più recenti non si capisce perché un signore come Messner o prima Walter Bonatti siano sempre stati qualificati come eroi. E questi invece dei miliardari sfaccendati che amavano rischiare la pelle e basta. Entrambi hanno sfidato la natura rispondendo al richiamo di una passione. E loro hanno, semplicemente, perso.
Sembra che Crepet non abbia chiara la distinzione tra avventura e turismo. Messner e Bonatti (eviterei le figure mitologiche) non pagavano un servizio commerciale esclusivo allo scopo di vivere emozioni forti: hanno invece cercato con le proprie forze di affrontare l’ignoto assumendosi la piena responsabilità delle loro azioni, consapevoli di esporre le loro vite a gravi pericoli. Nulla di paragonabile al figlio del miliardario pakistano Shahzada Dawood che, per non mancare di rispetto al padre, pare abbia accettato terrorizzato il costosissimo viaggio che gli aveva offerto.
Semmai, un corrispettivo adeguato degli sfortunati occupanti del Titan sono coloro che ogni anno pagano per farsi trascinare dagli sherpa e dalle guide alpine sulla cima dell’Everest. Parimenti a quanto accaduto al Titan, talvolta la farsa degenera in tragedia, come nel 1996 quando sul tetto del mondo avvenne l’incidente costato la morte di otto personate, narrato nel film Everest di Baltasar Kormákur.
Sarebbe bene che, a prescindere dalle evoluzioni tecnologiche, viaggi spaziali, esplorazione degli abissi, conquista delle maggiori vette del pianeta e simili mantenessero una dimensione confinata alla ricerca scientifica o all’avventura, non solo per ragioni di sicurezza.
“Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi”, diceva Bonatti. La forza del denaro potrà forse banalizzare tutto trasformando le montagne in cumuli di sassi, gli oceani in masse d’acqua e lo spazio in un gigantesco ambiente privo di atmosfera. Così facendo, però, perdiamo una grandissima opportunità esistenziale, che non deriva da alcun atteggiamento titanico di dominare la Natura ma, per usare le parole di Ungaretti, nel riconoscersi una docile fibra dell’universo affrontando l’estremo.
In montagna non esiste più nulla da conquistare. Dove non è arrivato l’uomo arriva l’occhio delle fotocamere satellitari, e dove la montagna ha disegnato linee e forme suggestive è arrivata l’industria del turismo che ha occupato la sua nicchia di mercato. Quel che dobbiamo conquistare sono gli angoli remoti della nostra anima. Come essere imperfetto, l’uomo diventerà consapevole della propria limitatezza solo quando si scontrerà con le proprie debolezze psicofisiche. Le montagne come mezzo, come percorsi per la conoscenza di sé. (Rheinold Messner)
E’ uscito ‘La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell’umanità‘, libro scritto da Jacopo Simonetta e Igor Giussani.
Dante però Ulisse lo metteva nell’Inferno proprio perché aveva esagerato. Questo per dire che anche se l’uomo ha sempre fatto certe cose, non in tutte le epoche a questi atti è stato dato lo stesso significato positivo. È proprio per seguire gli esempi dei grandi scalatori che adesso la gente si ammassa sull’Everest ma anche sulle nostre Alpi. Io tutta questa grande differenza non la vedo; tanto più che, a leggere gli scritti dei primi alpinisti, si capisce che molti erano animati dallo stesso spirito di conquista della (alle volte anche di vittoria su) montagna. Certo, forse essere il primo ha qualche merito (scopri qualcosa che prima non si sapeva), ma perché, in fondo? L’unica eccezione è chi porta con sè delle conoscenze che senza esplorazioni non sarebbero state possibili; ma gli altri, dal mio punto di vista, da Messner in giù, sono tutti turisti.
Gli aborigeni australiani hanno impedito ai turisti di arrampicarsi su Urulu: per loro è sacra e non si tocca.
Per noi invece siamo sacri solo noi e le nostre voglie.
La sfida contro la natura è una pulsione prettamente maschile. Noi abbiamo l’idiozia cablata nei geni che riconosciamo in età avanzata se sopravviviamo.
L’andare in luogi esclusivi solo per poterlo raccontare è invece una cosa traversale agli annoiati di entambi i sessi.
Ho scalato uluru in una corsa in salita improvvista con un americano ed un giapponese tanti anni fa. Se ora gli aborigeni lo hanno chiuso hanno fatto bene. Già allora mi sentivo un po colpevole ad andare su dopo che l’agenzia ci aveva spiegato quanto fosse sacro il posto per gli indigeni.
Oggettivamente poi è anche un posto molto, ma molto pericoloso, anche per chi ha una certa preparazione atletica.
Credo che il cosiddetto ‘alpinismo della privazione’ di Messner, che ha cercato di usare uno stile leggero/alpino anche in Hymalaya, lo ponga su di un piano superiore in termini di esposizione rispetto alle spedizioni pesanti come quella italo-pakistana che nel 1954 riuscì nella prima scalata del K2
Cosa c’è di “superiore”? Più difficile, ok, ma quindi? È solo vanità, sfida con se stessi, e il risultato di milioni di vanitosi che si mettono alla prova lo vediamo: nepalesi morti per accompagnare turisti e la montagna più alta del mondo ridotta a una discarica.
Crepet è ormai un vecchio brontolone che fa spettacolo dei suoi brontolii.
Se non vede la differenza fra avventura e turismo è un limite suo evidente a chi lo legge.
L’avventura è tuttora possibile:.
Do pienamente ragione a ijk_ijk. E’ assurdo mettere sullo stesso piano Messner, Bonatti o altri scalatori “puristi”, con gli sciocchi turisti dell’estremo. Che sia salire sempre più in alto, che scendere più in basso per poi raccontarlo con orgoglio agli amici.
Se non ci fosse questa pulsione (prima di tutto individuale e soprattutto maschile e che, purtroppo o per fortuna riguarda solo una minoranza degli umani) verso l’ignoto e per mettere alla prova i propri limiti, noi Sapiens sapiens saremmo tuttora confinati solo in Africa.
E’ oltremodo assurdo sindacare sulle loro motivazioni. Intendo ovviamente quelle di Messner, Bonatti & co. Non ricordo più chi l’ha detto, ma all’intervistatore che gli chiedeva perché avesse scalato per primo quella montagna mettendo a repentaglio la propria vita, quello scalatore rispose, semplicemente: ” perché stava lì”. E secondo me, è una spiegazione pienamente sufficiente.
… di come gli esseri umani, soprattutto in questo momento occidentali, non sopportano i limiti, il fatto di sentirsi sovrastati da qualcosa, più piccoli di qualcosa: devono per forza scalarlo, conquistarlo, anche a costo di distruggerlo o umiliarlo.
La stessa esistenza di qualcosa di più grande e possente di noi ci sembra un affronto da vendicare subito.
Sono molto più saggi i popoli che dicono: questo è sacro, non si tocca e basta.
“pulsione prima di tutto individuale e soprattutto maschile”
E’ l’istinto alla competizione per la prevalenza sociale nella tribu’ di appartenenza, per il quale qualsiasi pretesto per esprimersi e’ buono (dove e’ piu’ animalesco e’ forse nelle accademie di intellettuali, le universita’ sono dei nidi di vipere, altro che luoghi di cultura disinteressata…).
E visibilissimo nella tracotanza degli adolescenti, prima che la furbizia acquisita con l’eta’ impari a travestirlo di “virtue signalling”.
E’ una delle poche cose di cui sono certo.
Se lo si nota poco e’ perche’ e’ ovunque, ci siamo immersi.
La differenza fra maschi e femmine e’ che le femmine competono fra di loro per il “maschio vincente” di cui sopra in modi piu’ efficaci e meno inutilmente fisicamente rischiosi che scalando montagne, discendendo abissi, o guidando spericolatamente ferrari.
Si’, altrimenti saremmo ancora nella savana, o nelle caverne.
O meglio, saremmo “a pair of ragged claws scuttling across the floors of silent seas”, che non a caso si intitola “The Love Song”.
Trattandosi di un istinto e’ del tutto cieco all’obiettivo: si esprime e basta.
Gaia, non sai di cosa parli. Come puoi pensare che il mitico Walter Bonatti, quando nel 1965 scalò da solo e d’inverno (quattro bivacchi in parete) la parete nord del Cervino (Eiger per gli svizzeri) abbia voluto distruggere o umiliare la montagna. Dopo quell’impresa sovraumana (termine in questo caso quanto mai appropriato) si sentì appagato e smise di fare scalate difficili. Ed in effetti nessuno poteva biasimarlo, perché più di questo non si poteva umanamente fare. Almeno a quei tempi. E se siamo ancora qui a ricordarlo dopo quasi sessanta anni c’è un perché.
Ha ragione Winston nel ricordare che queste pulsioni ( che i greci definivano come Hubris) che tu trovi inutili, non sono affatto una prerogativa di noi occidentali. Armando, il mio autista in Mozambico era un Maconde e verso i 18-19 anni (l’esatta data di nascita non la sapeva) andò assieme ad un amico ad uccidere un leone armato solo di una zagaglia e di una lancia. Riuscì nell’impresa e quindi poté sposarsi. Evidentemente le donne Maconde non erano e non sono indifferenti a certi comportamenti.
Per gli svizzeri il Cervino è il Matterhorn, l’Eiger è un’altra montagna
Francesco, so di cosa parlo e semplicemente non sono d’accordo. Per me questo genere di sfide che risultano in un trionfo dell’ “uomo” sulla natura sono fini a se stesse e derivano da un’idea che non condivido. Non capisco cosa c’entri il leone: magari da quelle parti i leoni sono molto numerosi e chi ne uccide uno fa un favore alla collettività, oltre che sfoggio di forza. Oppure devi dimostrare di avere forza perché è una società in cui bisogna ancora combattere.
La storia dell’alpinismo italiano è più elitaria che popolare, anche perché i montanari avevano di solito altre cose da fare che scalare le montagne.
Io preferirei un uomo (o una donna) che usa le sue energie o rischia la vita per qualcosa di utile a tutti. La montagna può stare lì dov’è senza bisogno che qualcuno la scali, freddo o non freddo.
L’alpinismo del ‘trionfo sulla natura’ era quello delle grandi spedizioni. Messner si batte da sempre contro il turismo sull’Everest e la costruzione di infrastrutture sulle grandi montagne, ma anche di croci e simboli vari sulle cime. Ha sempre rimarcato la necessità di mantenere le montagne ‘come prima dell’umanità’.
Sicuramente si tratta di qualcosa di fine a se stesso, senza utilità sociale e anche con un fondo chiaramente narcisistico. Però siamo esseri umani, come tali penso che queste dimensioni non vadano condannate a priori, dipende dalla dimensione che raggiungono.