(OGM, sostenibilità e mistificazione/1)
Sementi OGM resistenti agli erbicidi: un contributo alla sostenibilità?
Come spiegato alla fine della puntata precedente, lo scopo dichiarato delle sementi transgeniche di ‘prima generazione’ non era di aumentare le rese, bensì di ridurre le applicazioni di fitofarmaci. Motivazione che dovrebbe esaltarne il carattere eco-friendly e convincere così la maggioranza degli ambientalisti che ‘stoltamente’ si batte contro la loro diffusione.
Iniziamo allora con la cosa più superficiale ma ovvia da fare: paragoniamo i trend storici dell’impiego di pesticidi in USA e in Italia, esaminandoli parallelamente alla diffusione delle coltivazioni OGM nella patria dello zio Sam.
Si evince che il consumo per ettaro italiano, in sensibile calo a partire dal 2000 a oggi, è sempre stato molto più elevato di quello statunitense, il quale per altro risulta leggermente in rialzo dal 2010, cioé da quando le varianti OGM di mais, soia e cotone sono diventate nettamente maggioritarie.
Scorporando il dato USA tra le varie tipologie di agrofarmaci, si scopre che l’impiego di funghicidi-battericidi è rimasto stabile nel tempo, quello di insetticidi è fortemente calato ma in compenso si è verificata un’impennata nell’uso di erbicidi dal 2005 in poi.
A prima vista, la conclusione da trarre sarebbe che le sementi OGM per resistere agli erbicidi (HT) abbiano sostanzialmente fallito, mentre quelle modificate per incorporare nel DNA la tossina insetticida Bacillus thuringiensis (Bt) si siano comportate a dovere. La questione è però più complessa di così.
OGM resistenti agli erbicidi
La disamina fin qui condotta si espone alla contestazione di fare paragoni in maniera indiscriminata, ragionando sui pesticidi per peso invece di concentrarsi su effetti e tossicità. Cerchiamo allora di approfondire l’argomento.
Prima, però, occorre spiegare la centralità del glifosato nell’intera questione. Commercializzato nel 1974 dalla Monsanto con il nome di RoundUp, presenta non pochi vantaggi rispetto ai prodotti omologhi: meno tossicità per l’uomo, bassa penetrazione nel terreno, facile degradazione in quanto agevolmente attaccato e distrutto dai batteri presenti nel suolo, riducendo quindi la probabilità che i suoi residui riescano a raggiungere le falde acquifere; permette inoltre di evitare profonde arature. Dai campi il suo utilizzo si è esteso anche agli ambienti urbani (giardini, parchi pubblici, ecc.), diffusione favorita nel 2001 dalla scadenza del brevetto; tutti questi fattori hanno contribuito a renderlo il diserbante più venduto al mondo.
Rimpiazzando man mano ritrovati più pericolosi, il glifosato ha gradualmente abbassato il livello generale di tossicità dell’apporto di erbicidi statunitense, sia acuto (effetti a distanza ravvicinata nel tempo) che cronico (dovuto all’accumulo di sostanze nocive): il boom di impiego è avvenuto ovviamente con la commercializzazione delle sementi di mais, soia e cotone modificate per resistere alla sua azione. Senza entrare nel merito riguardo ai diversi pareri sulla cancerogenicità che hanno visto lo IARC scontrarsi con EFSA e ECHA (rimando ad alcune considerazioni espresse da Claudio Della Volpe su La Chimica e la Società ), è sicuro che una sua proibizione generalizzata provocherebbe ripercussioni enormi sull’intero settore agricolo globale. Anche perché è dagli anni Ottanta che non vengono realizzate e immesse sul mercato nuove classi chimiche di erbicidi.
Il periodo d’oro del glifosato e delle sementi HT ha raggiunto il culmine nel 2005-06: i sostenitori della transgenesi esaltavano gli aumenti produttivi in presenza di un trend calante di fitofarmaci (prova tangibile dell’efficacia degli OGM), mentre l’ex brevetto Monsanto sembrava destinato a soppiantare i concorrenti più tossici e obsoleti.
Le cassandre di turno, però, ammonivano a non cantare troppo presto vittoria, dal momento che la natura si sarebbe ‘vendicata’ sotto forma di piante resistenti al glifosato, cosa effettivamente verificatasi dal 2007 in poi. La resistenza agli erbicidi, di per sé, affligge tutti i sistemi agricoli che ricorrono alla chimica di sintesi contro le infestazioni vegetali: tuttavia, prima della diffusione delle sementi transgeniche, era un fenomeno più marcato in Europa che negli USA, successivamente la situazione si è invertita.
Evoluzione nel tempo delle erbe resistenti al glifosato sulle colture USA di soia e mais (Fonte: Benbrook 2016)
Le conseguenze sono state abbastanza radicali. Il consumo di glifosato ha cominciato a schizzare e, fatto ancora peggiore, l’abbattimento dei diserbanti di vecchia concezione si è stabilizzato intorno al 2005, evidentemente perché i ‘nuovi’ ritrovati non risultano all’altezza delle aspettative, visto il loro utilizzo marginale. Per correre ai ripari, la Bayer-Monsanto (nel 2018 il colosso tedesco ha rilevato la multinazionale statunitense) ha messo in commercio a partire dal 2016 semi di soia e cotone progettati per resistere sia al Roundup che al dicamba, discusso erbicida prima bandito dall’EPA e poi nuovamente autorizzato dopo un cambio di formulazione.
GLIFOSATO
Fonte: United States Geological Survey
Impiego di erbicidi su mais, frumento, soia e cotone USA (Fonte: Osteen e Fernandez-Cornejo 2016)
Inoltre, al glifosato si sono affiancati in misura sempre maggiore prodotti tendenzialmente con peggiori profili di tossicità.
Apporto di glifosato e altre tipologie di erbicidi su mais, soia e cotone USA (Fonte: Kniss 2017a)
Oltre al già citato dicamba, troviamo mesotrione (novità specifica per il mais introdotta a cavallo del nuovo millennio), atrazina (di cui non è certa la cancerogenicità, ma presenta sicure problematiche ambientali e sanitarie, ragione per la quale è stata proibita in Italia nel 1992 e nella UE nel 2004), acetochlor (probabile cancerogeno respinto dalla UE nel 2011), 2.4-D (uno dei componenti del famigerato Agente Arancio, a rischio di cancerogenicità secondo IARC ed ECHA), paraquat (fuorilegge in Europa dal 2007), diuron (ammesso nella UE ma ‘very toxic to aquatic life with long lasting effects’, secondo l’ECHA, oltre a essere sospetto cancerogeno).
Fonte: United States Geological Survey
Analizziamo ora l’evoluzione del rischio di tossicità cronico (chronic hazard) e acuto (acute hazard) relativamente a mais, soia e cotone dal 1990 a oggi.
Evoluzione nel tempo della tossicità cronica e acute di mais, soia e cotone (Fonte: Kniss 2017b)
Grazie alla progressiva eliminazione di alcuni degli erbicidi più vetusti e pericolosi (come cianazina e alachlor), tutte e tre le colture hanno nettamente ridotto nel tempo il rischio acuto (seconda riga di diagrammi). Dal 2005-06, però, soia e cotone stanno peggiorando il loro rendimento, a causa del maggior ricorso a prodotti come il paraquat, il cui consumo è aumentato rispetto al periodo pre-transgenesi.
Per quanto concerne il rischio cronico, la situazione è decisamente meno rosea: mentre la soia conferma sostanzialmente il medesimo trend del rischio acuto, mais e cotone registrano addirittura valori peggiori rispetto agli ultimi anni dell’era pre-OGM. Questo sia perché non sono mai riusciti ad emanciparsi da alcuni diserbanti di vecchia concezione (atrazina, acetochlor, diuron) sia perché quelli più recenti, come il mesotrione della Syngenta, provocano effetti nocivi duraturi sull’ambiente.
Ne vale la pena?
Nel 2012, il consumo complessivo statunitense di erbicidi delle principali coltivazioni ha superato il picco di fine anni Settanta, problema ampiamente messo in risalto dai contestatori degli OGM e che, in termini di sostenibilità, rappresenta una chiara manifestazione del paradosso di Jevons. I loro sostenitori hanno invece enfatizzato come, oggigiorno, il livello complessivo di rischio sia di gran lunga inferiore, nonostante i maggiori quantitativi adoperati. Lasciano intendere che, nonostante tutto, senza le sementi tolleranti agli erbicidi la situazione sarebbe addirittura peggiore. Ma è proprio così?
Gli studi che rimarcano i risultati positivi ottenuti dalla sementi HT circoscrivono quasi sempre l’analisi ai primi anni successivi alla loro commercializzazione, prima cioé che il fenomeno delle erbe resistenti si aggravasse. Un gruppo di ricercatori nel 2016 ha pubblicato uno studio su Science Advances, condotto su di un arco di tempo più lungo (1998-2011) e avente come oggetto il consumo di erbicidi di più di 5000 coltivatori di mais e soia statunitensi. I risultati delle osservazioni sono decisamente interessanti e smentiscono luoghi comuni radicati, mentre confermano dati dell’USDA riguardo al sostanziale riallineamento tra coltivazioni modificate e non nella quantità di erbicidi impiegati. .
Sulle coltivazioni di soia HT, fin dalle origini, è stato irrorato mediamente un quantitativo per ettaro maggiore rispetto alle non-HT; dal 2003 in poi, è anche aumentato il quoziente di impatto ambientale (EIQ). Il mais HT si è dimostrato più efficace, ma anch’esso dal 2010 incappa nelle medesime problematiche.
Differenza nel consumo per ettaro di erbicidi e nel quoziente di impatto ambientale (EIQ) delle sementi GT (‘glyphosate-tolerant’) rispetto quelle non-GT. Diagramma A: soia GT; diagramma B: mais GT (Fonte: Perry e altri 2016)
E’ possibile che ricerche analoghe condotte su altri campioni di agricoltori riescano a presentare esiti più favorevoli alle sementi HT, ma non si tratta di creare una competizione sul filo dei decimali tra queste e le convenzionali. Il vero problema è rappresentato dal fallimento della promessa di ridurre considerevolmente l’apporto degli erbicidi, nonché dalle evidenti difficoltà nel limitarne la tossicità dopo gli exploit iniziali. Diventa arduo difendere le soluzioni transgeniche, con tutte le criticità che comportano, quando con le coltivazioni non modificate si riesce a contenere il danno in misura sostanzialmente simile. Non a caso, i sostenitori degli OGM in Italia e in Europa perorano principalmente la causa delle coltivazioni Bt, perché riguardo a esse è possibile ostentare numeri inoppugnabili sulla loro efficacia. Almeno così si racconta… (continua)
PS: prima di chiudere, permettetemi di levarmi un sassolino dalla scarpa. Malgrado le notevoli divergenze sull’argomento OGM (e non solo) con Dario Bressanini, non ho nulla contro di lui sul piano umano, come divulgatore ad esempio lo preferisco di gran lunga all’onnipresente Roberto Burioni. Non nascondo però l’insofferenza per la maniera caricaturale con cui tende a dipingere chi si oppone all’introduzione delle sementi transgeniche in Europa: immancabilmente ignorante, prevenuto, vittima di bias e incline al cherry picking, il prototipo dello ‘analfabeta funzionale’, insomma.
Il 12 luglio 2018, sul blog ‘Scienza in cucina’ (ospitato sul sito Web de L’Espresso) il chimico lombardo ha pubblicato un post intitolato ‘La verità, vi prego, sul mais OGM‘, impostandolo come un ipotetico botta e risposta tra lui e un contestatore stereotipato degli OGM. Questi a un certo punto insinua
Comunque con tutto quel mais resistente agli erbicidi l’uso di diserbanti sarà schizzato
Bressanini gli replica
In realtà no. Almeno sul mais. Non è che prima non si usassero i diserbanti. Semplicemente se ne usavano altri. I dati dell’USDA indicano che dal 1996 l’uso dei diserbanti sul mais è diminuito, per poi tornare ad aumentare un po’
portando come prova a sostegno il seguente diagramma.
Per tutto il post, il chimico ostenta numeri aggiornatissimi sulla diffusione delle sementi transgeniche negli USA e in Spagna, mentre in questo caso non gli riesce di meglio che ripescare una pubblicazione dell’USDA risalente a quattro anni prima (Pesticide Use in U.S. Agriculture: 21 Selected Crops, 1960-2008), i cui dati si fermano al 2008 (guarda caso, fin quando il mais resistente al glifosato sembrava comportarsi a dovere). Ovviamente, una documentazione coeva al post avrebbe portato alla luce che la risalita del consumo di erbicidi sulle coltivazione di mais HT era nel frattempo passata da ‘un po” a ‘un po’ tanto’. Lo dico con assoluta certezza perché, proprio contemporaneamente a Bressanini (cioé nell’estate del 2018), anche il sottoscritto stava reperendo informazioni sull’argomento, servite poi per alcuni articoli pubblicati tra marzo e aprile del 2020 su Decrescita Felice Social Network (in particolare il seguente).
Ovviamente, non possiamo leggere nella sua coscienza, quindi solo il diretto interessato può sapere se tale comportamento si debba a partigianeria o a sincera ignoranza. Possiamo solo limitarci a seguire il consiglio che elargisce nell’articolo: “Nella scienza non ci si deve ‘fidare’ di nessuno”; pertanto verifichiamo sempre le affermazioni di chicchessia, anche di chi passa per estremamente competente e informato.
Visto che fuori fa troppo freddo per lavorare, rispondo subito. Complimenti: ottimo articolo. Mi permetto di fare due osservazioni. Personalmente ho una grande stima di Bressanini, non solo perché di solito bene informato, ma anche e soprattutto perché, contrariamente a molti altri, non esista a ritrattare se capisce di aver sbagliato o esagerato.
Nelle valutazioni di molti dati agricoli, come ad esempio il settore erbicidi, insetticidi, concimi, andrebbe considerato che una buona parte di questi pur venendo usati da privati cittadini o istituzioni pubbliche (per giardini, strade, ecc) vengono acquistati nei negozi di articoli agricoli e pertanto cumulati in questo campo. La sede del Consorzio Agrario del mio paese, è suddivisa in due punti vendita: agricoltori e cittadini/orticoltori. Nella seconda entrano almeno 10 volte più clienti che nella prima. Costoro acquistano ovviamente confezioni molto più ridotte, ma complessivamente la percentuale non credo sia di molto inferiore ad un terzo ed oltre della prima. Non a caso l’ISPRA ha rilevato che da molti corsi d’acqua che attraversano dei centri abitati rileva tracce di “pesticidi” più elevate rispetto a quelli che attraversano solo le campagne. La mia piccola azienda è emblematica: i tredici cittadini che hanno preso in affitto da me dei terreni per farci l’orto, consumano molti più diserbanti e fitofarmaci (compresi i neonicotenoidi che io non posso acquistare) rispetto a me che coltivo cento volte più terra di loro.
Grazie
Ovviamente il beneficio del dubbio va lasciato a chiunque, però faccio molto fatica a pensare che, per di più in una materia del genere che è il suo pane, la mia capacità documentaria possa risultare superiore alla sua. Anche perché l’USDA è trasparentissima sui dati agricoli… devo dire che tutti gli enti governativi americani lo sono, nulla di paragonabile a quelli europei. Quindi sono molto precisi, indicando persino quale pesticida viene applicato, quanto e su quale coltivazione.
Come ho detto, mi sono solo levato un sassolino dalla scarpa perché Bressanini e i suoi fan sono sempre pronti a dire che gli altri ‘sono vittime del bias’, ‘fanno cherry picking’… questo è un cherry picking non solo grosso come una casa, ma persino fatto male se un non-esperto come me in 5 minuti di ricerca sul Web ti trova la fonte.
Francesco, per curiosità, perché permetti ai tuoi affittuari di usare quella roba sul tuo terreno?
Io credo che quando si parla di agricoltura bisogna sempre tenere a mente l’aspetto sistemico. Ci sono così tante cose che vengono date per scontate… questo distorce completamente il dibattito.
1. Perché abbiamo un bisogno così disperato di rese così alte? In parte per una popolazione che continua a crescere, in parte per usi assolutamente assurdi dei prodotti agricoli, ad esempio per produrre carburanti ed energia (per avere macchine sempre più grandi), o vestiti che si mettono una volta e poi si buttano (non scherzo…), o adesso le bioplastiche… senza discutere il lato della domanda, finiremo, come sembra addirittura sottintendere questo articolo, a pensare di essere costretti ad accettare che nell’ambiente sarà inevitabile scaricare un po’ di veleni pur di avere una produzione maggiore
2. Diserbanti e pesticidi sostanzialmente servono a far sì che i nutrienti disponibili in un dato appezzamento siano utilizzati solo dalle piante che ci fa comodo avere, eliminando qualsiasi altra forma di vita. Quindi farfalle, fiordalisi, uccelli, piccoli mammiferi, creature acquatiche… tutto deve morire. Su questi campi, indipendentemente dalla tossicità o meno del singolo prodotto, di fatto e necessariamente tutta la vita muore.
Poi, distrutti dallo squallore della vita in prossimità di simili deserti velenosi, andiamo a fare i turisti nei pochi luoghi semi-intatti rimasti, pur di trovare un po’ di “natura”. Una passeggiata in campagna non è più né sana né piacevole. Si comincia a invertire un po’ la rotta con cose come la tutela dei prati stabili o di qualche corso d’acqua, ma è ancora troppo poco.
Allora, a che pro fare un’agricoltura così devastante, per produrre cose di cui in parte potremmo fare a meno?
Questi aspetti per me non sono secondari al discorso sulle rese e sui diserbanti, ma fondamentali. Alte rese per cosa? Veleni nell’ambiente per cosa?
Sono nel complesso d’accordo. Ridurre tutto a un discorso di sementi non ha senso, quando l’agricoltura attuale produre per 11-12 miliardi di persone ma il 30% del cibo viene sprecato, esistono coltivazioni dedicate per cose assurde come i biocarburanti, si produce cibo distruggendo altre risorse alimentari (vedi zone morte marine create dai fertilizzanti agricoli), la malnutrizione è dovuta prevalentemente a mancato accesso per ragioni economiche al cibo e non per sottoproduzione. SU DFSN ho scritto una serie di articoli intitolata ‘critica della ragione agroindustriale’ che verteva su questi aspetti.
Gaia: rispondo volentieri alla prima domanda. Sulle successive considerazioni preferisco astenermi per non arrabbiarmi.
Innanzitutto, più che permettere mi adeguo agli assurdi pregiudizi di chi ha paura della qualità del cibo “normale”. Quasi tutti i miei 13 orticoltori, essendo più impauriti della media si possono definire filo-biologici. Ed è proprio per questo che paradossalmente le loro verdure risultano essere meno ecocompatibili (ed anche più costose) rispetto a quelle del supermercato. Un paio di loro quando possono vengono in bicicletta, altri abitano a uno o due km e vengono in auto e due, in tarda primavera-metà estate, fanno ogni giorno almeno 20 km (tra andata e ritorno) per coltivare il loro orticello: 100 mq ciascuno. Solo da questo capisci quanta eco compatibilità ci sia per ogni kg di verdura. Essendo tendenzialmente Bio quasi tutti usano enormi quantità di vari prodotti altamente tossici e persistenti nell’ambiente a base di rame (solfato, ecc) soprattutto per combattere la peronospora ed altre patologie fungine. Di queste ne hanno più di me perché (quasi tutti) insistono nell’usare sementi autoprodotte (e pertanto più sensibili) oppure acquistano piantine di pomodoro o melanzana “normali” e cioè non quelle selezionate (con vari metodi: ibridazione o mutagenesi indotta (e pertantoGM) come invece facciamo io ed altri due. Contro i parassiti quasi tutti usano (o meglio abusano perché li spruzzano ogni pochi giorni) vari tipi di insetticidi in libera vendita. I peggiori abusi li ho visti negli ultimi 3-4 anni a causa dell’infestazione da cimice asiatica contro cui sembrava non funzionare niente. Lo scorso anno l’infestazione è diminuita e spero che il trend continui grazie all’introduzione nell’ambiente di specie antagoniste. Le eccezioni sono due: un indiano e un moldavo. L’indiano (laureato in chimica e responsabile del laboratorio di analisi di un grosso caseificio) si limita a coltivare solo quei tipi di verdura che hanno meno problemi e come me acquista piantine F1 o selezionate ed è stato anche il primo a seguire il mio consiglio di usare la zeolite contro cimici, peronospora e altre patologie. Può inoltre contare su una numerosa famiglia: figlie e moglie sono diserbanti ed insetticidi naturali: in pochissimo tempo fanno sparire infestanti e parassiti manualmente. Il moldavo, ha fatto fino a pochi anni fa il contadino e pertanto non è (ancora) condizionato dalla disinformazione di massa, e segue i miei consigli: pacciamatura integrale con tessuto plastico; solo specie adatte alla locale climatologia e pedologia e niente coltivazione delle verdure industrializzabili, tipo fagioli, piselli o pomodoro da conserva. La coltivazione su piccola scala di questo genere di verdure alla fine non è conveniente rispetto a quella in pieno campo. Comunque sono tutte ottime persone che vanno d’accordo: quando uno va in vacanza può contare sugli altri per l’irrigazione o altro e si scambiano volentieri prodotti e consigli. Per me è questo che conta più di tutto. Gli unici problemi li ho (abbiamo) avuti in passato con tre coppie di sciroccati che credevano al metodo della permacultura. Tra la fine di Giugno ed inizio Luglio questi sciocchi hanno tutti abbandonato per la fatica e vergogna di non riuscire a produrre niente più che qualche cespo di insalata e molte erbacce. Ogni volta che una di queste coppie abbandonava, gli altri organizzavano una grigliata in comune per festeggiare.
E’ anche osservando questi amici orticoltori che mi convinco sempre più di come l’agricoltura intensiva, ovviamente con le dovute ed auspicabili correzioni, risulti essere nella pratica di gran lunga quella più ecocompatibile. So bene che, essendo una cittadina, nonostante l’evidenza resterà convinta del contrario.
Francesco, da cosa deduce che sono una cittadina, e che i cittadini siano per definizione più ottusi di altri? E la sua parola, da sola, sarebbe “evidenza”?
Comunque io non uso assolutamente nulla per il controllo dei parassiti, solo la rotazione, sto adottando i metodi della permacultura, e mi trovo bene. Niente veleni di nessun tipo, né quelli ammessi nel biologico, né quelli che non lo sono. Le erbacce o le mangio, o le estirpo a mano, o le lascio per quando torneranno gli animali. Evito la plastica il più possibile e uso per pacciamare o lana di scarto, o trucioli, o i residui del diserbo. Comunque non voglio entrare in polemica, capisco qual è l’intento, sono già partiti gli insulti, e meglio che ognuno si tenga le sue idee.
Gaia: come potevo sapere che lei è un’adepta della Permacultura? Le mie esperienze con questa religione sono piuttosto limitate. Quando ho scritto il mio libro, ho voluto inserirvi anche questo argomento e per mesi ho cercato invano informazioni che non fossero solo cartacee. In particolare desideravo vedere un’azienda agricola che producesse qualche cosa seguendo i dogmi della Permacultura. Dopo tanto cercare, mi hanno indirizzato verso un’azienda orticola alle pendici del Baldo. Quando l’ho visitata ho scoperto che l’orticoltore (uno bravo) nel frattempo aveva già capito che non funzionava ed era tornato a produrre con i soliti metodi. A casa sua ho però conosciuto un ragazzo altoatesino reduce da un lungo soggiorno in Australia e da corsi tenuti da uno dei fondatori della religione; non ricordo se Holmgren o Morrison. Costui mi spiegò che la Permacultura (come si evince anche dal nome: cultura e non coltura) ha poco a che fare con l’agricoltura (con la o), ma piuttosto con l’architettura ed un certo modo di vivere. Strizzando l’occhio mi ha detto di voler comunque sfruttare il suo curriculum, andando a lavorare per un ricco neoconvertito della Toscana, con tanto di casa di paglia e connessi.
Oltre a questo altoatesino furbacchione e alle tre coppie, ho conosciuto anche altri soi disant permacultori, ma tutti si limitavano a piccole superfici e ai tipi di verdure più facili da ottenere. Mai una vera e propria azienda agricola in grado di sfamare almeno 3-4 persone. Per cui ti pongo due semplici domande: la consideri veramente un’alternativa valida per sfamare 8 miliardi di persone?
In base a quale nuovo principio fisico (che smentisca l’attuale Principio della Conservazione della massa) il terreno a cui sottrai continuamente nutrienti riesce a mantenere la sua fertilità senza alcuna reintegrazione, come appunto recita uno dei dogmi della Permacultura?
Franco/esco
Ma ancora qui sei? La permacoltura incorpora delle zone dove si allevano gli animali, e quindi negli orti il letame non manca. Ma cosa stai a scrivere? Come solito quando incominci con le tue baggianate non la finisci più e poi sei pure offensivo. Ma il peggio è che non conosci ciò di cui parli.
@fuzzy @Francesco
I toni aggressivi e sarcastici sono permessi dai commentatori solo se usati con il sottoscritto, non tra i commentatori stessi. Quindi vi richiamo all’ordine.
Igor: le faccio rispettosamente notare che non mi sembra di aver mai offeso nessuno direttamente. Ho solo citato e affettuosamente definito sciocche delle persone (indefinite) che ho conosciuto e che oggettivamente hanno dimostrato di esserlo. A differenza dei miei orticoltori, quando abbandonavano, mi facevano pena, perché persone veramente convinte di essere nel giusto.
Fuzzy: a parte il fatto che TUTTE le persone che si definivano adepte di tale religione erano vegetariane o vegane, so benissimo che nei testi sacri è prevista anche la presenza di animali. In tutti gli orticelli permaculturati che ho visitato io, però questi animali o non c’erano, oppure le galline (in condizioni pietose perché affette da almeno tre o quattro patologie in tutti i casi) rimanevano sempre confinate nel pollaio. Quando subdolamente (conoscevo già la risposta) ho chiesto il motivo, immancabilmente mi hanno risposto che altrimenti rovinavano le colture. Inoltre, dato che in tutte questi esempi dilettanteschi non venivano mai coltivati cereali o semi di leguminose a scopo zootecnico, TUTTO l’alimento per le galline proveniva da fuori, mentre il principio fondante dell’azienda permaculturata è di essere autosufficiente. Comunque non ho mai visto usare letame dalle tre coppie, che usavano invece solo paglia (acquistata a decine di km di distanza) per pacciamare e a loro dire, per apportare elementi nutritivi. L’ultima coppia, dopo aver saputo che non so che farmene della lana delle mie pecore (è considerata rifiuto e dovrei pagare per smaltirla) , me l’hanno chiesta per la pacciamatura. Per un paio di mesi ha funzionato meglio della paglia, ma quando hanno visto che le piantine di pomodoro stavano seccandosi per virosi e peronospora, hanno abbandonato. Anche Fuzzy, in un altro blog, ha sostenuto di apportare al suo orticello solo delle foglie secche raccolte altrove. Questa religione ha oramai parecchi anni per cui dovrebbero già esserci degli esempi ben consolidati (intendo vere e proprie aziende agricole produttive) da poter visitare. Avendo una solida cultura contadina pesantemente condizionata dal pregiudizio di credere solo ad esempi concreti, ho più volte chiesto a tanti permacultori (te compreso) di fornirmi degli indirizzi in modo che io possa essere zittito e convertito come San Tommaso o San Paolo sulla via di Damasco. Sto ancora aspettando.
Francesco, usare le parole ‘religione’ e ‘dogmi’ in riferimento alla permacultura non è l’atteggiamento per un confronto sereno con chi la pratica, è chiaramente una provocazione. Le libertà che vi potete permettere con me evitatele tra di voi.
Giussani
Per quanto mi riguarda non mi aspetto che ogni mio commento venga approvato.
Se il commento non risulta essere adeguatamente corretto lo si può tagliare prima che venga pubblicato, evitando poi di censurarlo pubblicamente.
Saluti
Ho avvisato proprio perché voglio evitare censure di ogni genere, se non vengo costretto.
Francesco, già il definire “religione” delle pratiche che non ti convincono è offensivo, non credo che serva che ti spieghi perché. Inoltre, se i tuoi affittuari hanno pensato di fare permacultura in poco tempo, con sole annuali e in terreni in affitto permettimi di dire che non stavano facendo permacultura, perché queste cose non sono compatibili.
Personalmente, la mia mentalità è di provare e vedere cosa funziona, all’interno però di paletti a cui tengo, ad esempio non utilizzare pesticidi e concimi di sintesi, e ridurre al massimo il ricorso alla plastica. Riguardo alla domanda sullo sfamare 8 miliardi di persone, la mia risposta è: dipende. Cosa mangiano queste persone? Quali altri prodotti agricoli (fibre, energia, cibo per animali d’affezione,carta, fiori…) consumano? Quante di loro saranno direttamente impegnate nella produzione di cibo? Quanto danno al suolo, ai corsi d’acqua e all’aria siamo disposti a tollerare? Ci interessa solo sfamare questi 8 miliardi, o anche i loro nipoti? Saremo sempre 8 miliardi? E così via.
La domanda corretta semmai è: come ridurre in modo indolore (calo della natalità) la popolazione umana fino a poterla sfamare comodamente e sostenibilmente senza distruggere l’ambiente che condividiamo con così tante specie? Senza fare questo, la produzione di cibo sarà sempre un problema.
Io sto avviando un’azienda, per cui molte cose sono ancora in fase iniziale o sperimentale. Mi sembra di capire di avere un problema che tu non hai, cioè la scarsa disponibilità di terra (non apriamo questo discorso, basti dire che la terra costa moltissimo e che io sono contraria ai contributi e cmq non ne ho ereditata), ma di non averne uno che hai: per me la lana non è un rifiuto ma una risorsa, perché ho imparato a lavorarla e la vendo filata. Agricoltura non vuol dire solo cibo.
Io utilizzo le galline un po’ come Mollison, cioè le uso per pulire i terreni e concimarli, e le sposto d’estate. Nei terreni così preparati da galline e pecore poi faccio semine. Il mio problema sono i predatori: è illegale ucciderli e io non ne avrei neanche il coraggio, però se le lasci fuori che razzolino un po’ ne perdi. Questo sarebbe abbastanza risolvibile se avessi terreni di proprietà in cui costruire strutture sia mobili che fisse (bastano legno e rete), ma per l’appunto non ne ho molti. Il problema della fauna selvatica è molto serio e molto trascurato (vedere lupi sulle Alpi), non vorrei che questa discussione degenerasse in un dibattito pro o contro questa o quella specie, per cui lo accenno soltanto. Io sono per le mediazioni, non conflitti in cui un solo estremismo vince.
Riguardo ai nutrienti, io riutilizzo tutto il letame, anzi il mio problema è semmai il contrario, ne ho quasi troppo. Questo perché, per l’appunto e di nuovo, i terreni non sono miei, per cui chi falcia vuole *meno* erba e non mi permette di concimare i prati. Comunque uso quasi tutte risorse locali, anzi ho iniziato a fare questo proprio per non vedere più fieno buttato via! Sul mangime delle galline hai in parte ragione, ma io integro con cose autoprodotte tra cui gli scarti della lavorazione del latte e altri scarti di produzione, nonché i quintali di pane che la gente inspiegabilmente butta via. Questo non è un modello generalizzabile, ma la permacultura è anche questo, adattarsi alle circostanze specifiche. L’unica cosa che manca per, come dici giustamente tu, non sottrarre più nutrimento di quello che si apporta (e la permacultura sicuramente non dice di fare questo!) è il riciclo di escrementi umani, e non metterti a ridere, come credi che la Cina abbia fatto a essere così popolosa per millenni? Qui però bisogna fare i conti con le norme e con questioni sanitarie da valutare prima di scatenare un’epidemia di colera involontaria (esagero, ovviamente).
Se tu sostieni che il mio sistema abbia meno rese per ettaro del tuo, posso anche darti ragione (anche perché vivo in montagna). Ma come dicevo bisogna valutare tutto: la sostenibilità a lungo termine, l’inquinamento, il consumo di acqua, gli input esterni e il loro costo economico e ambientale, così via. Se tu per produrre di più su un ettaro devi estrarre risorse da altri tre e inquinare il fiume, per dire, non vale contare solo la resa.
Se vuoi, puoi venire qui. Non troverai un’azienda avviata e potresti metterti a ridere davanti ai miei orti disordinati, e non mi sentirai dichiarare che io applico la permacultura religiosamente, ma almeno non potrai dire che tutti quelli che si ispirano ai suoi principi sono dei furbacchioni.
Innanzitutto mi scuso se il termine “religione” ha offeso qualcuno, ma dall’esperienza diretta con le tre coppie, non solo io, ma anche un’altra trentina di persone hanno avuto questa impressione. Ogni anno a San Martino, invito a una cena di fine annata nella mia taverna tutti gli orticoltori con mogli e compagne e spesso abbiamo parlato dei permacultori e del loro atteggiamento di superiorità. Almeno all’inizio. Ognuno di loro poi è stato diverso: la prima coppia era sostenitrice delle teorie della Emilia Hazelip e disdegnavano il letame quasi fosse un veleno; la seconda si portava dietro il libro di Fukuoka e lo consultavano in accorato silenzio. La terza seguiva invece la Permacultur ortodossa di Holmgren e Mollison. Tutti si sono dichiarati permacultori, vegetariani, animalisti (con i cani castrati!) e fedeli credenti nell’influenza della luna sulle colture.
Oltre a queste ho avuto altre due esperienze interessanti.
Anni fa chiesi a mio figlio che vive in Francia di trovarmi un’azienda praticante la Permacultura da poter visitare. Ne trovò una che pareva molto interessante (mi mandò degli articoli di giornali parigini che la esaltavano) nella regione della Loira. Per un paio di anni programmai di andarci, ma poi per vari motivi dovetti rimandare. Quando nel 2018 trovai il tempo per farlo, mi risposero che era fallita. Dagli articoli sui giornali francesi appresi che si erano dati come obiettivo quello di avere un guadagno annuo di 100.000 euro per mantenere tre persone, ma nonostante i sostanziosi introiti derivanti dalle quote pagate da chi vi faceva dei corsi (lavorandovi gratuitamente) e dalla vendita dei costosissimi prodotti, aveva accumulato molti debiti.
Sempre anni fa, avrei voluto visitare un’azienda veneta, ma avendo litigato con il proprietario, chiesi ad una coppia di amici di farlo al posto mio e riferirmi. Mi raccontarono che anche qui la stragrande maggioranza degli introiti proveniva dai corsi che organizzavano per neoadepti (tutti cittadini) e pochissimo dalla vendita dei prodotti. Il motivo del litigio fu una mia domanda fatta al permacultore durante una sua conferenza ad un gruppo di ambientalisti. Dopo che aveva dichiarato più volte che la permacultura è più una filosofia di vita che un modo per produrre e che questa fosse la vera alternativa all’agricoltura attuale, gli chiesi come pensava di
produrre cibo, non dico per 8 miliardi di persone, ma almeno per gli abitanti dell’Italia, con un metodo che ha come obiettivo la sola produzione di sussistenza. Invece di rispondere si arrabbiò per la mia domanda a suo dire provocatoria. Quando anche altri dissero di essere interessati alla risposta, si arrabbiò ancora di più e cominciò ad insultare me e gli organizzatori. E tutto finì ” a schifio”.
A parte i francesi ed il furbacchione veneto che tuttora campa organizzando corsi per neoadepti, resto perplesso nei confronti di tutti coloro che credono in questo metodo. Secondo me ci credono solo perché non hanno il normale retroterra scientifico e culturale che hanno tutti i contadini, per capire che stanno sbagliando. Tutto nasce sia da scarse conoscenze sulla biologia, sia da due pregiudizi: una sovrastima delle esternalità dell’agricoltura e credere che questa debba essere in armonia/equilibrio con la natura. Per dirimere la discussione secondo me c’è un solo sistema e cioè lo stesso che da anni propongo per chi crede all’omeopatia. Chi crede a questo genere di alternative lo dimostri con i fatti: si ritagli un suo spazio e applichi unicamente la sua soluzione. Nel caso dell’omeopatia i credenti si facciano curare con le pozioni che preferiscono nei loro ospedali, finanziati con la normale quota parte di tasse che lo Stato spende per ogni cittadino. Per cure intendo tutte (fratture, anestesie, parti, trapianti, tumori, ecc.) e non solo le malattie immaginarie. Lo stesso per la Permacultura: il cibo (tutto, compresi staple foods: cereali, ecc) deve provenire unicamente da terreni coltivati con questo metodo alternativo. Se funziona, sarò il primo a convertirmi, pardon , a crederci.
Francesco, a me non interessa difendere per principio la permacultura né qualche altro metodo alternativo. Mi sembra strano che permaculturisti fossero vegetariani e “animalisti” (col cane!), dato che nei testi che ho letto io gli animali venivano usati e anche mangiati, ma vabbè. Sicuramente c’è molto margine anche per l’agricoltura di sussistenza, vista la quantità di spazi verdi sprecati che la gente avrebbe a disposizione, e non solo per l’agricoltura commerciale.
Non sei onesto però nel parlare di redditività, quando l’agricoltura industriale è pesantissimamente sovvenzionata (contributi per ettaro, per macchinari, per trattori, gasolio agevolato, ecc ecc) con soldi pubblici. Se fosse possibile far sì che i prezzi degli input riflettano tutti i costi ambientali, che il lavoro umano non fosse così penalizzato, che la burocrazia incida poco e che non ci siano i contributi, allora sì che si potrà fare un confronto. Adesso se viene un contadino con il trattore a dirmi che il mio mais coltivato a mano rende poco, gli rispondo: “e a te quello chi te l’ha pagato?”
Se ti interessa ho scritto un libro su questo, ma dubito che ti piacerebbe.
“l’agricoltura industriale è pesantissimamente sovvenzionata (contributi per ettaro, per macchinari, per trattori, gasolio agevolato, ecc ecc)”
Non cadere anche tu nel tranello: in italia si considera “agevolazione” tutto cio’ che e’ riduzione, anche minima, dell’imposizione fiscale rispetto al massimo “normale”.
In altre parole, se il normale gasolio al distributore di benzina e’ tassato all’80 per cento, una riduzione al “solo” 50 per cento dell’imposta, ad esempio per agricoltori pescatori e camionisti, e’ fiscalmente considerata una “sovvenzione”.
Un regalo!
A me, nel linguaggio comune dei poveracci, e non nella neolingua, tutto cio’ piu’ che una sovvenzione mi pare una discutibile benevolenza da parte dei banditi sulla rapina che stanno effettuando.
Ed e’ cosi’, tassativamente.
La permacoltura non è altro che l’agricoltura tradizionale che si praticava in passato in gran parte del nostro territorio. Quella con al centro il castagno. Oppure la cosiddetta “Coltura promiscua.
Quella di Fukuoka è l’agricoltura naturale, e si basa sostanzialmente sulla microbiologia del suolo. Qui si parla di microrganismi del suolo, rizosfera ecc. Chiaramente, un terreno esausto per essere stato coltivato in modo intensivo e con l’apporto di pesticidi e fertilizzanti azotati, avrà bisogno di essere rigenerato prima di ritornare ad essere produttivo.
Poi c’è il biologico che Francesco sembra conoscere.
Adesso si parla con grande enfasi dell’agricoltura di precisione. Ma anche questa ha i suoi pro e i suoi contro. Innanzitutto non è così precisa come si vuol far credere (un contadino del tipo tradizionale alla fine sa essere molto più preciso) e poi è un’agricoltura ad alta intensità di capitale che tipicamente favorisce le multinazionali del cibo rispetto ai piccoli agricoltori, che in questo modo non riescono a sostenere la concorrenza e finiscono per fallire venendo espropriati dei propri terreni.
Giusto per non fare di tutta l’erba un fascio. Comunque io continuo a percepire il solito tono sprezzante e un’insistenza fastidiosa a ripetere sempre le stesse cose.
Gaia: hai già accennato a tre possibili scuse per spiegare l’insuccesso dei permacultori: non avevano sufficiente terreno, formazione e non hanno avuto abbastanza tempo per dimostrare la superiorità del loro metodo. Ebbene, ti “stoppo” subito per tutte e tre. I lotti di terreno erano uguali per tutti. A parte qualcuno, la maggior parte degli orticoltori “normali” non aveva nessuna precedente formazione ed esperienza. Anzi, sono venuti perché ho promesso di dargli una mano con consigli pratici. E fin dall’inizio hanno potuto contare sui consigli dati volentieri anche dagli altri (in breve tempo sono diventati tutti amici), e quasi tutti si informano su internet. Stesso discorso per il tempo. Anche i principianti, dopo un mese di coltivazione già portavano a casa ceste di verdura. Tra le più importanti ragioni dell’insuccesso ed abbandono dei permacultori è da citare l’arroganza e la presunta superiorità morale che gli impediva di accettare consigli fin dall’inizio. Poi nessuno degli altri ne ha dati, per non sentirsi criticare.
Anche l’argomento pacciamatura e plastica è interessante. Noi orticoltori normali per pacciamare usiamo lunghi tessuti di plastica che dura decine di anni, in cui facciamo dei buchi per trapiantare-seminare lungo la fila. A fine anno si tolgono le piante secche e i tessuti si arrotolano in attesa della successiva stagione. Le piante secche si bruciano per impedire la permanenza di parassiti e miceti. I permacultori invece utilizzavano la paglia. A parte acquistarla a caro presso e trasportarla da molto distante, la paglia ha lo svantaggio di volare via con il vento oppure di marcire, dando origine e mantenendo tutta una serie di patologie fungine. Non credo sia un caso che i contadini di tutto il mondo, in passato e cioè per migliaia di anni, pur avendo a disposizione molta paglia non l’hanno mai usata per questo scopo. E poi perché disdegnare la plastica della pacciamatura, ma usare tranquillamente tubi di plastica, innaffiatoi ed dei tappeti e paraginocchi (tutti di plastica) che usavano perché costretti a stare a lungo inginocchiati per togliere le erbacce o redistribuire la paglia?
E’ sugli animali che nella permacultura “ cade l’asino”. A seconda delle diverse declinazioni (ortodossia, Fukuoka o Hazelip) gli animali vengono visti come inutili o fornitori di letame o decespugliatori naturali. La realtà rivela che gli animali sono di difficile gestione. Se lasci delle galline o capre in libertà ti mangiano di tutto e se lasci le capre per qualche giorno di più vicino ad una siepe, ti mangiano anche le radici. Un giorno ho avuto un interessante colloquio (uno dei pochi) con uno dei permacultori. Costui mi rimproverava di usare il trattore anche per lavori facili come trasportare cose leggere da un posto all’altro della campagna, ecc. E pertanto mi invitava ad usare un cavallo a suo dire molto più ecocompatibile. Ho cercato di spiegargli che un cavallo richiede cure ed attenzioni tutto l’anno e che mangia quantità enormi di foraggio che bisogna raccogliere e conservare; che di letame con struzzi, conigli, galline e pecore ne ho anche troppo e che un trattore quando non lo uso lo spengo e resta tranquillo anche per mesi. Il cavallo no. Per cui anche dal punto di vista dell’ecocompatibilità non c’era confronto. Invece di convincersi o replicare mi ha guardato come Bernardo Gui o Torquemada guardavano gli eretici e per giorni non mi ha rivolto la parola.
Per me l’agricoltura normale è semplice pedologia e biologia applicata alla terra; il biologico vi aggiunge della poesia e buone intenzioni (per guadagnare di più e avere ulteriori contributi); il biodinamico vi aggiunge occultismo e magia; la permacultura vi aggiunge etica ed estetica.
Concludo con una semplice domanda: conosci l’indirizzo di un’azienda permacultrice in cui una famiglia (almeno 3 persone) riesca a vivere (non solo sopravvivere) contando solo sulla vendita dei prodotti (anche a prezzi maggiorati dalla maggiore etica come strategia di marketing) e non su altre entrate: stipendi, pensione, corsi, vendita tisane calde, ecc.? Non è una domanda retorica. Mi interessa veramente.
Scusi Francesco, mi ha risposto quando le ho chiesto per lei il significato di ‘ecocompatibile’? (se sì chiedo venia, mi sono perso nei messaggi).
Adesso invece voglio usare un po’ anche io il suo giochino dialettico: mi sa indicare un’azienda agricola dove si pratichi agricoltura intensiva dove le risorse rinnovabili sono utilizzate secondo il tasso di rigenerazione, si emettono rifiuti e inquinanti in base alla capacità di carico del podere e lo stock di risorse non rinnovabile rimane costante, tale da costituire solo un’integrazione all’apporto di input?
E soprattutto, mi sai indicare un’azienda agricola tradizionale che NON prenda contributi pubblici e sia redditizia? L’agricoltura attuale è completamente distorta dai contributi e se si parla di redditività va considerato anche questo.
Comunque, non ha senso continuare. Quello che tu intendi per permacultura non è quello che intendo io, per cui se tu critichi una cosa che io non so sostenendo e che non riconosco non andiamo da nessuna parte. Riguardo all’orto, a meno che tu non avessi autorizzato gli affittuari a piantare cespugli e alberi sul tuo terreno, e non gli avessi dato anni di tempo per mostrare risultati, per me NON stavano cercando di fare permacultura ma un’altra cosa, quindi non puoi dire che la permacultura sia fallita in questo caso.
Fai esempi che dimostrano che o non conosci la permacultura, o pensi che sia praticata da idioti (anzi, entrambe le cose). Secondo te chi pratica e insegna la permacultura non sa che gli animali se li lasci liberi mangiano? Secondo te non si parla di recinti e di spostamenti?
Riguardo al cavallo, non ha bisogno di quasi nessun input esterno a differenza del trattore, e se lo usi molto i momenti in cui mangia e non produce sono ridotti. Inoltre può riprodursi. Poi magari non va bene per tutti i casi e di sicuro attualmente non c’è spazio per sostituire tutti i trattori con cavalli.
Non mi interessa stare a difendere d’ufficio gente che si sa difendere da sola, e le mie pratiche le ho già spiegate, accennando anche ai loro limiti. Tu vuoi solo fare polemica, secondo me, e infatti mi metti in bocca cose che non ho detto (nessuna scusa riguardo a tempo, formazione, ecc). Quindi mi fermo qui.
Igor: sulle definizioni teoriche non metto mai bocca. Su queste l’esperto è lei e non mi permetterei mai di contraddire chi ne sa più di me. Io mi limito semmai ad eccepire quando la realtà si discosta dalla teoria.
Sì, ne conosco molte, sia del passato che attuali. Quelle di mio nonno (per sentito dire) e quella di mio padre, per esempio. Ora ne vedo altre vicine a me che stanno integrando bene la parte agricola con quella zootecnica. Dal punto di vista del bilancio energetico, mi sarebbe difficile fare dei calcoli: fare il calcolo del concime o del gasolio consumato (input) è facile, ma quanta energia contengono tutto il latte e la frutta che vendono (output)? Anni fa, quando il gasolio costava molto più di adesso, ci siamo messi a tavolino a calcolare quanto terreno sarebbe servito per rendere energeticamente autosufficiente con la produzione di oli vegetali per trattori e generatori elettrici. Circa un terzo dell’azienda. Calcolando però che dalla spremitura di girasole e colza si ottengono ottimi sottoprodotti (panelli proteici) per il bestiame, in realtà servirebbe circa un quarto. In tutti i suoi calcoli teorici non tiene mai conto di un fatto: il Sistema Terra non è chiuso, ma aperto perché riceve energia “a gratis” dal sole, e l’agricoltura non è altro che un enorme “modulo fotovoltaico”, per sfruttare questa energia.
I calcoli di tutte le sue esternalità (teoriche e pratiche) andrebbero quindi rifatti.
Gaia: mi dispiace che la prendi così male. Non sono stato io a definire quello che stavano facendo le tre coppie come “permacultura” , ma loro stessi e fin dall’inizio. Se non era permacultura o ci sono individui che si spacciano come permacultori senza esserlo, è colpa mia? Nel loro piccolo spazio a disposizione, stavano applicando regole che apprendevano dai loro testi sacri. Vuoi anche attribuirmi la colpa che non seguissero le regole giuste per seguirne altre inventate? Se veramente credi che non riuscirono a cavare un ragno dal buco perché lavoravano su spazi troppo ristretti, dammi appunto uno o più indirizzi di chi ci riesce su spazi più grandi. E’ appunto per questo che te l’ho chiesto: per vedere se il limite della permacultura sia l’ampiezza delle superfici.
Incredibile ma vero, hanno piantato anche alberi da frutta: prugne e albicocche. Le cinque prugne ci sono ancora, delle cinque albicocche se ne sono seccate due o tre. Non è stata colpa loro, ma mia che non le ho curate a sufficienza perché sono in un posto distante da tutto. Le piante di albicocco sono comunque più delicate di altre. Quando quella coppia se n’è andata, mi sono offerto di pagargliele, (anche se non ne ho bisogno perché ne ho già troppe), ma non hanno voluto.
Anche sui contributi pubblici ti sbagli. Conosco molte aziende come la mia, che NON ricevono alcun contributo. Tre anni fa ho rinunciato anche all’ultimo riguardante il gasolio a prezzo agevolato. Ora l’acquisto tutto al normale distributore. Nella stessa condizione sono i miei cognati che hanno un’azienda di più di 30 ettari e l’unico contributo che ricevono è appunto quello del gasolio: 90-95 centesimi a litro invece che 1,3-1,4 Euro. E non sono pensionati. Circa un terzo delle aziende italiane sono nella stessa condizione.
In ogni caso i contributi pubblici sono erogati in base alle superfici coltivate (a cereali o leguminose) o ai capi (solo di certe specie) allevati, per cui li riceverebbe qualunque azienda, anche permacultrice. Se questa poi rientra nel biologico (quella francese che è fallita, lo era), ne riceverebbe quasi il doppio. Per cui anche questa tua obiezione, non è valida.
>Igor: sulle definizioni teoriche non metto mai bocca. Su queste l’esperto è lei e non mi permetterei mai di contraddire chi ne sa più di me.
Non è questione di essere particolarmente esperti (sono tutte cose che sarebbero ampiamente alla sua portata se si interessasse veramente alla questione), semplicemente quando si usano certi termini bisognerebbe sapere che cosa vogliano dire, a meno che non si tratti di fare semplice sloganismo. In libri e interviste utilizza sovente ‘sostenibile’ ed ‘ecocompatibile’ (qui nei commenti vedo una predilezione per quest’ultime termine), quindi sarebbe meglio mettere le cose in chiaro.
>Quelle di mio nonno (per sentito dire) e quella di mio padre, per esempio. Ora ne vedo altre vicine a me che stanno integrando bene la parte agricola con quella zootecnica
Beh, chi riesce nell’impresa di questa quadratura del cerchio (rendere sostenibile l’agricoltura industriale) si merita anche lui un Nobel e di oscurare per sempre Borlaug.
>In tutti i suoi calcoli teorici non tiene mai conto di un fatto: il Sistema Terra non è chiuso, ma aperto perché riceve energia “a gratis” dal sole, e l’agricoltura non è >altro che un enorme “modulo fotovoltaico”, per sfruttare questa energia.
>I calcoli di tutte le sue esternalità (teoriche e pratiche) andrebbero quindi rifatti.
A parte che non sono ‘i miei calcoli’, mi sfugge come l’apporto dell’energia solare possa influire in cose come determinare l’energia spesa per sintetizzare fertilizzanti e pesticidi, ad esempio.
https://www.arc2020.eu/precision-farming-or-the-emperors-new-clothes/
Ho già accennato all’agricoltura di precisione. Secondo questo articolo non è né precisa e neppure equa e sostenibile. È la solita agroindustria travestita di verde. Il tutto con la benedizione e raccomandazione della Commissione Europea
Queste ‘soluzioni’ si limitano a trasferire il problema da un settore all’altro. Riduci i consumi agricoli, ma che dire delle risorse per costruire droni e sensoristica varia?
Francesco, perché quegli esperimenti non abbiano funzionato non posso dirlo, non li ho visti, e forse io e te non siamo neanche d’accordo su cosa voglia dire funzionare. Precisavo solo che a me risulta che la permacultura sia diversa da come descrivevi tu e da quello che, a quanto dici, praticavano queste persone. Un nome che non è ancora saltato fuori qui è quello di Sepp Holzer, che fa cose interessanti. Ci sono poi forum su forum sul sito permies.com, sul quale vado quando cerco soluzioni pratiche applicate a certi contesti. Se sei curioso come dici sulle varie tecniche, potrebbe interessarti. Per me si tratta di strumenti fra i tanti, non, come dicevo, di una religione. Ho provato a fare un’hugelkulture per non bruciare i rami, ha funzionato; ho provato a usare le anatre per impermeabilizzare un piccolissmo stagno senza usare la plastica, ha funzionato.
Riguardo alla scarsa disponibilità di spazi, ne parlavo perché è un mio problema personale, non necessariamente delle aziende o coppie di cui parli tu. Uno può produrre molto cibo anche in spazi piccoli, utilizzando varie tecniche e molta manodopera; se si tengono erbivori di media e grossa taglia, però, e si vuole fare pascolo senza distruggere i terreni, servono grandi spazi per forza. Questa è la mia strada personale, tra le tante che ce ne sono.
Se non prendi contributi, chapeau. Anch’io non ne prendo; il problema principale è che acquistare terreni costa (come costano altri investimenti iniziali), e questo costituisce una grossa barriera all’ingresso.
Igor scusami tutti questi commenti ma spero possano essere interessanti. Teoria e pratica dovrebbero andare a braccetto.
Igor: qualche anno fa, con il mio vicino (bravo allevatore di vacche e con il fratello, produttore anche di pesche e kiwi) ci siamo messi ad immaginare un’azienda agricola autosufficiente per il combustibile. L’idea era quella di trasformare l’energia solare coltivando oleaginose per ricavarne olio da trasformare in biocarburante e utilizzare per l’alimentazione del bestiame tutti i sottoprodotti: 70% circa del totale. All’epoca avevo sottomano i rendimenti e calcoli fatti da Corrado, un agronomo ed agricoltore friulano che partecipa a vari blog ed anche lui interessato alla soluzione. Dal punto di vista agricolo, non risultava alcun problema. Con poca terra si produce molto di quest’olio. I problemi ci sono per la tipologia dei motori diesel, molto sofisticati nei nuovi trattori: oltre alle paraffine, tutto sommato facili da rimuovere, i biocombustibili contengono parti organiche, per cui azoto che ad alte temperature corrode l’acciaio. Servono quindi specifici filtri e motori. Lo stesso per l’elettricità. Le stalle sono già coperte di moduli fotovoltaici, che immettono in rete. Per rendere indipendente l’azienda servirebbero dei sistemi di accumulo, che per ora sono costosi, anche se il costo sta scendendo sempre più.
Da questi calcoli, manca l’energia necessaria per produrre concimi. Ovviamente sapevamo che questi non è possibile produrli in azienda, ma avevamo comunque fatto i conti di un surplus di olio ed elettricità per produrli. E anche questo era fattibile. Ci mancava però da calcolare quanta energia l’azienda “esportava” sotto forma di alimenti. In pratica volevamo dimostrare come fosse una balla che le aziende agricole come le nostre siano un peso per la società e che consumino più energia di quella che producono. Tutto era nato dalla lettura delle bozze di un mio libro distopico (mai pubblicato) in cui immaginavo una rivolta dei contadini, che stufi di essere insultati, diffamati ed accusati di ogni nefandezza, si ribellano e smettono di vendere cibo ai cittadini, limitandosi a barattarlo in cambio di quello che serve direttamente. Se continua così, prima o poi accadrà e allora voi cittadini capirete.
Indipendenza energetica, bilancio energetico e sostenibilità sono tutte cose diverse tra loro. Se l’azienda agricola prevede coltivazioni che richiedono consistente apporto di fertilizzanti azotati, il pareggio energetico è di fatto impossibile, viste le quantità di energia in gioco.
> In pratica volevamo dimostrare come fosse una balla che le aziende agricole come le nostre siano un peso per la società e che consumino più energia di quella che producono.
Non è questione di essere un peso per la società, semplicemente l’agricolturea intensiva ha prestazioni superiori non per qualche ‘magia’ ma perché ci sono di mezzo processi piuttosto energivori che ne rendono migliori le prestazioni. L’agricoltura in questo senso è un settore come tutti gli altri. In tutto questo c’è di mezzo l’impiego di risorse non rinnovabili ed esternalità che diventano sempre più gravi (non ho particolari simpatie per Cingolani, però sono contento che abbia accennato almeno al problema delle emissioni di protossido di azoto, di cui si parla quasi mai riguardo al clima).
>Tutto era nato dalla lettura delle bozze di un mio libro distopico (mai pubblicato) in cui immaginavo una rivolta dei contadini, che stufi di essere insultati, diffamati ed >accusati di ogni nefandezza, si ribellano e smettono di vendere cibo ai cittadini, limitandosi a barattarlo in cambio di quello che serve direttamente. Se continua così, prima >o poi accadrà e allora voi cittadini capirete.
Lei accusa gli altri di avere delle religioni, però anche lei con questo scenario ‘agricoltori vs cittadini’ non scherza. Io non do nessuna colpa particolare ai contadini, semplicemente abbiamo realizzato una civiltà industriale che ha prodotto tanti vantaggi ma che purtroppo è un gigante dai piedi di argilla. L’agricoltura è stata coinvolta in questo processo. Se la rivoluzione verde fosse stata una parentesi per aumentare la produttività ma intervenendo sul problema demografico (come sperava per altro lo stesso Borlaug) sarebbe stato un conto, invece alcuni trend contingenti sono stati intesi come proseguibili all’infinito. Oggi ne paghiamo lo scotto.
‘Noi cittadini’, semmai, scopriremo che anche l’urbanizzazione sovradimensionata fa parte di questi trend contingenti.
Gaia: quando l’hai nominato mi è venuto il mente quel quarto nome che non ricordavo. Ho letto di Sepp Holzer e anche commenti entusiasti della sua Hugelkulture. Tutti scritti però da cittadini o da persone che non avevano mai coltivato nemmeno il basilico sul terrazzo di casa. Dalla mia (piccola) esperienza sulle persone incontrate, su quanto ho letto e dalla semplice constatazione che nonostante se ne parli da decenni, non vedo sul mercato prodotti provenienti da aziende permacultrici, mi sono fatto l’idea che sia un’ottima soluzione per la cura e “coltivazione” dell’anima, ma poco o niente per la coltivazione della terra. Molto si capisce già dall’analisi semantica del nome: permanente e cUltura e non cOltura. Contrariamente a quello che dicono e scrivono i guru nei sacri testi, nella natura (minuscola) non c’è niente di permanente. Nemmeno i sassi restano sempre uguali. E tantomeno, dal momento in cui vogliamo “produrre ” cibo, noi siamo in equilibrio o simbiosi con la natura. Lo eravamo prima della Rivoluzione Neolitica, (e cioè all’epoca dei cacciatori-raccoglitori) ma dopo abbiamo perso questa “innocenza”. Una delle cose che più mi hanno colpito tra i permacultori (compresi i guru) è non volere potare gli alberi da frutto. Costoro non si rendono conto che gli alberi da frutto, al pari degli animali domestici, sono il risultato di millenni di specifiche selezioni. Per cui non hanno più niente a che fare con specie selvatiche e pertanto richiedono la potatura. La pianta (soprattutto quella domestica) poi “ragiona” (come giustamente afferma Mancuso: professore di neurobiologia vegetale) non come vogliamo noi. E’ stimolata a produrre frutta ( e cioè a fare più figli) quando avverte di essere “in pericolo” e cioè perde una parte del suo apparato vegetativo. Se la lasci crescere come vuole, per quale motivo dovrebbe spendere energia per produrre qualche cosa che è destinato ad essere portato via da animali o dall’uomo? Questo è solo uno dei tanti piccoli esempi, che rendono evidente (lampante) agli occhi di un contadino come me, di quanto inconsistenti siano le basi logiche su cui si regge l’impalcatura ideologica della Permacultura et similia, ma che “abbagliano” i cittadini come “verità”.
Giussani
Conosco il Francesco per averci discusso fino allo sfinimento.
Ogni volta si ricomincia sempre dallo stesso punto di partenza. La sua tattica è di insistere finché la controparte non gli cede l’ultimo commento.
Buona fortuna.
Per puro caso, su Facebook la coautrice di Bressanini Beatrice Mautino ha incrociato i miei scritti. Li ha definiti ‘un ministrone di luoghi comuni’, e ho chiesto lumi al riguardo: la sua risposta in pratica è che gli OGM sono piante come tutte le altre, che non dovremmo trattarle diversamente, che dovremmo parlare di vegetali in generale senza distinzioni, ‘eh allora i semi modificati con le radiazioni?’ ecc.
Ha provato insomma a cambiare discorso e mi ha fatto delle domande che deviavano dai contenuti degli articoli, cosa che mi sono risolutamente opposto di fare. Mi ha detto allora che negli articoli ‘ci sono errori’ (chiesto lumi anche lì, ma ha detto che non essendo il mio editor non si sforzava di spiegarmeli) ma per il resto nessuna contestazione di merito.
Il problema di questo tipo di dibattiti è che l’interesse non è sulle questioni concrete ma poste bensì, come direbbe Bressanini, ‘sul cambiare il frame’ dell’interlocutore, per cui ognuno si sente in dovere di portare punti alla sua causa, quindi si finisce per parlare d’altro. C’è anche il problema che, da Jacopo Simonetta, chiamo della ‘guerra dei mondi’ e che alla fine non permette di capirsi veramente nonostante gli sforzi.
C’è da dire che sono anche molto cinico, i commenti in più aumentano il ranking del blog nell’indicizzazione…
Sono d’accordo (personalmente) sul fatto che il punto non sia demonizzare gli OGM in quanto OGM, cioè la modificazione genetica in sé (qui la questione si fa etico-religiosa e non porta da nessuna parte), ma contestare il modo in cui queste modifiche genetiche, qualunque ne sia l’origine, di fatto operano nel mondo reale e sottostanno a una logica di un certo tipo – per cui i problemi delle resistenze, della proprietà intellettuale, della dipendenza dai fornitori di sementi e prodotti chimici, eccetera, non derivano tanto dal fatto che un seme sia stato modificato, quanto dal come e dal perché questo è stato fatto. Questa secondo me è la linea di dibattito utile.
Fuzzy e Francesco. Fuzzy: hai ragione. Francesco: ho capito che Fuzzy ha ragione nel momento in cui ti sei messo a dire che gli alberi non potati non fruttificano. Ci sono tanti ottimi motivi per potare gli alberi, e io non ho nessun problema se uno lo fa (ogni tanto poto anch’io), ma una persona che sostiene che gli alberi non potati non fruttificano o VERAMENTE non sa di cosa parla (e quindi tutto questo atteggiamento da “contadino esperto” crolla subito e risulta anche un po’ ridicolo), oppure vuole solo portare l’interlocutore allo sfinimento perché il suo scopo è annientarlo e non condividere idee, per cui anch’io adesso smetto veramente perché veramente non ne vale la pena.
(Giusto per essere chiara: in linea generale, un albero non potato può produrre quintali di frutta. Visto con i miei occhi più e più volte e in varie specie. Mangiato fino a scoppiare frutta raccolta da alberi non potati. Chiuso.)
“un albero non potato può produrre quintali di frutta”
E’ tipico, lo fanno per qualche anno dopo l’abbandono, ad anni alterni (si chiama “alternanza di produzione”): un anno si spaccano i rami per il peso dei frutti, l’anno dopo producono zero. Poi in mancanza di cure dopo un po’ si ammalano, si secca la marza, e il portainnesto selvatico da’ luogo ad un florilegio di polloni. In effetti, sono piante artificiali, addomesticate, non fatte per cavarsela da sole.
La potatura serve anche ad avere produzione tutti gli anni, oltre che a concentrare le energie assorbite dalla pianta nella produzione della frutta. Qualcosa di simile vale anche per le graminacee: le selezioni attuali producono, rispetto a un secolo fa, molti piu’ semi e molta meno paglia. Come si vede dalle immagini della mietitura, il frumento era molto piu’ alto, un secolo fa, e faceva molti meno semi. La produzione media per ettaro credo fosse di circa un decimo o un quinto rispetto a quella di oggi: infatti, raggiunti i 30 milioni di abitanti, l’italia sebbene tutta arata e coltivata in modo “bio”, divenne un posto da fame da cui emigro’ circa un milione di persone all’anno nel decennio a cavallo del ‘900. E’ pieno di eredi di italiani emigrati per fame, anche friulani e veneti, in tutti i continenti, specialmente america del sud e australia, che non erano gia’ saturi di popolazione, o troppo ostili. Del resto era anche l’epoca in cui l’onore, come nell’africa di oggi, imponeva di fare almeno 10 figli per coppia.
Le rese ottocentesche erano ovviamente più basse ma la causa delle migrazioni era soprattutto la mancata riforma agraria, non ci sono mai stati pericoli di carestia. Inoltre, l’Italia attuale se dovesse stare nei limiti della sua biocapacità potrebbe superare a malapena i 12 milioni di persone.
https://www.google.com/url?sa=t&source=web&rct=j&url=https://www.mdpi.com/2073-4395/9/2/82/pdf&ved=2ahUKEwil8qf6tf_uAhUEKuwKHUlvBBgQFjABegQIBhAM&usg=AOvVaw078JNJNRSsL_EH9d55YOEh
Chiedo scusa per la brevità del commento, ma mi stanno scandendo i giga. Spero si apra il link
Ecco, ora posso scrivere più ampiamente
Prima di tutto si sta facendo un gran calderone mescolando tipologie di agricolture, situazioni storiche, sociali, alberi da potare o non potare ecc.
Se ci si riferisce all’agricoltura organica rispetto alla convenzionale il gap per quanto riguarda il rendimento è variabile a seconda di tantissimi fattori, ma volendo fare una media artificiosa c’è una produttività un po’ più bassa nell’organico e riguarda prevalentemente i cereali.
Questo risulta ormai da moltissimi studi, e quindi tutta la discussione su chi sfamerà il mondo è da interpretare a partire da questi dati di fatto. Volendo nello studio che ho linkato si possono avere dati più precisi.
Ora, questo studio mi è stato suggerito nientemeno che da Bressanini, il quale è molto più onesto dei suoi commentatori pseudo esperti. Fondamentalmente dice: allo stato attuale siamo su livelli produttivi simili, ma siccome la popolazione mondiale dovrà aumentare
allora è chiaro che il biologico è arrivato a un punto massimo oltre il quale non ci si può spingere.
Quello che omette di dire è che pure certe agricolture industriali sono arrivate al loro punto massimo di sviluppo. E qui si finisce a parlare di ambiente, picco del petrolio e di come ci siano oramai degli interi settori produttivi (filiera della carne, latte ecc) che impiegano gran parte delle risorse agricole senza apportare reali vantaggi nutrizionali.
Si vuole veramente risolvere il problema? Allora si lasci perdere il profitto e ci si affidi all’equità.
Ma purtroppo su questo argomento il dibattito langue.
Igor, mi ha molto colpito la descrizione che fece Goethe della Sicilia del ‘700: “qui al grano si sacrifica tutto”. A parte qualche remoto prato coperto di cardi, non c’era niente, nemmeno alberi, solo coltivazioni di grano e altri prodotti. Inoltre, le scene che descrive (e anche certi racconti di Nuto Revelli ne Il mondo dei vinti) ci ricordano che la miseria non è solo mancanza di cibo, ma anche di scarpe, vestiti, biancheria per la casa, mezzi di spostamento… come dicevo sopra, non dobbiamo fare il grosso errore di pensare che l’agricoltura voglia dire solo cibo.
Riguardo alle carestie, sono fenomeni complessi, ma ce n’erano di gravi anche nelle montagne, dove l’accesso alla terra è tendenzialmente molto più egualitario che in pianura.
Tornando all’Italia di uno-due secoli fa, pur di coltivare qualsiasi fazzoletto di terra disponibile si deforestarono le montagne fino alle cime e si bonificarono aree umide distruggendone la funzione ecologica e la biodiversità (Goethe osserva anche le bonifiche in corso). Non credo sia auspicabile un ritorno a quei tempi. Al tempo stesso, è vero che le rese agricole attuali non sono sostenibili, per vari motivi. E allora che si fa?
Senza affrontare la questione demografica non risolveremo mai nessun problema ambientale.
Igor: prima di fare certe affermazioni, dovrebbe spiegare come avrebbe fatto l’umanità a produrre cibo per migliaia di anni senza concimi azotati. Si è cominciato ad usare questi soprattutto da quando c’è stato il disaccoppiamento tra agricoltura e zootecnia ed è diventato di fatto impossibile raccogliere, trasportare e spargere sufficienti quantità di fertilizzanti organici sulle immense monocolture a cereali o oleaginose. E’ certo che da allora si consuma tanta più energia, ma si ottiene anche tanto più prodotto. A mio giudizio il bilancio è comunque positivo. Ammetto di non avere dati certi per dimostrarlo e non ho tempo per cercarli. Se lei invece li ha, me (ce) li mostri. In particolare mi piacerebbe conoscere il bilancio tra l’energia alimentare contenuta nel frumento, nel riso o nelle patate ottenute da un ettaro e l’energia fossile consumata per produrre questi alimenti di base. Per favore non mi porti il solito dato, ripetuto da tutti che per ogni caloria alimentare, ne servono sei di calorie fossili. Mi piacerebbe sapere come sono arrivati a questo, e che dati hanno usato.
Gaia: continuiamo a non capirci perché tu confondi la tua attività amatoriale, buona per passare il tempo e per aggiungere qualche mela o susina a pranzo o cena, con l’agricoltura, che invece è un’attività economica e professionale con lo scopo di produrre un surplus alimentare da vendere sul mercato e mantenere la famiglia.
Lo so benissimo anche io che qualche pianta può produrre frutta anche senza potatura, ma con queste non produci surplus. Al massimo riempi la sporta e fai qualche regalo agli amici come faccio io. Per esempio, nella casa dove vivo ho un giardino di 4000 mq pieno di vecchie piante di mele, fichi, susine, albicocche e cachi. Negli anni in cui lavoravo all’estero, la casa e soprattutto il giardino sono rimasti abbandonati e senza nessuno che venisse a potare ed irrigare. I miei si sono trasferiti in una nuova casa ed in un’altra azienda più grande. Al mio ritorno ho trovato una selva e poche piante da frutto sopravvissute. A parte i fichi ed i cachi, che non hanno bisogno di cure particolari, i pochi alberi di melo sopravvissuti (1 su 10 ) sono quelli che danno frutti di scarsa qualità. Le varietà migliori sono morte tutte. Lo stesso per i peschi, le ciliegie e le albicocche migliori. Sono rimaste le varietà più rustiche e anche quelle meno buone. Se non fossi intervenuto per tempo sarebbero comunque morte anche queste. Se vuoi produrre e vendere frutta ad un grossista che a sua volta la distribuisca a vari fruttivendoli o al supermercato, devi avere un frutteto con centinaia o migliaia di alberi e questi vanno necessariamente potati. Hai mai visto un vigneto o un kiweto abbandonato anche solo per tre-quattro anni?
Pensi che miliardi di persone per migliaia di anni si siano sempre sbagliate a perdere tempo a potare le piante, mentre ora, quattro sapientoni, venuti dal nulla, abbiano improvvisamente capito tutto?
Anche solo statisticamente mi sembra improbabile.
Ripeto: se intendi la permacultura come una forma di giardinaggio, hai ragione, ma da qui a spacciarlo per alternativa all’agricoltura normale, ce ne passa.
Ovviamente mi riferivo ai sistemi agricoli industriali che fanno largamente affidamento su combustibili fossili e risorse non rinnovabili.
https://www.researchgate.net/figure/Energy-expended-in-producing-and-delivering-one-food-calorie-Approximately-73-calories_fig1_303895662
Solo per quanto riguarda l’aspetto prettamente agricolo, sono circa 1,5 calorie di input per ognuna di output. In effetti ci sono dati di Pimentel sui cereali più positivi di quello che mi aspettassi, lo ammetto.
C’è però un aspetto della questione che non va ignorato, altrimenti ‘confondiamo mele e pere’, per usare un’espressione a lei cara. Un conto è il bilancio energetico di un ciclo chiuso, un altro quello di uno aperto che fa largo uso di combustibili fossili e risorse non rinnovabili: quella è ‘capacità di carico fantasma’ sulla quale non puoi fare affidamento perpetuo. E bisogna tenere conto delle esternalità prodotte dalle variabili del bilancio.
Ad esempio, i danni provocati dalla zona morta marina del Golfo del Messico ammontano a circa 82 milioni di dollari ( https://www.nature.org/en-us/about-us/where-we-work/priority-landscapes/gulf-of-mexico/stories-in-the-gulf-of-mexico/gulf-of-mexico-dead-zone/ ). Per contenerne l’entità, si spende energia e ci sono risorse alimentari che vanno perdute e che andrebbero detratte dal surplus di calorie opera dei nutrienti che causano il disastro.
C’è un ulteriore aspetto: la qualità dei prodotti. Tanti dei prodotti industriali che si comprano adesso fanno veramente schifo come sapore, non sanno di niente (oltre ad essere coperti di pesticidi tossici); appena si comprano farina, patate, cipolle, ortaggi, latte, uova, e così via, da gente che produce con metodi “alternativi” si riscontra una differenza enorme. Come il giorno e la notte.
Ci sono due cose da considerare:
1. i prodotti del secondo tipo, contenendo più minerali ed elementi, essendo spesso locali e quindi più freschi, nutrono effettivamente di più l’organismo di un prodotto che ha lo stesso nome ma è tutta un’altra cosa
2. certi prodotti agricoli industriali sono proprio meno concentrati, non so come sia possibile ma consistono soprattutto di acqua… a peso valgono di più, ma come potere nutritivo no, e questo nessuno lo dice
Per cui nelle rese, oltre alle esternalità (non solo danni ambientali ma alla pesca e altri settori economici) vanno considerati anche i diversi apporti nutritivi.
Igor: per una volta, anche una soltanto, provi a considerare il mondo al di fuori della sua ossessione: gli USA. Pur avendo girato il mondo per decenni, non ci sono mai stato, anche perché l’ho sempre trovato un paese poco interessante. Sia mio figlio che ci ha studiato per un anno e che c’è stato molte altre volte prima e dopo, sia la mia ex-moglie (economista, ma che essendo un dirigente FAO, conosce il settore agricolo) che c’è stata spesso, sostengono che sia il più ricco paese in via di sviluppo. E non si riferivano solo all’agricoltura, ma anche ad altri settori, compreso il settore universitario. Tutti i miei amici agronomi o veterinari che l’hanno visitato, al di là della grandiosità delle attrezzature e di certe aziende, dovute solo all’enorme mercato locale e conseguenti economie di scala, sostengono che ci sia poco o niente da imparare. Produttività medie per ettaro basse; dispendio enorme di risorse per le enormi distanze; sfruttamento manodopera straniera sottopagata, ecc. L’eccezione era il settore biotecnologico, ma l’azienda più grande (non la migliore) è stata acquistata da una europea. Anni fa durante un viaggio in treno, conobbi un americano di origine veneta, proprietario di una grande azienda orticola a Salinas, California. Diventammo amici ed il giorno seguente l’accompagnai per tutto il giorno a visitare Verona. Mi raccontò con noncuranza di avere centinaia di dipendenti (latinos ovviamente); di produrre un decimo di tutti gli spinaci degli USA e che poco prima di partire, dato che la temperatura media era rimasta più bassa della media e che la domanda ed il prezzo dell’insalata era per conseguenza rimasto basso, di averne arato sotto e riseminato 200 (duecento) ettari in una volta sola. Sarebbe questa l’agricoltura modello che continua a prendere come riferimento e modello? Guardando fuori dal finestrino del treno e della mia auto, commentò ammirato quanto fossero tanto più belle le campagne del Veneto ed Emilia.
Inoltre, (riguardo ai consumi energetici) perché ha postato (messo in evidenza) solo il primo schema e non il quarto, che mostra un trend di utilizzo di input energetici in forte discesa? E questo nonostante l’inefficienza USA. Tutto il mondo oramai guarda come modello l’agricoltura europea ed in particolare al suo paese di punta: l’Olanda, che nonostante l’esiguità della superficie è il secondo esportatore di cibo del mondo. Tutti i mercati africani sono pieni di patate e cipolle olandesi. Nelle rare eccezioni sono belghe, tedesche o polacche.
A parte questa visione unilaterale (peccato veniale): quali sarebbero le alternative? La Permacultura che si limita a fare del giardinaggio e produrre al massimo qualche ortaggio (sarebbe questa l’autosufficienza alimentare?) o qualche confettura di lamponi o di albicocche da regalare agli ospiti in visita? Ovviamente da quelle uniche tre piante non potate!
Oppure il metodo Biodinamico, ultimamente tanto di moda tra la borghesia più à la page? Agli ultimi Vinitaly, gli stand del vino biologico erano semivuoti (oramai troppo cheap!) mentre quelli del vino biodinamico, strapieni. E’ da questi indizi apparentemente marginali che si misurano i trend delle masse lobotomizzate.
Allora, pensavo di essermi spiegato bene su questa questione, evidentemente mi sono chiarito male e lo faccio per l’ultima volta nel modo migliore possibile, anche perché posso sopportare opinioni contrarie, flame, provocazioni e persino insulti ma mi girano parecchio se mi vengono affibbiate opinioni e posizioni che non mi appartengono. Anche perché questa cosa della ‘ossessione’, come la chiama lei, è un fatto che mi deriva da contestazioni che mi sono state mosse da sostenitori dell’agroindustria, in parte anche ragionevoli.
Se in fatto di OGM prendessi a riferimento un paese con meno esperienza al riguardo e meno sofisticazione agronomica, dove le sementi modificate vengono chiaramente usate in maniera non idonea, potrei mostrare un quadro a tinte foschissime.
Dal punto di vista della sostenibilità, l’agricoltura USA ha tutti i difetti che vuole ma, numeri alla mano ha un’efficienza di impiego di nutrienti e pesticidi forse ineguagliabile e non da oggi. Se prendessi a riferimento l’Olanda che mi decanta lei, avrei un paese dove si consumano 150 kg di fertilizzanti azotati per ettaro contro 70 kg circa USA e dove l’impiego di pesticidi per ettaro è tre volte superiore: potrei sguazzarmela con i consumi indiretti e cantarmela e suonarmela a piacere. Non sarebbe effettivamente onesto (ovviamente, chi mi contesta questo, quando si occupa di biologico, dovrebbe considerare solo robe come il Rodale Institute e simili, non esaminare qualunque sfigato di buone intenzioni per urlare al fallimento).
E mettetevi una buona volta d’accordo: quando sono ‘multilaterale’ faccio cherry picking, se esamino solo ‘the best’ sono ‘ossessionato’…
Immagino che se avessi la ricetta di un’agricoltura ad alte rese ma sostenibile sarei il nuovo re del mondo… immagino che la prima cosa da fare (l’ho spiegato in altre sedi) sia di rinunciare alle pretese chimeriche e capire la reale portata dei problemi prima di proporre soluzioni. A partire da quello dello sovrappopolazione, concordo con Gaia Barecetti: il problema è farlo nel modo giusto, senza entrare in visioni ecofasciste o nell’usarlo come scusa per giustificare ogni magagna della civiltà industriale (come mi sembrano fare certi fan di Orwell). Poi c’è la questione di un sistema alimentare che spreca il 30% del prodotto e dell’uso improprio delle coltivazioni dedicate ad alimentare animal e autoveicoli (leggasi: biocarburanti). E poi sono i problemi sociali, dal momento che la maggior parte della denutrizione attuale è per mancato accesso al cibo, non per mancata produzione.
Solo una volta tappate il secchio bucato e intervenuti sulle storture più evidenti bisognerebbe ragionare sulla produzione e sul suo grado di sostenibilità.
Sfotta pure, io le chiedo se il suo comportamento sia poi tanto più ragionevole. Lei usa termini come ‘sostenibilità’ ed ‘ecocompatibilità’ sostanzialmente a caso, una volta che le pare di aver dimostrato i miglioramenti di efficienza dell’agroindustria e massacrato a dovere biologico (con analisi sulle quali si potrebbe ridire parecchio, ma per il momento soprassediamo) e altri metodi ritiene di avere scoperto la ‘ecompatibilità’. Non si pone mai il problema di verificare se i miglioramenti di efficienza sono tali da venire incontro ai problemi concreti della sostenibilità, per non parlare della dipendenza da risorse non rinnovabili. Una volta che si è un po’ risparmiato sul consumo di pesticidi e fertilizzanti o si sono un po’ ridotte le emissioni climalteranti, ritiene di aver dimostrato la quadratura del cerchio. Accusa gli altri di appartenere a sette e seguire religioni, quando gran parte della sua attività di divulgatore è incentrata su dicotomie come ‘onnivori vs vegani’, ‘agroindustriali vs bio(il)logici’, ‘cittadini vs contadini’. Tutte cose buone per crearci un po’ di polemica e riscuotere attenzione (per carità, posso aver marciato anche io in passato su cose del genere) ma qual è il loro contributo alla risoluzione dei problemi?
Ammetto di essere molto condizionato dal mio retroterra familiare, culturale e professionale di agricoltore. Con “agricoltore”, non intendo solo la professione, ma anche il contesto di abitante del contado, e cioè di contadino contrapposto a cittadino. Nonostante la globalizzazione e la “modernità”, a noi contadini certe fisime tipicamente cittadine come ad esempio l’animalismo ed il vegetarianesimo-veganesimo, ci sono estranee ed incomprensibili. Come pure le assurde ed immotivate paure sulla qualità del cibo. Nonostante il cibo sia ora più sicuro e qualitativamente migliore rispetto al passato, ci offende che venga disprezzato e con esso anche noi ed il nostro lavoro. Nonché quello di chi ci ha preceduto e che si è dato da fare per migliorarlo. Così come ci sentiamo offesi da coloro che credono ed omaggiano una truffatrice come Vandana (Panzana) Shiva & Co, che per avere fama e soldi si è inventata le balle sui suicidi dei nostri colleghi indiani causati dalla loro scelta di coltivare PGM e che questi siano la causa dell’autismo nei bambini?
Non è forse una plateale dimostrazione di disprezzo credere ad una persona che non sa niente di agricoltura e dileggiare le scelte di milioni di contadini che ogni anno continuano a preferire le PGM per avvelenarsi di meno e produrre di più? E quello che più ci sorprende è che nemmeno si accorgono e restano stupiti, quando glielo fai notare. Dopo aver coltivato dell’insalata o raccolto della frutta spontanea sotto gli unici due o tre alberi sopravvissuti, vogliono anche insegnare il mestiere a chi gli procura il rimanente 99% del cibo che consumano. Ci accusano di consumare troppa energia, ma quando adottiamo l’unica soluzione che la riduce (appunto quelle PGM che tanto disprezzano) ci accusano ancora di più. Dato che sono la maggioranza, ci impongono di non coltivare certe piante migliorate e allo stesso tempo ci impongono di importare lo stesso prodotto. Una presa in giro in nome della democrazia! Ti accusano di sprecare il 30% del cibo sapendo benissimo che gli unici a sprecarlo sono loro. In campagna nessuno ha mai sprecato mai del cibo e anche ogni possibile sottoprodotto o scarto è sempre stato riciclato.
Ne ho già scritto, ma quello che più ci fa arrabbiare sono le alternative che propongono. Ad ogni critica, dovrebbe corrispondere una soluzione alternativa valida e soprattutto rivolta a chi viene criticato. Chi è che pretende il cibo a costi sempre più bassi e per di più si permette di sprecarlo? Chi è che vuole mangiare sempre più della tanto detestata carne?
Ieri pomeriggio ho avuto una discussione con una coppia di cittadini che è entrata (nonostante sul cancello ci sia ben visibile un cartello che lo vieta) nella mia campagna ed hanno liberato i loro 4 (quattro) grossi cani. Per fortuna il mio cagnetto (un piccolo bastardino che si sente giustamente padrone e guardiano) se n’è accorto subito ed è corso ad avvisarmi dall’altra parte della campagna. Quando sono accorso, i cani avevano già disturbato la lepre che in quell’angolo che lascio apposta incolto, aveva da poco partorito la nuova nidiata di leprotti. Ci è mancato poco che cacciassi fuori a pedate i cittadini ed i loro enormi cani, che sicuramente mangeranno crocchette e non scarti di casa o di macelleria. E sicuramente costoro si sentiranno più sostenibili di me. Basta fare due conti, e quello che mangiano i 15-20 milioni di pets che ci sono in Italia, corrisponde a quello che consuma un paese africano di media grandezza come il Senegal.
La dicotomia tra agricoltori-contadini e consumatori-cittadini non l’ho inventata io, è reale ed il fossato si sta allargando sempre di più. e non per colpa nostra.
Da quello che faccio si vede che scrivo di agricoltura e sostenibilità senza voler offendere nessuno.
Spero si capisca che le mie sono considerazioni generali e non personali e cioè rivolte a qualcuno. Se lo pensassi non starei qui a discuterne. Invece che gli agricoltori, proviamo ad immaginare che delle persone che stanno aspettando in fila il taxi, si mettano a criticare la sostenibilità dei taxisti. Alcuni criticano l’uso dei grossi ed inquinanti SUV, anche se i taxisti che lo fanno sono una minoranza. Altri criticano anche l’uso di più piccole auto a benzina, o diesel o anche a metano. Critiche piovono anche su quei taxisti che usano le auto meno inquinanti e cioè quelle elettriche, soprattutto da chi sostiene che sono solo un palliativo, e che anzi aumentano le esternalità e che il problema è solo spostato fuori città. I più radicali suggeriscono di tornare alle carrozze a cavalli o ancora meglio ai risciò a pedali. Qualcuno, senza però spostarsi dalla fila, pretende addirittura che i taxisti vadano a piedi (autosufficienza) e intanto la fila di chi aspetta si allunga di altre settanta persone. Fra i critici più critici ve ne sono alcuni abituati ad essere portati sulla montagna per il solo piacere di vedere il panorama dall’alto. Non credo ci si debba sorprendere se i taxisti, dopo aver cercato di accontentare tutti (non possono mettersi loro stessi ad inventarsi e autoprodursi delle auto che non inquinano) si stanchino di tutte queste critiche e alla fine si incazzino e lascino tutti alla fame, pardòn, a piedi! Certo, qualcun sosterrà che bisogna andare tutti a piedi, ma solo pochi hanno la fortuna di abitare vicino. Altri che le città sono troppo grandi e se si abitasse tutti in piccoli centri abitati, non ci sarebbe bisogno di taxisti. Però, di fatto le grandi città continuano ad ingrandirsi e moltiplicarsi. E via dicendo con consigli e soluzioni utili solo in teoria e che alla prova dei fatti non fanno diminuire la fila che si allunga sempre più.
https://www.researchgate.net/publication/49801215_The_Campesino-to-Campesino_Agroecology_Movement_of_ANAP_in_Cuba_Social_Process_Methodology_in_the_Construction_of_Sustainable_Peasant_Agriculture_and_Food_Sovereignty
Per caso ho trovato questo documento. Molto interessante. Erano anni che cercavo notizie precise sull’agricoltura organica a Cuba.
Magari a qualcuno dei lettori può interessare.
Il modello cubano è molto interessante perché dietro alla conversione c’è un programma agronomico ben definito, non si tratta di sforzi ben intenzionati mai velleitari come capita spesso nel campo del biologico.
Non sono mai stato a Cuba, ma in giro per l’Africa e l’America Meridionale (soprattutto Colombia) in passato ho conosciuto molti cubani. Soprattutto medici e anche veterinari “mandati” dal governo, che intascava il 95% del loro salario. Quando erano assieme ad altri cubani dicevano una cosa. Nelle rare occasioni in cui erano da soli, dicevano quasi sempre l’esatto contrario. Da allora ho cominciato a dubitare molto di quello che si dice di Cuba. Ho però la fortuna di avere due testimoni attendibili: un cugino che fino a sei-sette anni fa si è recato spesso a Cuba, per dirimere una rognosa questione finanziaria ereditata dal padre ed una ex compagna delle elementari (con problemi fisici: zoppa dalla nascita, e che non si è mai sposata) e da almeno 20-25 anni va a trovare ogni anno il suo novio cubano. Entrambi hanno una discreta conoscenza di cose agricole, per cui sanno giudicare quello che vedono. Innanzitutto la scelta “biologica” non è stata una scelta, ma obbligata per l’improvvisa mancanza sia di carburanti che di fitofarmaci dopo il ritiro dei russi. Dopo la “caduta del muro”, da un giorno all’altro l’economia agricola basata sulle monocolture da esportazione ha dovuto riciclarsi a produrre cibo per il mercato locale. Se prima il 70% del cibo era importato, ora la percentuale è molto più bassa e questo è un indubitabile successo. La gente però continua a fare la fame. I generi di prima necessità che fornisce la “livreta” non bastano ad integrare le più abbondante reperibilità di verdure prodotte dalle migliaia di nuovi orti urbani e periurbani. I tre cibi preferiti dai cubani: maiale, pollo e uova hanno continuato a restare generi di lusso e superlusso cui possono accedere solo chi ha “contatti” con i turisti o parenti in Florida. Con il recente crollo del turismo, la situazione è diventata drammatica. Non nego che il modello cubano sia servito da monito per tutti i dittatori del Sudamerica a non tirare troppo la corda e che per molti centro e sudamericani, Cuba abbia rappresentato un “sogno”. Da quanto ho sentito , per i cubani, la situazione continua ad essere però un incubo. E da persona da sempre “di sinistra”, lo dico a malincuore.
A proposito di sostenibilità, che lei mi accusa di usare a casaccio e non capire, ho chiesto e ho letto informazioni che mi aiutino a capire cosa succederebbe se gli agricoltori decidessero di diventare energeticamente autosufficienti e cioè non usare più energia fossile, ma energia autoprodotta. Ebbene, contrariamente a quanto lei sostiene (che per produrre una caloria di cibo se ne consumerebbe una e mezza di energia), il bilancio energetico sarebbe sempre positivo. Per produrre lo staple food per eccellenza e cioè il frumento, (come unità di misura consideriamo un ettaro da cui ricavo circa 6000 kg di frumento) basta coltivare un altro ettaro a oleaginose per produrre biocombustibili con i quali far funzionare i trattori, trebbiatrici, essicazione, e produrre concimi.
E confermo. Adesso si è attaccato a questa cosa del bilancio energetico input-output perché si è accorto che posso essere stato superficiale su alcune cose, ma lei continua bellamente a ignorare i consumi indiretti e il relativo apporto di risorse non rinnovabili ed esternalità.
SItuazione che non avevamo mai preventivato, gli studi che le ho riportato sul bilancio energetico dell’agricoltura USA (che, contrariamente a quello che pensava, è la più efficiente sotto molti aspetti) si basano su quello che succede nel mondo reale, dove i contadino per lo più utilizzano combustibile ottenuto da fossile.
Per curiosità, a quanto ha calcolato l’EROEI dell’olio di colza che mi pare di aver capito intenda del suo ragionamento?
Copio+incollo un mio commento più sotto che non ha letto bene:
“In effetti ci sono dati di Pimentel sui cereali più positivi di quello che mi aspettassi, lo ammetto.
C’è però un aspetto della questione che non va ignorato, altrimenti ‘confondiamo mele e pere’, per usare un’espressione a lei cara. Un conto è il bilancio energetico di un ciclo chiuso, un altro quello di uno aperto che fa largo uso di combustibili fossili e risorse non rinnovabili: quella è ‘capacità di carico fantasma’ sulla quale non puoi fare affidamento perpetuo. E bisogna tenere conto delle esternalità prodotte dalle variabili del bilancio.
Ad esempio, i danni provocati dalla zona morta marina del Golfo del Messico ammontano a circa 82 milioni di dollari ( https://www.nature.org/en-us/about-us/where-we-work/priority-landscapes/gulf-of-mexico/stories-in-the-gulf-of-mexico/gulf-of-mexico-dead-zone/ ). Per contenerne l’entità, si spende energia e ci sono risorse alimentari che vanno perdute e che andrebbero detratte dal surplus di calorie opera dei nutrienti che causano il disastro”.
Nei calcoli ho tenuto conto di tutto: compresi i consumi di biocombustibile per coltivare la coltura a oleaginose, per produrre concimi per la stessa (3 kg per kg di concime NPK complesso) e per le apparecchiature necessarie alla spremitura e filtrazione. Inoltre non ho tenuto conto dei sottoprodotti: il 70% del totale, che possono essere usati a loro volta per l’alimentazione del bestiame (panelli proteici) e come combustibile. E in più ho comunque 6000 kg di feed. Mai accennato alla colza. Anche questa se l’è inventata lei, come molto altro. E’ l’ennesima dimostrazione che vivete fuori della realtà. Non insisto oltre: non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Fuori dalla realtà vivrà lei e nel suo mondo dove è possibile fregarsene dei problemi ecologici se l’agroindustria non riesce a farci fronte, dove le risorse non rinnovabili funzionano come le rinnovabili, dove l’Olanda usa più efficientemente gli input degli USA ecc
Rilancio con gli interessi l’apprezzamento, almeno da un mese e mezzo a questa parte oramai. Avevo solo fatto un’ipotesi dal momento che di biocombustibili con EROEI favorevoli ce ne sono pochi e la colza è uno di questi e le avevo chiesto l’EROEI che ha calcolato (che non mi ha detto). Se mi vuole gentilmente rispondere bene, altrimenti amen, la lascio alle sue crociate contro vegani, cittadini, biolligici ecc.
.” Per produrre lo staple food per eccellenza e cioè il frumento, (come unità di misura consideriamo un ettaro da cui ricavo circa 6000 kg di frumento) basta coltivare un altro ettaro a oleaginose per produrre biocombustibili con i quali far funzionare i trattori, trebbiatrici, essicazione, e produrre concimi.”
Dunque, se ho capito bene sono due ettari. Uno per l’energia e l’altro per il prodotto.
Quello che si produce normalmente con il gasolio sono due ettari da 6000 kg. Diversamente col sistema di Francesco ne risulta un solo ettaro. Perciò quei 6000 kg andrebbero divisi per due. Questo per limitarsi al ragionamento in questione. In realtà rileggendo pimentel e altro, mi pare che la questione sia molto più complessa e forse più a vantaggio di un utilizzo del biodiesel in agricoltura. Si veda la voce biodiesel su Wikipedia.
Quello che proprio non torna è il bilancio ecologico.
La informo che non esiste solo la colza, ma anche altre oleaginose, come l’arachide o il girasole. La scelta tra una o l’altra dipende dalla pedologia dei terreni e da cosa si vuol fare dei sottoprodotti, o meglio dei prodotti principali, visto che come massa l’olio ottenuto (ho calcolato una produzione media di 900 litri ettaro con un consumo complessivo, per coltivare, concimare, raccogliere, spremere e depurare di circa 550-600 litri) costituisce una minima parte rispetto ai panelli proteici. Utilizzando solo fieno di arachide (una leguminosa abbastanza proteica e che è un terzo sottoprodotto che nessuno prende mai in considerazione nei calcoli dell’EROEI) ed un pò di crusca, quasi quaranta anni fa ho fatto raddoppiare la produzione di conigli in una trentina di piccole cooperative femminili della Zonas Verdes di Maputo.
Per me sono queste le cose che contano e non le sue crociate contro gli agricoltori.
Non faccio nessuna crociata e mi sono stufato di dovermi giustificare con lei per quello che faccio sui miei spazi Web, se si possono fare discorsi costruttivi da posizioni diverse bene, altrimenti io di flame, hating e cose simili ne ho decisamente piene le palle.
Riguardo all’Olanda, come fa a non capire che un paese con una superficie di 120 volte inferiore agli USA, e che nonostante questo riesce ad essere secondo come paese esportatore di cibo, ha bisogno di usare un pò più di input per ettaro? E’ un errore simile a quello di valutare i fitofarmaci solo a peso. Per capire e “pesare” certe cose, oltre ad una minima conoscenza dell’argomento bisognerebbe usare un pò più di buon senso e meno ideologia.
Un po’ di più = quasi il doppio di fertilizzanti azotati per ettaro (70 circa contro 140 circa). Con io che, proprio per non essere ideologiche e non scegliere le ‘ciliegie’ di cui mi accusava tanto, ho scelto apposta l’agricoltura più efficiente per non portare inopinatamente acqua alle mie posizioni. Ma questo dovrebbe già saperlo, visto che è la quarta o quinta volta che cerco di spiegarglielo e ancora mi accusa di essere ideologico. Adesso basta. E’ un mese e mezzo che vado dietro ai suoi infiniti commenti sui miei blog e sono passato sopra a qualsiasi cosa (non so se tutti i blogger avrebbero fatto la stessa cosa), adesso però mi pare di vedere solamente desiderio da parte sua di buttarla in caciara. Se avrà obiezioni argomentate sui miei post risponderò, altrimenti non andrò più dietro alle sue continue provocazioni.
Le ho dimostrato quanto sia una balla che l’agricoltura sia un’attività in perdita energetica. D’altra parte per capirlo, non servirebbe nemmeno fornire numeri e calcolare i bilanci. Basta poco per capire che se da una parte ricevo energia “a gratis”, devo proprio impegnarmi ad andare “in rosso”, e contrariamente a quello che lei pensa, noi agricoltori non siamo né stupidi, né masochisti. Invece di prenderne atto, si sofferma sui dettagli. L’ho accusata di fare crociate contro gli agricoltori, semplicemente perché lei poco prima mi ha accusato di farle contro vegani e bioillogici. E anche qui fa sempre finta di non capire che lo faccio proprio in nome della sostenibilità e tranquillamente sorvola le mie considerazioni. I vegani, rifiutando ogni forma di allevamento, ( di fatto quindi rifiutano il metodo Bio) impediscono sia il riciclo di tutti i sottoprodotti derivanti dalla produzione di cibi vegetali (paglie, panelli proteici, crusca, buccette, ecc.) sia l’utilizzo dei fertilizzanti organici, obbligando quindi ad usare solo i concimi chimici molto più energivori), non entrano forse in contraddizione con la sostenibilità? Perché quando io difendo la sostenibilità fa sempre finta di non accorgersene e sorvola le mie argomentazioni? Lo stesso per il Bio. Producendo di meno per ettaro costringe tutto il comparto agricolo a consumare più gasolio per coltivare e last but not least, ad utilizzare molta più terra. Anche queste non sarebbero contraddizioni con la sostenibilità?
Può girarci attorno fin che vuole, ma chi legge si accorge subito da che parte sta, non dico la verità, ma almeno il buon senso.
Lei non ha dimostrato un bel nulla, ha preso la ‘ciliegia’ della produzione cereali che presenta alta resa energetica e l’ha resa valida per tutta l’agricoltura indifferentemente. Io stesso ho ammesso che i calcoli sui cereali erano migliori di quanto mi aspettassi, quando ingenuamente pensavo che nei commenti si potesse fare un tranquillo pour parler. Invece è lei che ha voluto trascinare il discorso in caciara e polemica su cose che esulavano dall’articolo solo perché, per quanto io le posso fare schifo, ha dovuto ammettere (parole sue) che era ‘ottimo’. Riparleremo di bilanci energetici quando scriverò un articolo al riguardo visto che con lei è impossibile intraprendere una discussione pacifica e vede tutto come una sfida tra fazioni e guerre di religione.
Sorvolo così tanto le sue considerazioni che oramai è un mese e mezzo che passo più tempo a interagire con lei che con mia madre o mio padre…
La diffido dall’attribuirmi pensieri non miei. Se trova dei miei pezzi sul Web dove DAVVERO insulto gli agricoltori (e non con i viaggi mentali delle sue interpretazioni), giuro davanti a tutti che le regalo 500 euro di tasca mia.
Invito chi avesse voglia di perdere tempo a verificare nei commenti qui e su DFSN come il signor Francesco sappia poco o nulla di sostenibilità e come attribuisca i termini ‘sostenibile’ o ‘ecocompatibile’ a tutti i ritrovati (a suo giudizio) capaci di contenere il danno ecologico.
Invito chi avesse voglia di perdere tempo a consultare le analisi del signor Francesco riguardo ai calcoli energetici tra convenzionale e biologioco e il suo modo di ‘demolire’ gli studi scientifici che gli vengono proposti.
Mah, si è dimostrato che per coltivare un campo di frumento serve un campo di oleaginose non ben precisate.
Quindi questo significa dimezzare la produzione alimentare. Dove, in italia, nel mondo? Complimenti.
Se l’intento era quello di sfatare il vecchio studio di Pimentel e Patzec faccio presente che in quel caso si mettevano a confronto gli input calorici derivati da
lavoro, macchinari, diesel, azoto, fosforo, potassio, semi, erbicidi, elettricità e trasporto.
Questi servivano per coltivare un campo non di prodotto finito (nel nostro caso il grano) ma di girasoli, soia, mais e altro per utilizzo energetico. E ne risultava che le calorie prodotte in questo modo erano minori di quelle utilizzate per produrle.
In questo caso l’EROEI era negativo.
Quindi non si è sfatato un bel niente, perché sono state messe a confronto due cose diverse.
Ora secondo studi più recenti (vedi wikipedia alla voce biodiesel) l’EROEI del biodiesel sarebbe positivo nella misura di 3. Ma ci sono da considerare molti fattori che sono di competenza degli esperti del settore (e non di Francesco si spera e naturalmente neppure del sottoscritto) . Inoltre ci sarebbe un impatto ecologico da valutare di volta in volta a seconda di vari fattori ambientali.
Lasciamo perdere la vecchia polemica sui vegani e il letame. Non se ne può più.
Chiedo scusa se mi intrometto nella discussione, ma certe cose proprio non si possono sentire.
In quel caso si sommavano
al posto di si mettevano a confronto
Svista da frase modificata
Non ho ancora capito se voi due ci siete o ci fate. Quello che ho scritto è semplicissimo da capire. Volevo solo sfatare la balla che per ogni caloria alimentare prodotta, gli agricoltori ne consumano una e mezza. Questo oltre che un insulto all’intelligenza umana, offende anche noi agricoltori. Che da cittadini nemmeno ve ne rendiate conto, non è una scusante. Chiedendo lumi direttamente ad amici che coltivano frumento e girasole e chiedendo conferme ad altri agricoltori su altri blog, ho saputo che tutti più o meno consumano circa 200 litri di carburante per coltivare un ettaro a frumento, da cui si ricava una produzione media di 6000 kg. Mio nonno negli anni ’30, sui nostri terreni ferrettizzati e poverissimi di sostanza organica, otteneva una media di 5000 kg della varietà Pastore (nemmeno una delle più produttive. E sono passati 90 anni! Ho calcolato altri 200 litri circa per produrre concimi complessi. Per ottenere una sostituzione del gasolio con biocarburanti ho preso in considerazione due possibili colture oleaginose: girasole e arachide, ed ho calcolato una media di circa 900 litri di biocombustibile per ettaro. Si può ottenere di più, ma da agricoltore sono abituato a non contare troppo sui risultati massimi. Di questi (come ho già scritto) circa 550-600 litri servono a tutte le operazioni per la coltura e spremitura oleaginose. Anche qui ho esagerato in eccesso, perché non si sa mai. Quindi sforo di circa 50-100 litri. Però, oltre all’olio, che consumo tutto, ottengo due prodotti: frumento e panelli proteici, e cioè 6000 + 3-4000 kg. Dato che con questi ultimi nutro del bestiame otterrò anche del letame, che mi farebbe diminuire di molto la quota dell’azoto chimico. Ora, visto che lei non riesce a capire, o meglio ad accettare, questi semplici calcoli, inviti i suoi numerosi lettori a confutarli.
Fuzzy: il paradosso sul letame ed i vegani o non riesci nemmeno a capirlo, o non vuoi rispondere perché demolirebbe le tue convinzioni. D’altra parte, da uno che basa le sue conoscenze in campo agricolo permaculturando 60 mq di scarpata ferroviaria, non ci si può aspettare che capisca molto.
Se si fanno girare i discorsi a casaccio non si arriva mai da nessuna parte. Quello che volevi dimostrare non ha senso, perché dipende dal prodotto finale. Tipicamente se produci carne vai ben oltre il rapporto uno e uno e mezzo per cento. È quello che voleva farti capire Giussani, mi pare. Ma il famoso uno per uno e mezzo per cento viene fuori dallo studio d Pimentel
che si riferiva a calorie per produrre biocarburanti e non cibo.
Sorvoliamo sulla ridicola dimostrazione di non so cosa in cui a un campo di colza corrisponde un campo di grano, oppure sull’ennesima riproposizione della polemica sui vegani contrari al letame o alla scarpata ferroviaria che non è una scarpata. E io non sono un agricoltore e non mi interessa di esserlo. Non ho altro da aggiungere.
Rapporto uno uno e mezzo. Senza il per cento.
Per la cronaca non ci ha mai riferito l’EROEI che avrebbe calcolato per questa roba, ma immagino che per una persona incapace di capire che cosa siano i consumi indiretti (roba troppo da cittadini, forse?:-) sia un po’ complesso.
Mi spiace, ma questi ‘insulti non percipitati come tali da chi li proferisce’ non sono sufficienti per spillarmi 500 euro! 😀
Se non siete in grado di capire dei semplici concetti non varrebbe nemmeno la pena continuare. Sono però magnanimo e credo nel repetita iuvant. Per la terza volta: ho inteso dimostrare che produrre del cibo vegetale (che il frumento sia un cibo di origine vegetale, almeno lo capite?) sia possibile anche non disponendo di combustibili fossili. Punto. Tutte le ammuine che fate per non accettare questo semplicissimo concetto che contraddice tutto il vostro castello di supposizioni non cambiano niente. Non riuscite nemmeno a capire (o accettare) che da molte colture, oltre al prodotto più desiderato (perché economicamente più favorevole, o altro) si ottengono anche sottoprodotti non meno utili. Nel caso delle oleaginose, si ottengono i panelli proteici. La soia per esempio un tempo era considerata una cultura secondaria e tipicamente asiatica (gli asiatici hanno sviluppato nei millenni un microbiota specifico che la utilizza molto bene a differenza dei caucasici e nilotici che invece hanno sviluppato la lattasi sufficienza) e si è diffusa soprattutto da quando si è scoperto che con la cottura si annullavano gli indesiderati fattori antinutrizionali, e si otteneva un panello proteico molto pregiato. L’olio di soia è quasi un sottoprodotto, con cui però vengono fatti anche i materassi. Ebbene, utilizzando le varie tipologie di panelli proteici posso alimentare polli, tacchini e maiali (non tutti praticano il masochismo vegano) e da questi ottengo un altro sottoprodotto ottimo per reintegrare i fabbisogni in macro-elementi delle colture: il letame. L’economia circolare l’abbiamo praticata noi agricoltori millenni prima che la scopriste voi cittadini. Tuttavia nei miei calcoli la produzione di frumento (ho scelto questo cibo semplicemente perché è la nostra base alimentare, oppure mi contestate anche questo?) è talmente sostenibile che non ho nemmeno preso in considerazione questa aggiunta. Anche perché nemmeno la capireste. Sui calcoli dell’EROEI delle oleaginose perché dovrei smentire il vostro guru Pimentel che calcola un rapporto di 3 a 1 per i biocarburanti? Io ne calcolo anche meno e nonostante questo non mi credete?! Un minimo di coerenza non ci starebbe male! Capisco che Fuzzy voglia essere coerente con il suo nickname di confuso ….. Visto che siete più bravi di me, calcolateli voi questi consumi indiretti. Per esempio la costruzione di macchine, come la spremitrice? Quella che utilizza il mio amico bresciano, che già da anni fa funzionare trattori, pompe, generatori ed automobili (rigorosamente Euro 1 o 2: quando andavo a trovarlo e aggiungeva una ventina di litri alla mia vecchia Lancia K TD, facevo le salite con una marcia in più, seguito da odore di patatine fritte) con biocarburanti (soprattutto girasole, però non puro e solo d’estate) è stata comprata usata e credo che abbia più di 40-50 anni. Ha solo cambiato la vite senza fine e aggiunto un termostato per mantenere bassa la temperatura e non alterare le qualità dell’olio, che vende a vicini ed amici a scopo alimentare. Facciamo 20 litri l’anno o preferite 30 litri, (crepi l’avarizia) per l’ammortamento ed usura? Il consumo elettrico l’ho già calcolato.
Ovviamente, visto che anche questo modello produttivo per voi non è sostenibile, mi aspetterei un modello alternativo che lo sia (senza aborrite esternalità e consumi indiretti) e che però dia da mangiare a sufficienza a 8 miliardi di persone. Buoni tutti a criticare gli altri, senza mai proporre niente di “più meglio”.
Senta, questa guerra personale che ha intrapreso con me, ‘cittadino’ (parola che lei usa più o meno come sinonimo di ‘stronzo’, a quanto ho capito) colpevole di ‘offendere gli agricoltori’, mandandomi 2-3 commenti al giorno, cercando lo scontro anche in articoli che non c’entravano nulla (vedi la solidarietà per le minacce a Linda Maggiori su DFSN) e usando sempre la strategia ‘allora le foibe?’ bypassando gli articoli (non so neanche come siamo a finiti a parlare di bilancio energetico dell’agricoltura a partire da un pezzo sulle sementi HT)… mi sta stufando.
A questo punto, per una questione diciamo di ‘onore’, mi sento in dovere di scrivere in futuro un pezzo sul bilancio energetico dell’agricoltura, cercando di far capire gli aspetti dove sta sbagliando, anche se mi scoccia francamente l’idea di dover impostare le mie scelte editoriali sulla base dei suoi obiettivi polemici. Di certo però per puntiglio non mi metto a perdere tempo a documentarmi per il commento numero 75 della discussione che forse leggerà Fuzzy e nessun altro.
Io da parte mia mi impegno a usare toni del tutto asettici e concentrati solo nel merito delle discussioni (ho fatto del flame anche io lo ammetto senza problemi), a lei chiedo:
1) di smetterla con la strategia dialettica ‘allora le foibe?’ e di replicare nel merito dei contenuti degli articoli.
2) eventualmente di rivolgermi anche insulti personali, ma piantarla di fare psicologismi e e attribuirmi posizioni che non mi appartengono, anche perché E’ LA SUA GUERRA, NON LA MIA GUERRA (Rambo cit). Su DFSN, blog dove sono di fatto l’amministratore unico, ci scrivono contadini che praticano agricoltura CONVENZIONALE, come Miriam Corongiu. Purché rispettino i limiti di regole, non ho nulla contro i contadini che praticano agricoltura convenzionale così come non rimprovero chi possiede un’automobile per le emissioni di CO2 e inquinanti vari del suo motore. E’ un problema di sistema, non di persone. Non ho neppure detto granché sui suoi amici che usano OGM illegalmente. Replichi (NEL MERITO) ai miei contenuti, polimizzando anche aspramente e anche insultandomi se vuole, ma la pianti di volermi mettere in mezzo in una guerra in cui non mi riconosco. Al prossimo ‘voi cittadini’ probabilmente mi metto a bannare, cosa che non faccio mai soprattutto con chi la pensa diversamente da me.
Pimentel calcola un EROEI negativo.
Su Wikipedia invece si stima un Eroei positivo nella misura di 3 che in qualche modo sarebbe accettabile per le attività agricole, ma la stima è senza fonte. Questo significa che qualcuno esperto della materia, non io che mi regolo con i dati già prodotti da esperti, dovrebbe magari appurare meglio l’entità di questo eroei, tenuto conto che forse è stato già fatto e che in genere quando si ha a che fare con le questioni energetiche ci sono molti interessi in gioco e non sempre le valutazioni sono obiettive.
Era stato già scritto, bastava leggere e capire.
Giussani chiedeva a te di calcolare questo eroei, ma sono venute fuori soltanto delle banalità senza nessun filo logico e talmente attorcigliate da doverle separare e distinguere da altre banalità fuse (e confuse) insieme.
Direi che siamo restati al punto di partenza. Abbiamo soltanto perso del tempo.
Mi limito solo a sottolineare come io abbia fornito dei numeri ben precisi, che non mi sono inventato (non coltivo cereali) o solo letto, ma che mi sono stati forniti da vari agricoltori: numeri pertanto reali, dedotti da esperienze pratiche e nemmeno estremi, ma medie di produzione fra vari anni. Voi invece vi siete appellati solo a supposizioni teoriche o a dati presi da articoli. In ogni caso vi siete guardati bene sia dallo smentire i miei numeri, sia di proporre alternative valide all’agricoltura. Non aggiungo aggettivi qualificativi, perché lo vogliate o meno, di agricoltura che produce e sfama il mondo, ne esistono solo due tipologie: una di sussistenza che a malapena sfama chi la pratica e l’agricoltura tradizionale. Non uso il termine convenzionale, perché i contadini di tutto il mondo non seguono mai delle convenzioni, ma solo metodi tradizionali in continua evoluzione. Tutti gli altri metodi servono solo ad illudere e/o a spillare soldi a consumatori gonzi. O eco-grulli come li definisce un amico produttore Bio di ortofrutta, che specula sulla credulità umana e che in separata sede ci fa fare un sacco di risate. Quando, scherzando (ma non troppo) gli dico che si vende per soldi come una puttana, nemmeno si arrabbia.
Dato che oltre alle solite specie orticole produco una discreta quantità di patate (comunque piccole quantità: circa 18-20 qli su circa 400 mq) e che conosco bene chi invece ne coltiva parecchi ettari nella Bassa veronese, avrei voluto fornire un altro esempio sempre riguardante la produzione di quest’altro staple food usando solo biocarburanti, ma tanto non credereste nemmeno a questo, per cui rinuncio.
Voglio dire due cose solo per chiudere su questa stronzata che ripete spesso. Neppure lei mi ha proposto un’alternativa quando le ho fatto natura la dipendenza da risorse finite come metano o fosfati o esternalità come il problema delle dead zone marine, ha semplicemente glissato. Se lei fosse capace di ragionare serenamente invece di vedere nell’analisi della sostenibilità un atto di lesa maestà vero gli agricoltori, capirebbe che non c’è nessuna volontà di mettere in croce nessuno ma solo di segnalare problemi proprio perché qualcuno che conosce più le questioni agronomiche possa intervenire concretamente. Ma se non è capace la lascio alle sue guerre personali e amen, eviti di coinvolgermi.
Quando sorvolo su certi argomenti è perché sono secondari, o superati, o in via di soluzione. Pertanto trovo una perdita di tempo ritornarci continuamente sopra.
Di fosforo, o meglio di fosforiti ce ne sono ancora grandi riserve. A differenza sua che legge e si fida solo dei dati forniti da altri, quando una cosa mi interessa, vado a cercarmeli sul posto. Per parecchi anni ho frequentato il Marocco ed ho visto varie miniere a cielo aperto di fosforiti, sia nella parte centrale (zona di Kouribga) che più a sud , in quello che era l’ex-Sahara spagnolo, nella regione della Draa: da Tarfaya in giù fino a Laajoune. Per una decina di anni ho percorso queste strade andando spesso in auto fino a Dakar. Sia geologi italiani che marocchini mi hanno assicurato che di fosforo ce ne sarà in abbondanza per varie centinaia di anni. Le riserve ora conteggiate (calcolate per 50-100 anni) si riferiscono solo a zone dove il tenore di fosforo è superiore al 15 o al 20%, ora non ricordo e a cielo aperto. Per cui è più facile recuperarlo. Ma ci sono molte altre zone dove il tenore è più basso, o sotto strati di altro minerale e che si possono sfruttare. In quasi tutto il Marocco (ed è lungo quasi 3000 km) sia sulla costa che all’interno, si vedono persone, anche giovanissimi, con i denti neri, sintomo di eccesso di fosforo nell’acqua e nel cibo. Stessa cosa ho visto in Siria, Giordania, Mauritania e Senegal. Ci sono poi da sfruttare enormi depositi sottomarini lungo la costa. Ovvio che l’EROEI sarà senza dubbio maggiore, ma per il fosforo ne vale la pena.
Anche quello dell’eutrofizzazione, legata soprattutto al fosforo che arriva in mare è un vecchio problema. Innanzitutto era dovuto anche ad usi non agricoli, come ad esempio nei detersivi e a sversamenti direttamente nei fiumi dei liquami zootecnici e delle fognature urbane. Da quando s’è ridotto e addirittura proibito quest’uso nei detersivi; sono realizzati quasi ovunque degli impianti di depurazione delle acque reflue da allevamenti e città, e si è ridotto anche l’abuso di concimi in agricoltura, l’eutrofizzazione nell’Alto Adriatico si è notevolmente ridotta o scomparsa e lo stesso nel Mare del Nord. Da qualche parte ho letto (o mi hanno detto) che in pochi anni, alla fine del XX secolo, lo sversamento del fosforo nel Mare del Nord si è ridotto di quasi il 40% ed il mare è tornato vitale. Un tedesco che ci abita, mi ha raccontato che i pescatori sono tornati a pescare molte aringhe e che le foche sono ridiventate tanto numerose da essere un problema. Mio figlio dice di averle viste sulle coste della Normandia da dove mancavano da centinaia di anni. Questo alla faccia dei suoi dati che dimostrerebbero che gli agricoltori europei (in particolare olandesi) hanno un’agricoltura più arretrata degli americani. Sono anche abbastanza vecchio da ricordare che fino a 20-30 anni fa l’alto Adriatico era spesso invaso da alghe e mucillagini varie e che il problema è ora invece ridotto o inesistente. Tutto questo conferma che tecnologia e buone leggi ( e cioè il progresso e non il tornare indietro come volete voi) possono risolvere o almeno attenuare dei problemi ambientali seri. Il Tamigi era un fiume morto già un secolo fa e ora è nettamente migliorato. Sono tornati a pescare i salmoni ed anguille stando sulle rive a nord di Londra. Sempre restando in tema di grandi città, mio figlio ed i suoi amici ed amiche partecipano a gare ufficiali di triatlon che prevedono anche vari chilometri di nuoto in acque aperte e cioè la Senna. Se fosse inquinata (come lo era un tempo) , non lo permetterebbero. Faccio notare che questa e il suo affluente Yonne attraversano la pianura più agricola e produttiva di Francia.
C’è poi da considerare che molti di quelli che erano considerati scarti di cui liberarsi (liquami zootecnici e cittadini), sono diventate “miniere” di energia o di macroelementi come fosforo ed azoto. D’altra parte l’argomento riciclo è a voi praticamente sconosciuto oppure sorvolato perché smentirebbe molte vostre previsioni catastrofiche.
Questi due sono problemi di cui sentivo parlare 40-45 anni fa e dato che ora sono in via di attenuazione, (almeno nella parte di mondo più progredita) mi sembra pretestuoso continuare a rinvangarli solo per sostenere delle tesi assurde. Altro che “ .. e le foibe”!
In questo suo commento c’è una perfetta sintesi del suo modo di porsi. Ovviamente non c’è nulla di sbagliato nell’esperienza personale e nel voler fare San Tommaso. Però, questa sua dialettica tutta improntata al “io ho visto [o in alternativa suo figlio, l’unica altra fonte attendibile esistente sul pianeta Terra a quanto pare], io ho fatto, Tizio mi ha detto quello, Caio mi ha confidato quell’altro… voi leggete solo riviste” è buona solo per giocare a chi ce l’ha più lungo. Per dare un vaghissimo senso di rigore scientifico a qualsivoglia discussione, è fondamentale creare un discorso su basi condivise, nel senso che non si limiti a puri resoconti individuali ed esperienze soggettive.
Ovviamente, in un confronto dove si è deciso che la sua esperienza personale è il Verbo e la letteratura scientifica evidentemente un cumulo di idiozie partorito da ‘cittadini’ incapaci (almeno quando non conferma le sue visioni), c’è poco da dire. Siccome ha letto che la dead zone del mare nord si è in parta risanata e siccome lei e suo figlio avete visto qualche fiume più pulito (e vorrei anche vedere, specialmente dopo 35 anni di delocalizzazione industriale che fossero anche più sporchi…) il problema dell’eccesso di nutrienti non esiste più? Benissimo.
Allora però dovrebbe fare una bella cosa: invece di perdere tempo qui con me, dovrebbe darsi a pubblicare articoli scientifici e demolire tutto quel branco di ricercatori di NOAA ed tanti enti analoghi nel mondo che osano descrivere il problema come crescente.
Se lei ha la certezza che la FAO e la UE (cioé quelli che chiama ‘i miei dati’, per capirci) stilino false report sui consumi di input, facendo cose come presentare gli USA più virtuosi dell’Olanda, intraprenda subito un’opera di denuncia pubblica perché si tratta di un fatto gravissimo.
Si vada a prendere i dati FAO che avevo girato nella prima puntata sul calo consistente di nutrienti in Italia dagli anni 80 a oggi e una rispostina sul perché l’Adriatico è tanto migliorato forse ce l’abbiamo…
I ‘miei dati’ dicono cose un pochino diverse, ma tant’é… https://www.sciencealert.com/dead-zones-in-ocean-quadrupled-since-1950s-killing-marine-life
Visto che me l’ha sempre menata con il fatto che mi mancano le conoscenze di base in agricoltura, immagino che non si offenderà se le faccio notare due cosette:
– a parte la solita fonte ‘gola profonda’ che si confida candidamente con lei riferendole crimini/truffe/segreti industriali e affini, chi conosce appena l’abc della sostenibilità sa bene che il discorso delle riserve è del tutto aleatorio perché il limite delle risorse è economico e non fisico. Mutatis mutandis, è come quando lei mi criticava perché parlavo genericamente di pesticidi senza specificare e approfondire;
– Ehm… sta parlando di EROEI in riferimento a una risorsa non energetica? Per di più lasciando intendere che un EROEI alto di per sé sarebbe una brutta cosa?
Ha ragione, sta tutto prendendo più una piega da marchese del Grillo
Continua a dimenticare che io per la FAO e per l’UE ci ho lavorato per anni e vedendo le cose dall’interno, conosco bene perché, come, e cosa fanno. Lei invece no. Chi ha più titoli per giudicare queste fonti? Che ci creda o meno, mi sono informato anche io sugli stessi libri ed articoli che ha letto lei e credo anche molti, ma molti più di lei. Oltretutto, su certi argomenti, a differenza di lei, ho però l’esperienza e le conoscenza professionali per giudicare e vagliare le cose vere da quelle scritte perché si vendono bene sul mercato delle balle che la ggggente vuole sentirsi dire. Quando una informazione o dato “mi puzza”, se e quando posso mi informo meglio “de visu”. Se ha letto bene, mi sono limitato a menzionare solo due casi particolari: Alto Adriatico e Mare del Nord, perché frequento il primo e nel mio agricampeggio ho conosciuto molte persone (tedeschi ed olandesi) in genere anzianotti, che abitano lungo le rive del secondo e che possono fare i confronti tra il prima ed il dopo. Non me ne frega niente se lei non crede a loro e crede solo a quello che legge. Io preferisco avere un riscontro diretto e non solo da una persona, ma da molte. Quando tutte più o meno tutte confermano le stesse cose, dato che sono meno influenzato ideologicamente di lei, tendo a credere a questa versione dei fatti. Se per lei questo è un difetto, non so cosa farci. Preferisco il mio sistema.
Ho poi il difetto di fare molto affidamento a quello che mi riferisce mio figlio, che è un ingegnere e viaggia molto per il mondo. Anche se spesso la pensiamo diversamente lo ritengo una persona intelligente (al momento della consegna dei diplomi di laurea, il rettore dell’UTA ha lodato mio figlio come miglior laureato nella storia di questa prestigiosa Grande Ecole: oltre ad essere stato fra i primi 5 come risultati accademici, è stato per due anni il più giovane – 18 anni- rappresentante degli studenti di tutte le università francesi e l’unico ad essere stato rieletto per 4 anni), è molto curioso ed un grande osservatore.
Si legga invece due interessanti articoli sull’ultimo numero di Le Monde Diplomatique. Nelle edicole dovrebbe trovare anche l’edizione italiana. Uno riguarda una critica alla decrescita (in particolare sugli effetti disastrosi che avrebbe nei PVS) e l’altro è un reportage sulla condizione dei produttori di latte francesi. Dato che si fida solo di quello che legge, almeno questi dovrebbe interessarla.
Si assuma la responsabilità di quello che sta dicendo: il database FAOSTAT e i dati della UE su produzione, consumo di input, ecc. sono quindi falsi e manipolati per fare cose come far apprire gli USA più virtuosi dell’Olanda? (con tutti gli olandesi babbei che si fanno prendere per il naso e tutto il mondo dell’agricoltura-agronomia ad accettare acriticamente una roba del genere?) Perché per quanto koglione lei mi possa considerare a leggere un database con dei dati sono ancora buono, non c’è nessuna interpetazione. Se hai lei i dati veri li renda pubblici e smacheriamo questa clamorosa manipolazione mediatica.
Guardi, partiamo dal principio che neppure a me frega nulla di lei e di quello che pensa, io fino a un mese e mezzo fa manco sapevo chi fosse ed è stato lei e venire sui miei spazi Web in maniera insistente e non viceversa. Lei per quanto mi riguarda può anche credere ai tarocchi o ai fondi di caffé. Il problema nasce quando lei cerca un confronto con gli altri e vuole usare queste sue presupposizioni per discorsi addirittura crearci addosso un’aura di scientificità. Dove però la letteratura scientifica non conta perché l’ha deciso lei, senza confutare nei fatti nulla (ne fosse veramente capace col cavolo che perderebbe tutto questo tempo a starmi dietri) e dove le uniche fonti valide sono quelle della sua aneddotica personale. Così non c’è alcun confronto con alcun rigore, è solo un modo per vantarsi di avercelo più lungo.