Nel periodo in cui i consulenti scientifici di Boris Johnson vagheggiavano l’idea di una strategia di contrasto al Coronavirus alternativa al durissimo lockdown cinese, sul sito della BBC mi imbattei in un articolo raffigurante questo grafico, esemplificazione divulgativa di una modellizzazione al computer riguardante l’evoluzione nel tempo del contagio da Covid-19 con o senza misure per limitarne la diffusione (figura 1)
Figura 1
Chi, come il sottoscritto, si interessa alla problematica del picco del petrolio, si sarà probabilmente accorto della notevole somiglianza tra la curva a campana blu, ipotesi sul decorso ‘naturale’ del Coronavirus se lasciato agire indisturbato, con quella tracciata da Hubbert per descrivere il ciclo produttivo del petrolio (figura 2)
Figura 2
Quando Hubbert si cimentò nello studio poi pubblicato nel 1956 con il titolo Nuclear Energy and the Fossil Fuels, allo scopo di ipotizzare il picco di produzione del greggio statunitense e globale, non disponeva dei supporti informatici oggi a disposizione dei modellizzatori e, in ogni caso, poteva prevedere con ragionevole approssimazione solo le variabili ascrivibili all’andamento dei consumi e allo sviluppo tecnologico, mentre sarebbero servite doti divinatorie per azzardare altri eventi in grado di ripercuotersi pesantemente sulla produzione di greggio, quali tensioni geopolitiche e crisi economiche (per non parlare delle pandemie!). Per tali ragioni, possiamo accostare sul piano concettuale la figura 2 alla curva ‘no action taken’ del diagramma precedente riferito al Covid-19, cioé un decorso ‘naturale’ della produzione senza l’insorgere di fenomeni straordinari che ne alterino l’andamento.
Quando i fattori eccezionali non sono stati rilevanti, i calcoli di Hubbert si sono rivelati estremamente precisi; l’accuratezza con cui ha previsto il picco del petrolio statunitense è a dir poco sbalorditiva. Se si eccettua la ripresa del 2010 dovuta al ‘miracolo’ (o più probabilmente ‘bolla’) dello shale oil, ascesa e declino produttivo seguono fedelmente la traiettoria teorica a campana.
Figura 3. Produzione petrolifera USA rapportato alle previsioni di Hubbert (fonte)
Ovviamente, sul lungo periodo della produzione globale gli eventi difficilmente preventivabili – crisi del Kippur del 1973, rivoluzione iraniana del 1979, crollo dell’impero sovietico, prima e seconda guerra del Golfo, mancato avvento dell’era atomica, ecc – si sono fatti prepotentemente sentire e, così come le misure di contenimento sociale del Coronavirus hanno dilatato nel tempo l’apice dei contagi, alcuni fenomeni voluti (sviluppo dell’efficienza energetica e ricorso massiccio alle fonti fossili ‘ausiliarie’ gas e carbone laddove potevano sostituire virtuosamente il petrolio) altri subiti (crisi economiche e politiche) hanno posposto la data del picco mondiale rispetto all’analisi del geofisico americano (che ricalca comunque abbastanza fedelmente il trend delle risorse convenzionali, piccate infati un decennio dopo l’inizio del XXI secolo).
La strategia consigliata dall’OMS per affrontare il Coronavirus, attuata oramai da quasi tutti i governi, punta a raggiungere il picco dei contagi in un periodo intermedio, né troppo presto per non intasare il sistema sanitario né troppo tardi per non compromettere eccessivamente l’economia. Ma come trattare quella particolare ‘malattia’ che è la dipendenza dal petrolio?
Dando uno sguardo a un articolo pubblicato qualche anno fa su Resilience, che analizza il raggiungimento del picco del petrolio in Europa Occidentale nazione per nazione, mi sono saltate all’occhio bizzarre analogie con la condotta di contrasto al Coronavirus.
Figura 4
Figura 5
Figura 6
Figura 7
Le tre maggiori nazioni europee per potenza economica e militare (Germania, Gran Bretagna e Francia) insieme a quel gruppo di stati meno egemone ma apprezzato per l’elevato benessere e gli alti indici di sviluppo umano (paesi scandinavi, Finlandia e Svizzera) hanno raggiunto il picco di consumo prima degli anni Ottanta, a differenza delle altre nazioni che ci sono arrivate quasi trent’anni dopo e solo perché costrette dal grande crash finanziario inaugurato dal fallimento di Lehman Brothers, lo scoppio della bolla finanziaria generata dai mutui subprime e la conseguente depressione globale. Nel caso dei famigerati PIGS, è evidente la strettissima correlazione tra andamento del PIL e consumo di petrolio, che altrove risulta, per quanto evidente, meno marcata.
Figura 8
Figura 9
Insomma, chi aveva intrapreso delle serie ‘misure di contenimento’ già dopo le crisi petrolifere degli anni Settanta ha affrontato con maggior successo il ventennio Ottanta-Novanta ed è uscito con le ossa meno rotte dal tracollo del 2008-09, gli altri invece faticano molto di più a riprendersi dalla botta. Ma quali sono state le azioni per contenere la dipendenza dal virus-petrolio equivalenti alla chiusura di scuole, al blocco delle attività economiche non essenziali e ai vari divieti che stiamo vivendo? Ne azzarderei due su tutte:
– promozione dell’efficienza energetica: Germania, Francia e Regno Unito risultano tra i paesi al mondo che hanno compiuto maggiori progressi in questo campo, con la nazione tedesca leader incontrastata (vedi qua per maggiori dettagli);
– terziarizzazione dell’economia e graduale delocalizzazione dell’industria pesante, tendenza maggiormente accentuata dai britannici.
Se sarà il tempo a giudicare sulla bontà delle azioni per reprimere il Covid-19, si può già dire qualcosa per quanto attiene alle politiche dei paesi europei occidentali avanzati per emanciparsi parzialmente dal petrolio. Avete presente gli appelli di Conte, Borrelli, esperti vari a prepararsi alla fase 2 di ‘convivenza con il virus’ per arrivare finalmente all’agognata fase 3 della fine dell’incubo? Bene, i paesi dei grafici 4 e 5 non hanno certo ‘debellato’ il petrolio, subito dopo le crisi energetiche degli anni Settanta hanno varato provvedimenti che hanno abbattuto sensibilmente il fabbisogno nel breve periodo, ma da circa trent’anni hanno raggiunto un plateau che li tiene lontani anni-luce da qualsiasi ipotetica fase 3 postpetrolifera. Le società terziarizzate/postindustriali/dell’industria 3.0, una volta tagliati sprechi e inefficienze, faticano a migliorare le loro performance, per cui consiglio ai paladini dello sviluppo sostenibile di non cimentarsi in ambiziose curve ambientali di Kuznets perché resterebbero delusi.
Inoltre, la terziarizzazione/postindustrializzazione è pensabile solamente all’interno di un mondo globalizzato dove un gruppo consistente di nazioni si assuma l’onere di garantire flussi costanti di materie prime, beni agricoli, prodotti manifatturieri; si tratta insomma di una condizione non generalizzabile, destinata anzi a rimanere di nicchia e attuabile all’interno di un sistema di dominio dove alcuni paesi rimangono in condizione subalterna.
Come se non bastasse, la pandemia da Coronavirus, ponendo enormi limitazioni alla logistica dei trasporti, ha inferto un fendente forse mortale alla già traballante architettura della globalizzazione neoliberista, riportando alla ribalta il problema di rilocalizzare linee produttive normalmente secondarie e quindi delocalizzate che, in situazioni di emergenza, possono diventare vitali (nel XXI secolo, è tragicomico che laddove si straparla di automazione totale e altre meraviglie tecnologiche si vada in crisi per mascherine sanitarie e ventilatori polmonari).
Non dimentichiamo che ‘terziario’ è una categoria molto fluida e variegata contenente al suo interno tutto e il contrario di tutti, spaziando dai servizi avanzati legati allo sviluppo delle reti telematiche fino ai mini-jobs dovuti a quella che André Gorz chiamava ‘sudafricanizzazione della società’. Varrebbe la pena di rimpiangere la scomparsa di un sistema sociale che ha portato alla teorizzazione dell ‘universalismo selettivo’ (magnifico ossimoro!), dove una minoranza di ‘lavoratori della conoscenza’ è sindacalizzata e può negoziare condizioni contrattuali favorevoli mentre il resto della forza lavoro è soggetta al regime dispotico della precarietà?
Anche se al peggio non c’è mai fine, probabilmente non sarebbe la perdita di chissà quale paradiso perduto. In ogni caso, in questo parallelismo tra Covid-19 e petrolio, la morale della favola sembrerebbe che, prima arrivano i picchi di entrambi, meglio è, al fine di voltare pagina e ricostruire un mondo diverso dalla macerie che ci hanno lasciato combustibili fossili e pandemie.
Buonasera, anche io sono da sempre fin dall’inizio della pandemia che essa sia un reale artificio di chi comanda a sto mondo, reale intendo che il virus è reale e la morte giustifica i mezzi con cui vengono attuate misure di contenimento. Personalmente credo che la pandemia durerà almeno un altro paio di anni e da anomalia ..la nuova realtà disegnata per ridurre o dimezzare i consumi di energia ( noi umani dipendiamo dal petrolio per l’85% )..smart working..e commerce..video lezioni per le scuole..minor capienza in luoghi tendenti ad un assembramento da un bar a un mezzo di trasporto passando per tutto quello che c’è in mezzo.. diverranno la normalità..poi siccome l’estrazione è già e sarà di difficile estrazione e più costosa..chi vorrà consumare di più energia dovrà pagarla…esempio..se si vorrà volare si dovrà pagare di più.. automaticamente sorge la quasi certezza che compagnie low cost e attività commerciali di tutti i generi basate sul vecchio sistema consumistico della globalizzazione saranno destinate all’estinzione..sopravviveranno solo i più forti..i grandi..le multi nazionali..e chi ha molto ma molto denaro e chi saprà riciclarsi e sfruttare la nuova economia basata sullo spostamento di denaro di prossimità