di Jacopo Simonetta.
Articolo lungo e molto didattico, per niente divertente; siete avvertiti.
La demografia è fatta di tre cose: nascite, morti e migrazioni.
Quanti figli può avere una donna? Il record storico accreditato è di Valentina Vassilyeva, una contadina russa che fra il 1725 ed il 1765 mise al mondo la bellezza ben 69 figli (con 27 parti di cui 16 gemellari, 7 trigemellari e 4 quadrigemellari). Ancora più straordinario il fatto che 67 di questi ragazzi raggiunsero l’età adulta.Il record attuale appartiene invece ad una signora cilena, Leontina Albina, che ne ha avuti 55 (certificati, lei dice che siano invece 64).
A parte questi casi assolutamente straordinari, una donna normale può mettere al mondo un massimo di 12-15 figli, ma è rarissimo che nella realtà si riscontrino livelli simili di fertilità, tanto nelle società primitive quanto in quelle più sofisticate. Diciamo che gli 8-10 figli che sembravano normali ai nostri bisnonni e che oggi sono la norma in altri paesi rappresentano l’eccezione e non la regola nella storia umana. Quanto può vivere un umano? Il record pare appartenga al sig. Saparman Sodimedjo (alias Mbah Ghoto) che potrebbe essere vissuto addirittura 146 anni in un villaggio indonesiano, ma è lecito dubitarne. Ad ogni modo , ci sono almeno una ventina di casi ben documentati di persone, uomini e donne, vissute fra i 110 ed 120 anni.
Anche in questo caso, la norma è assai più modesta. Oggi la speranza di vita è di circa 71 anni come media mondiale, ma varia fra gli 84 del Giappone ai 50 della Sierra Leone.
Non esistono, ovviamente, regole biologiche riguardanti le migrazioni.
Sia la natalità, sia la mortalità che il saldo migratorio cambiano notevolmente a seconda delle regioni e dei periodi storici, ma mentre la prima cambia lentamente ed ha una notevole inerzia, la seconda ed il terzo cambiano immediatamente al variare delle condizioni ambientali.
Il punto spesso trascurato è che moltissime società, anche primitive e/o povere, hanno cercato ed almeno parzialmente ottenuto di mantenere delle densità di popolazione abbastanza stabili, inferiori al massimo possibile. Quelle che non lo hanno fatto si sono guadagnate un posto nei libri di storia per aver prodotto occasionali o ricorrenti invasioni e, talvolta, veri e propri genocidi. Oppure sono morte schiacciate dal loro stesso numero.
Cosa fa la differenza? Una dinamica multidimensionale articolata su tre livelli strettamente interconnessi: Individuale, sociale, ambientale.
Livello individuale.
A livello individuale, il fattore principale è costituito dalla scelta delle donne (autonoma o imposta che sia) circa il numero di figli. Molto prima che fossero inventati i metodi contraccettivi odierni, erano infatti di uso corrente metodi statisticamente efficaci come modalità infertili di fare sesso e prolungare l’allattamento. Aborto, infanticidio ed abbandono erano anche metodi ampiamente diffusi, specialmente nelle popolazioni insulari, ma non solo.
I fattori che concorrono a questa decisione dipendono in parte dalle opinioni della donna, in particolare da quanto desidera (o deve) dedicare ad ogni figlio in termini di tempo ed energia. Dunque non solo in termini di cibo, ma anche di abiti, istruzione, proprietà ecc. Ovviamente, più alto è l’investimento che si vuole fare su ogni figlio, minore è il numero dei figli desiderati.
Inoltre, sono importanti gli altri desideri alternativi, o integrativi, alla maternità, ma questo è un elemento che acquista rilevanza demografica solo in società estremamente complesse, oppure fra gli alti ranghi di alcune aristocrazie.
Un ulteriore, importante fattore psicologico è l’aspettativa rispetto al futuro: chi ha una visione ottimista dell’avvenire tende a riprodursi molto di più di chi è pessimista, per l’ovvia ragione che non fa piacere mettere al mondo delle persone, se si pensa che saranno destinate a vivere poco e male.
Infine, un fattore accidentale, ma che può evolvere in una tradizione, è rappresentato dalle calamità, siano queste sociali (guerre) o ambientali (carestie ed epidemie). A seguito di eventi particolarmente devastanti, infatti, la natalità ha sempre una brusca impennata.
Un caso particolare di interazione fra il livello sociale e quello individuale è la percezione di una minaccia che si immagina di poter contrastare tramite l’aumento numerico del proprio gruppo. La “guerra delle culle” in corso fra Israeliani e Palestinesi è un caso da manuale e poco importa che, evidentemente, danneggi entrambi.
Livello sociale.
A livello sociale, i fattori che determinano la natalità sono prima di tutto la tradizione e la religione, che non necessariamente coincidono nei loro precetti. Per esempio, i contadini europei del XIII secolo erano cattolici come quelli del XIX, ma mentre i primi limitavano la propria natalità, sei secoli dopo i loro discendenti non lo facevano più. Oggi, quasi tutti i cattolici controllano nuovamente la propria riproduzione.
Correlati con la religione, vi sono poi anche altri importanti istituzioni sociali come, tipicamente, il monachesimo, maschile e femminile, che può ridurre drasticamente la natalità di una popolazione.
Un altro fattore sociale rilevante è il grado di preminenza dei maschi sulle femmine perché, di solito, le società a netta dominanza maschile sono più prolifiche, ma non sempre. Abbiamo conosciuto culture primitive assolutamente maschiliste in cui, però, la natalità era strettamente controllata.
Altro fattore importante è costituito dall’insieme dei rapporti familiari e, in particolare, dall’età media del matrimonio per le ragazze e dalla possibilità (od obbligo) per le vedove di risposarsi. Infine, non bisogna dimenticare il grado di accettazione sociale dei rapporti omosessuali e di pratiche, già citate, quali l’infanticidio, l’aborto e l’abbandono.
Infine, le consuetudini sociali sono importanti anche nel determinare le migrazioni. In alcuni casi, come il ben documentato caso delle polis greche, un certo numero di giovani veniva periodicamente mandato allo sbaraglio. Più comunemente, l’emigrazione massiccia è un’estemporanea risposta al superamento della capacità di carico del territorio ed è un’alternativa alla guerra civile. Ma anche la migrazione comporta sovente un elevata mortalità sia per i rischi del viaggio, sia per lo scontro con i popoli i cui territori si vogliono attraversare od acquisire. Non sempre, però. Talvolta la cosa può avvenire anche pacificamente.
A livello sociale, un ruolo fondamentale viene giocato anche dalla competizione interna al gruppo e fra gruppi.
All’interno del gruppo prevalgono i rapporti di collaborazione (altrimenti non vi sarebbe un gruppo), ma è sempre presente anche una certa competizione: per il rango sociale, per una maggiore fetta di risorse, per un avanzamento in carriera, per la ragazza più bella, ecc. A seconda di come evolve il rapporto fra densità della popolazione, tecnologia e risorse (v. seguito), la competizione può diventare abbastanza forte da ridurre le probabilità di sopravvivenza di alcuni membri a favore di altri. In casi limite, questo può evolvere in un vero conflitto, nel qual caso non esiste più una dinamica di gruppo, ma una dinamica di scontro fra gruppi.
Analogamente, anche i rapporti con gli altri gruppi umani possono evolvere in modi pacifici o violenti a seconda della struttura demografica e di quanto la popolazione si avvicina a alla capacità di carico. In linea generale, nelle società in cui la popolazione è relativamente stabile e lontano dalla capacità del territorio, competizione e conflittualità sono limitate sia all’interno del gruppo che fra vicini. Viceversa, un’elevata natalità è sempre un fattore altamente destabilizzante, molto spesso prodromo di una successiva fase di violenza, interna o esterna al gruppo.
Un altro fattore determinante per la dinamica della popolazione è il grado di complessità organizzativa. Esiste infatti una retroazione fortemente positiva fra una maggiore complessità, lo sviluppo di tecnologie più avanzate, la densità della popolazione e la quantità di risorse che il gruppo riesce ad accaparrarsi. L’insieme di questi elementi tende quindi a produrre una crescita esponenziale che, se non viene arginata in tempo da fattori sociali e culturali, porta fatalmente al collasso per carenza di risorse e/o degrado ambientale. In entrambi i casi, si verifica una brusca riduzione della complessità che, però, riduce il livello tecnologico e quindi l’accesso alle risorse, avviando una retroazione positiva analoga a quella che genera la crescita, solo che stavolta genere una decrescita esponenziale.
Infine, un fattore di cui oggi molto si parla è quello del grado di ineguaglianza all’interno del gruppo. Ogni società ha elaborato criteri propri per determinare quale sia il livello di ineguaglianza tollerabile, ma tutte hanno un proprio limite, superato il quale la classe dirigente perde di legittimità. Anche senza giungere a vere rivolte, il superamento di questo limite riduce la coesione e l’efficienza del gruppo, il che si traduce in una riduzione del flusso di risorse, quindi in un ulteriore impoverimento e quindi in una crescente conflittualità; eventualmente fino alla dissoluzione della società ed alla drasatica riduzione della popolazione.
Questo ci porta a considerare i fattori sociali che contribuiscono a determinare la mortalità, in primis il grado di violenza comunemente accettata all’interno del gruppo, così come i codici di comportamento che conferiscono rango sociale e prestigio personale.
Ancora più importante è la violenza fra gruppi e, nelle società primitive, si conoscono sostanzialmente tre tipi di conflitto.
La razzia, non è propriamente guerra in quanto ha come fine principale il furto di bestiame o di altri beni, usando soprattutto astuzia ed audacia. Il combattimento si tende ad evitare, ma può avvenire e se ci sono dei morti la razzia può degenerare in forme più violente di conflitto. Così come quando si rubano delle donne, specialmente se di alto rango.
La seconda forma, estremamente diffusa anche in società assai vicine alla nostra, è la vendetta. Vale a dire che, per ogni membro del gruppo che viene ucciso, i compagni si sentono in dovere di ucciderne uno del gruppo avverso. Queste cose facilmente diventano delle faide infinite, ma non sempre perché ogni tradizione prevede delle modalità per interrompere la catena tramite appositi accordi e rituali di pacificazione. Se si vuole.
Infine, il genocidio pare essere antico come la nostre specie, anche se non è la modalità di guerra più frequente. In questo caso, un gruppo attacca l’altro con la determinazione di ucciderne tutti i membri o, perlomeno, tutti i membri maschi.
Nelle società moderne, attualmente, prevalgono altre due forme di guerra.
La prima è la guerra asimmetrica, cioè fra una potenza militare e milizie locali o gruppi terroristici. Conflitti che raramente giungono ad una vera conclusione perché giocati assai più sul piano politico che su quello strettamente militare.
La seconda forma di guerra oggi più diffusa è una variante mitigata del genocidio arcaico che potremmo definire, con un termine d’autore, “pulizia etnica”; cioè l’uso del terrorismo per allontanare i gruppi rivali. In pratica, ne trucido 100 per farne fuggire migliaia.
Guerre ad elevata intensità fra grandi potenze non ne avvengono dal 1945, ma il potenziale distruttivo di un simile esempio è difficile da immaginare, anche senza il paventato ricorso alle armi nucleari. Se non altro, perché un conflitto di grande portata bloccherebbe quasi completamente il commercio globale, generando fenomeni di carenza estrema in tutti i paesi del mondo. Un conflitto di grande portata provocherebbe, insomma, una quantità di morti per fame e miseria difficile da immaginare, anche nei paesi non coinvolti.
Fattori ambientali.
Vengono subito alla mente le risorse vitali: cibo, acqua e riparo, ma la faccenda è molto più complicata. Intanto perché le società complesse hanno bisogni vitali tanto più estesi e articolati, quanto maggiore è il loro livello tecnologico. La civiltà industriali odierna sfrutta praticamente qualsiasi cosa esista.
Poi, bisogna considerare che quando le condizioni ambientali e sociali consentono ad alcuni soggetti, o gruppi, di accaparrarsi una dose di risorse maggiore rispetto ad altri, questi acquistano un vantaggio competitivo che può tradursi in una crescita demografica che, a sua volta, può danneggiare gli altri soggetti o gruppi vicini. Al limite, fino alla loro eliminazione per semplice occupazione della loro nicchia ecologica.
E’ dunque importante la disponibilità di risorse in rapporto al numero di persone, ma non solo. La distribuzione spaziale delle risorse è altrettanto importante perché risorse importanti e circoscritte conducono molto più facilmente a popolazioni instabili e conflittuali, mentre risorse scarse e diffuse tendono a favorire strutture demografiche più stabili e società meno conflittuali. Da notare che la distribuzione delle risorse può variare sia nello spazio (un pozzo, un campo, una miniera) che nel tempo (pascoli estivi ed invernali, migrazioni dei banchi di pesca, andamento dei monsoni, ecc.).
Inoltre, per la nostra specie, i limiti alla possibilità di sbarazzarsi dei rifiuti sono altrettanto importati dei limiti alla disponibilità di risorse,. Questo è sempre stato un problema serio per i gruppi umani stanziali e, in particolare, per quelli con elevate densità di popolazione. Oggi però il problema ha raggiunto dimensioni globali tali da alterare la fisica e la chimica dell’atmosfera e dell’idrosfera, scatenando un’estinzione di massa che, in fondo, altro non è che l’estremizzazione di una competizione mortale fra la specie umana e tutto il resto della Biosfera.
Un punto fondamentale di cui tener conto è che la riduzione del flusso di risorse genera un’evoluzione inversa a quello del suo incremento, ma non speculare ad esso. Un flusso di risorse in crescita consente, ma anche esige, un aumento della complessità tecnologica ed organizzativa. Quando questo flusso diminuisce, anche la complessità si riduce, ma spesso molto più rapidamente di quanto era stata prima costruita. E’il Picco di Seneca: il fenomeno descritto da Tainter dal punto di vista storico e da Bardi da quello termodinamico.
K, K* e Kf, una piccola sigla per una grande differenza.
Con K si indica la capacità di carico del territorio, cioè il numero massimo di persone che possono vivere sostenibilmente in una certa porzione di territorio. In altre parole, il limite superato il quale la gente scappa o muore.
Teoricamente è semplice, operativamente è complesso perché K dipende dalla combinazione di fattori demografici (natalità, mortalità, saldo migratorio), economici (consumi pro-capite e globali), tecnologici ed ambientali (funzionalità degli ecosistemi, risorse, rifiuti). La leggendaria formula I = PAT.
Per complicare le cose, tutti questi fattori sono strettamente interdipendenti tramite anelli di retroazione sia positiva che negativa. In pratica, lo stato di sovrappopolazione si diagnostica con certezza solo a posteriori, quando i danni sociali e ambientali sono evidenti.
Con K* si indica invece il numero di persone che costituiscono una popolazione in equilibrio grazie a propri meccanismi interni di controllo. Dunque il numero che la popolazione tende a mantenere grazie al prevalere dei limiti imposti dai fattori individuali e sociali visti in precedenza.
Sorprendentemente per alcuni, una modalità diffusa, anche se non universale.
C’è anche un terzo fattore, coniato da Catton e non utilizzato da altri, ma che è molto comodo per capire: la “Capacità di Carico Fantasma”, che qui indicheremo con Kf. E’ un fattore che dipende dalla complessità della tecnologia e dell’organizzazione sociale; che a loro volta dipendono dalla quantità di energia netta procapite che viene dissipata. Il tema è complesso, ma è stato già varie volte trattato su questo ed altri blog.
In pratica, dissipando più energia possiamo migliorare tecnologia e organizzazione, così da ampliare la nostra nicchia ecologica, necessariamente a scapito di quella di altre specie e popolazioni. Ne consegue che migliorare la tecnologia consente un incremento della popolazione anche duraturo, ma vincolato alla possibilità di mantenere quel livello di complessità e, quindi, quel flusso di energia. Se per una qualunque ragione si riduce il flusso di energia (al netto dell’energia dissipata per catturare e rendere disponibile l’energia), si riduce di conserva Kf, determinando condizioni di sovrappopolazione anche in assenza di crescita demografica.
Ma anche la stessa complessità può crescere al punto di determinare una perdita nell’efficienza con cui l’energia viene dissipata. Ciò provoca per altra via un calo nella disponibilità netta (anche a fronte di un maggiore consumo lordo) e dunque la necessità di ridurre la complessità, riducendo così il flusso di energia. L’elefantiasi della burocrazia è l’esempio classico a questo proposito.
Infine, ma soprattutto, l’ampliamento della nostra nicchia ecologica riduce la funzionalità degli ecosistemi da cui dipendono sia le risorse che lo smaltimento dei rifiuti, finanche la nostra stessa vita. Il degrado ambientale si traduce quindi in una riduzione della capacità di carico K, determinando ancora una volta condizioni di sovrappopolazione.
Fino ad un certo punto, la riduzione di K può essere compensata dall’aumento di Kf, ma con i costi ed i rischi cui si è fatto cenno. In pratica, tanto maggiore è Kf rispetto a K, tanto maggiore è il rischio di collasso repentino e catastrofico della popolazione.
Siamo in pericolo di estinzione?
Comincio a pensare di si. Sembra assurdo dire che sia in pericolo di estinzione la specie dominante del pianeta, che da sola (con i suoi annessi e connessi) costituisce circa metà della Biosfera ed il 98% della macrofauna terrestre. Ma proprio questa massa immane costituisce la maggiore minaccia al nostro futuro.Se fossimo rimasti un miliardo come eravamo due secoli or sono, nessun pericolo avrebbe potuto minacciare l’umanità. Ma abbiamo scelto un’altra strada che non è detto porti all’estinzione, ma di sicuro porterà ad un drastico ridimensionamento del nostro numero, del nostro impatto e del nostro orgoglio.
Post bello ed interessante. Grazie Simonetta per averlo condiviso
Grazie a te per la pazienza dimostrata!
Uno dei migliori e piu’ chiari articoli pubblicati su questo blog , che deve aspirare a informare in maniera concisa un pubblico interessato all’argomento della viabilità della nostra specie il cui successo stesso sta minando la stessa.Bravo Jacopo !
È fortemente religioso: Per esempio, i contadini europei del XIII secolo erano falsi cattolici ma praticavano culti eretici di nascosto e non come quelli del XIX che erano bigotti, quindi mentre i primi limitavano la propria natalità, sei secoli dopo i loro discendenti non lo facevano più. Oggi, quasi tutti i cattolici sono falsi (non sanno ripetere i 10 comandamenti ma sanno tutto del Codice della Strada) controllano nuovamente la propria riproduzione.