Recentemente, l’Università di Pisa ha avviato un interessante progetto di ricerca, chiamato “Ecoesione”. In sintesi, si tratta di capire quali impatti sociali negativi potrebbero venire da effettive politiche di contrasto al cambiamento climatico per poterli prevenire o, perlomeno, mitigare e gestire, evitando l’esplodere della violenza.
Trovo la cosa molto interessante perché, anche se i pareri su quali provvedimenti siano necessari spesso divergono, tutti concordano che siano indispensabili ed urgenti cambiamenti drastici e rapidi a tutti i livelli ed in tutti i settori. Ed ogni volta che qualcosa cambia, qualcuno ci guadagna ed altri ci perdono, sempre. E’ quindi normale che i perdenti si oppongano con tutti i mezzi a loro disposizione e non è neppure detto che abbiano tutti i torti.
Per esempio, i disordini fomentati dai “Gilets Jaunes” hanno finito con l’essere strumentalizzati dall’estrema destra, ma non erano nati per questo e, neppure, sono stati una banale rivolta contro le politiche di contrasto al GW, come qualcuno ha detto. La rivolta aveva infatti radici profonde nella discriminazione molto francese fra Parigi e “provincia”, nell’impoverimento della piccola borghesia e dei lavoratori, nel venir meno di molti servizi in vaste zone della Francia rurale; per non parlare dell’atteggiamento spesso spocchioso di Macron. Insomma, il rincaro del prezzo del gasolio è stata la classica “goccia che fa traboccare il vaso” per una massa di persone che già vive in condizioni disagiate e che per le proprie necessità (lavoro, acquisti, scuola, ecc.) dipende interamente da vecchie macchine diesel che non si può permettere di cambiare.
Il progetto dell’Unipi si prefigge esattamente questo: evitare errori di questo genere.
Partecipare come “stakeholder” alla riunione di avvio ufficiale del progetto mi ha suggerito tre domande che, credo, sarebbe utile discutere proprio approfittando dello staff d’alto profilo schierato per questo progetto. Le tre domande che pongo sono queste: 1 – Crescita o non crescita? 2 – Quanta decrescita e per chi? 3 – Superare il capitalismo?
In rapporto ad ognuna avanzerò alcune osservazioni in tre puntate per ridurre il tedio degli eventuali lettori. Si tratta di cose ben note, ma che in molte discussioni si tende a dimenticare.
1 – Crescita o decrescita?
Konrad Lorenz fece notare che l’uomo odierno è tenuto in scacco da una serie di atteggiamenti mentali profondissimamente radicati in ognuno di noi, forse addirittura a livello genetico. Atteggiamenti che in passato hanno favorito il successo della nostra specie, ma che nel contesto attuale la stanno invece portando diritta verso il disastro. Fra questi, dedica un capitolo all’ Amore per la Crescita. Niente ci da gioia come vedere crescere ciò che si ama: la propria famiglia, il gregge, i libri della biblioteca, il conto in banca, i fiori del giardino e qualunque altra cosa cui teniamo.
In relazione alla crescita economica, a questa atavica passione si aggiunge l’oggettiva esperienza dei vantaggi indiscutibili materiali che questa porta con sé.
Per questo, di solito, i promotori di una qualunque variante di “transizione ecologica” parlano apertamente di “crescita verde” o, perlomeno, lasciano intendere che sia possibile salvare la Biosfera ed il clima, pur rilanciando quella crescita economica che dovrebbe risolvere tutti i nostri problemi. Siamo sicuri che sia possibile e, se si, che sia compatibile con lo scopo prefissato di fermare la catastrofe ambientale planetaria? L’argomento ha una valenza politica di primo livello ed è infatti molto dibattuto, spesso trascurando alcuni fattori particolarmente sgradevoli, ancorché noti.
- Limiti delle energie rinnovabili. Troppo spesso si da per scontato che le energie rinnovabili possano sostituire quelle fossili semplicemente mediante sufficienti investimenti, ma non è così.
Innanzitutto, per essere usata, l’energia deve essere prima concentrata cosa di cui, nel caso delle fossili, si sono incaricati i movimenti tettonici nel corso di milioni di anni. Nel caso delle rinnovabili dobbiamo invece farlo noi mediante opportuni mezzi tecnici che ci sono, ma che occorre pagare e che, per funzionare, dissipano parte dell’energia captata. Non possono quindi avere lo stesso rendimento termodinamico delle fossili.
In secondo luogo, sono intermittenti e necessitano quindi di opportuni sistemi di accumulo ed una forte ridondanza di tutte le strutture. Le tecnologie disponibili sono molte ed efficaci, ma tutte comportano un aumento dei costi e dei materiali impiegati, una perdita di efficienza ed un aumento degli impatti ambientali.
Anche le energie rinnovabili hanno infatti degli impatti ambientali sia diretti (per esempio la distruzione di intere valli, fiumi e torrenti mediante le dighe), sia indiretti per l’estrazione e la lavorazione dei materiali con cui vengono costruite e manutenzionate. Oggi sarebbe impossibile realizzare e mantenere efficienti impianti fotovoltaici, dighe e pale eoliche senza disporre di grandi quantità di energia fossile a buon mercato. In futuro potrebbe forse cambiare, ma si entra nel campo della fantascienza.
Infine, oggi le energie fossili coprono poco meno dell’80% dei consumi globali, il legname (la cui rinnovabilità è molto parziale) un altro 9% ed il nucleare poco più del 2 %. Complessivamente, le rinnovabili vere coprono meno del 10% dei consumi attuali (il fotovoltaico circa lo 0,1%). Non è quindi pensabile una vera transizione energetica senza una molto sostanziale riduzione dei consumi finali, mentre questi continuano ad aumentare. Infatti, ed è il punto più critico di tutti, finora le nuove fonti energetiche non hanno sostituito quote di energia fossile, ma si sono aggiunte a quelle, comunque in crescita. Ma l’impatto complessivo, non solo climatico, dell’umanità sul Pianeta dipende prima di tutto proprio dalla quantità complessiva di energia che dissipiamo. - Limiti del disaccoppiamento. Secondo la vulgata, la chiave per mantenere, anzi migliorare le condizioni di vita dell’umanità e, contemporaneamente, ridurre i consumi di energia è il progresso tecnologico che assicurerà un crescente disaccoppiamento. Vale a dire una maggiore produzione di beni e servizi a fronte di minori consumi.
Una approfondita metaricerca ha però dimostrato che si tratta in buona misura di leggende metropolitane. In realtà, i casi documentati di effettivo disaccoppiamento sono molto pochi e molto parziali. Al massimo, abbiamo un lieve disaccoppiamento relativo, vale a dire che i consumi crescono meno della produzione, ma crescono comunque e noi li dobbiamo ridurre.
Si potrà obbiettare che, anche se un vero disaccoppiamento non si è ancora visto, l’efficienza della produzione è comunque aumentata e continua ad aumentare, permettendo di contenere la crescita dei consumi, tanto di energia quanto di materiali (la cosiddetta “dematerializzazione”). Ma anche questo non è vero, se non forse, in qualche caso. Il punto qui è il cosiddetto “effetto rebound” (alias “Paradosso di Jevons”). L’osservazione empirica dei dati storici, dall’introduzione del motore Watt nel 1782 ad oggi, dimostra che l’effetto è anzi contrario: l’aumento dell’efficienza riduce i costi di produzione e di uso di beni e servizi, così da renderli disponibili per masse crescenti di persone. Il risultato finale è quindi un aumento e non di una riduzione dei consumi di energia e materiali. Questo operando in un’economia di mercato; cambiando il contesto politico ed economico le cose potrebbero anche andare diversamente e questo ci rimanda alla terza domanda.
Comunque, anche al di la delle esperienze finora maturate, ci sono vincoli fisici invalicabili che ci assicurano che un vero disaccoppiamento non è fattibile, perlomeno non su di una scala neppure lontanamente prossima a quella necessaria. L’unico modo per ridurre i consumi in misura adeguata è quindi ridurre considerevolmente la produzione di beni e servizi, una faccenda molto spinosa da proporre ed ancor più da gestire anche perché accadrà comunque, anzi sta già accadendo in buona parte del mondo, malgrado gli sforzi dei governi. - Limiti dell’economia circolare. Il secondo pilastro su cui si regge il sogno di una “green economy” è la chiusura dei cicli produttivi mediante il completo riciclaggio dei rifiuti. E’ certamente vero che in questo campo ci sono ampi margini di miglioramento (a condizione però di ristrutturare radicalmente il mercato e la fiscalità), ma un riciclaggio del 100% non è possibile neppure in via del tutto teorica. Ad ogni ciclo una parte del materiale va inevitabilmente perduto, quali che siano le tecnologie usate ed i finanziamenti disponibili. Perciò un’economia circolare è necessariamente un’economia che utilizza una quantità costantemente decrescente di materiale, oppure che preleva una quantità crescente di materie prime in natura.
Naturalmente non tutti sono d’accordo e molti sostengono che invece è possibile perché il progresso tecnologico consente di ridurre progressivamente la quantità di materiali usati per ogni singolo oggetto. Il che è vero, ma il vantaggio si perde se si fabbricano più oggetti per più persone. Non solo: la riduzione della quantità di materiale incorporato in ogni singolo oggetto ha talvolta effetti deleteri sulle possibilità di riciclare i medesimi.
Insomma, si potrebbe fare molto per ridurre l’estrazione di minerali, biomassa, ecc. dall’ambiente, ma anche da questo punto di vista, per tornare veramente entro dei limiti di effettiva sostenibilità, bisognerebbe pianificare una consistente contrazione della produzione, con tutto ciò che ne consegue. - Limiti non energetici all’economia. I sostenitori del Green New Deal si focalizzano soprattutto sull’energia. Giustamente perché senza energia non si fa nulla, ma esistono anche altri limiti all’economia. Due di cui si parla comunque assai sono la disponibilità di materie prime e la capacità di smaltire i rifiuti, ma ne esiste un altro di cui non si parla praticamente mai: l’integrità funzionale della Biosfera che ci assicura quelli che riduttivamente chiamiamo “servizi ecosistemici”. Sono questi, infatti, che assicurano non solo la disponibilità delle risorse rinnovabili, l’assorbimento della CO2, la trasformazione dei rifiuti e molto altro, ma soprattutto consentono che sulla Terra si mantengano condizioni chimiche e fisiche compatibili con la vita biologica. Per essere chiari, il collasso della Biosfera (forse già iniziato e certamente non lontano) comporterebbe (o comporterà?) anche l’estinzione della nostra specie o, perlomeno, la scomparsa definitiva dei presupposti per l’esistenza di una qualunque civiltà.
Civiltà senza petrolio ce ne sono infatti state migliaia; invece civiltà senza acqua, suolo, foreste, biodiversità, ecc. non ce ne sono mai state, né mai ce ne saranno. Anzi, sono molte quelle che si sono estinte proprio perché hanno eccessivamente degradato la Biosfera nel loro territorio. La differenza è che finora si è trattato di catastrofi locali o regionali, mentre oggi qualcosa del genere sta avvenendo a livello planetario.
In definitiva, direi che la risposta alla prima domanda è che pianificare una robusta contrazione dell’economia sia una condizioni necessarie affinché un progetto di transizione sia realistico. Ciò condurrebbe sicuramente al conflitto, solo che ogni altra possibile strategia è destinata al fallimento e dunque ad un conflitto ancor più grave. Il che ci porta alla prossima domanda: Quanta decrescita e per chi? Ne parleremo la prossima settimana.
Avrei preferito leggere quest’articolo tutto in una volta, non a puntate. Credo che chi frequenta questo sito abbia maggiore capacità di concentrazione dell’utente medio dei social.
Vabbè, pazienza. Grazie comunque, Jacopo.
interessante e chiaro. aspetto il seguito. tanto per curiosita ho provato a calcolare il mio bilancio carbonio su un sito svizzero. risultato e che pur facendo la meta del carbonio del cittaino svizzero medio ne faccio il doppio di quel che e sostenibile…. e dio sa se ci sto attenta!
Riprova con dati di fantasia sempre più bassi, vedrai che non ce la puoi fare. Non esiste il modo di far vivere decentemente 8 miliardi di persone, se non in via del tutto temporanea ed a costo di distruggere l’umanità, ancor prima del pianeta.
https://www.wwf.ch/it/vivere-sostenibile/calcolatore-dell-impronta-ecologica
Ilaria
Era questo?
Piano, io ho totalizzato 1,35 pianeti. E non faccio niente di speciale per meritarmi le congratulazioni dal sito del wwf. Unica cosa sono quasi vegano, uso poco l’auto in quanto pensionato, non viaggio in aereo o in nave. Per il resto niente di particolare. Non ho la sensazione di fare rinunce. Volendo tutti ce la possono fare, almeno stando a quei parametri. Il problema è che per varie ragioni che non riesco a comprendere, non lo fanno.
Ho provato anche io e mi ha dato ad 1,23 pianeti, con tutto che sono una specie di monaco pazzo.
Quanto saranno credibili gli 1.09 pianeti del cubano medio del 2016 secondo il global footprint network ?
Sarebbero un riferimento per il livello di consumi sostenibile per 7.4 mld / 1.09 = 6. 8 mld di persone circa.
Cioè 6.8 mld di persone che consumassero quanto un cubano medio del 2016 “non genererebbero” overshoot.
Assumendo un pianeta con 8 mld di persone che consumano quanto un cubano medio del 2016 ci vorrebbero 8/6.8 = 1.18 pianeti. Quasi quanto un “monaco pazzo” 😉
7.4 mld: popolazione mondiale del 2016
1.09: numero di pianeti necessari se consumassimo come un cubano medio del 2016
Cmq la mia impronta è 1.54 pianeti…
Francesco P.
Beh, son comunque stime da prendere con le molle. Comunque è interessante che nemmeno un mondo popolato di cubani sarebbe sostenibile con più di 6 miliardi di persone. Tutto sommato, anche la mia sparata di uno standard di vita moldavo è sovrastimata, con 8 miliardi di persone. C’è anche da dire, però, che con standard cubani o moldavi gli 8 miliardi diminuirebbero rapidamente, soprattutto in occidente, dove siamo in maggioranza vecchi, ed in vaste zone dell’Africa, dove avrebbero molto poco da mangiare.
Post interessante, mi chiedo come mai, non sia stato messo al primo punto, la necessità di finanziare da ONU (una tardiva) politica di controllo demografico in Africa. Una bomba demografica africana da 1.5MLD nel 2050 causerà problemi insolubili ed ingestibili per gli europei. Tuttavia, è preferibile per l’Europa, trovarsi di fronte ad un contesto insolubile con 1.5 MLD di persone, piuttosto che gli stessi problemi esplosi in 2.4 MLD dove la demografia africana è proiettata in appena 30 anni.
Scusate sono ignorante, ma mi chiedo:
i risultati dei test personali nel mondo più ricco risentono di un modello di vita più industrializzato e finalizzato al consumo, mentre nei paesi più poveri alle loro pratiche quotidiane legate ancora al consumo di risorse fossili (per cucinare e illuminarsi ancora milioni di persone non hanno a disposizione energia da fonte rinnovabili – noi sì e stiamo iniziando ad usufruirne) moltiplicate per la loro densità di popolazione. Quindi noi dobbiamo vivere in modo più sobrio e con abitudini di mobilità e un industria più sostenibile, mentre in Africa c’è da sfruttare il Sole per aiutare loro, (ma anche tutto il mondo) a vivere in modo più sano e dignitoso.
https://www.avvenire.it/mondo/pagine/frenare-il-riscaldamento-possibile-i-mezzi-ci-sono-una-scelta-politica
Altrimenti questi test footprint servono a scoraggiare piuttosto che ad incoraggiare il cambiamento di nuovi stili di vita perchè sembra che si concentrano su una questione che non è al nocciolo del problema … o sbaglio?