La COP 26 si è conclusa con l’ennesimo annuncio-farsa, mentre praticamente tutti i governi coinvolti fanno a gara per aumentare i propri consumi di energia. Gli Usa mettono all’asta nuove concessioni petrolifere, la Cina riapre le vecchie miniere di carbone, il Brasile incrementa il disboscamento e via di seguito; ce ne è davvero per tutti. Come da copione. E come da copione è esplosa l’indignata protesta degli ambientalisti nei paesi in cui questo è ancora consentito. Ma sulla scorta dei miei 40 e passa anni di militanza ambientalista, questa volta non mi sono unito al coro.
Certo, la classe dirigente mondiale si è dimostrata per l’ennesima volta incapace di elaborare una “exit strategy” dal vicolo cieco in cui ci troviamo. Duole, ma non sorprende, visto che per fare carriera all’interno di un paradigma lo devi interiorizzare ed è questo uno dei motivi per cui la classe dirigente è perlopiù composta dalle persone meno idonee a dirigere una società che incappa nei limiti del paradigma dominante. Del resto, è ben difficile che chi gode dei privilegi prodotti da un dato sistema si adoperi per cambiarlo. Per non parlare del fatto che anche fra i “grandi della terra” ci sono sicuramente un certo numero di stupidi, ignoranti e/o venduti; così come in tutte le stanze del potere, sia politico che economico, dal G20 giù, giù fino al municipio del mio paesello. Niente di tutto ciò è una novità.
Ma se questi sono “loro”, non è che “noi” (prego notare le virgolette) si stia poi tanto bene. In rapida successione mi è toccato assistere ad una considerevole serie di exploits da parte di movimenti ed associazioni “ambientalistissime”: dalla tradizionale negazione del drammatico problema della sovrappopolazione, a manifestazioni di piazza contro l’istituzione di parchi e riserve; dall’annuncio di gite con “spettacolare vista sugli agri marmiferi”, alla visita guidata in una riserva integrale con il principale responsabile del degrado della medesima nel ruolo di “cicerone”. E l’elenco si potrebbe allungare parecchio. Cosa ci sta succedendo? Di sicuro l’ambientalismo militante ha perso la bussola, ma neanche questa, purtroppo, è una novità.
A distanza di quasi 30 anni, il movimento ambientalista nel suo insieme è infatti ancora infestato dallo spettro di Rio. Ve lo ricordate il grandioso “Earth Summit” nel 1992? Una data da ricordare perché quella fu la tomba del movimento ambientalista. Non solo e non tanto perché le sue conclusioni, pur contenendo alcune idee interessanti, mancavano largamente di coerenza con gli obbiettivi dichiarati e, ancor più, con quelli necessari. La vera sconfitta fu che, al netto di qualche “cane sciolto”, il mondo ambientalista applaudì l’evento come un grande successo, anziché denunciarlo per quello che fu: una gigantesca operazione di immagine, destinata a confermare e non a cambiare i fondamentali del paradigma culturale, politico ed economico che ha condotto la civiltà industriale al disastro.
Da allora sono passati 30 anni e nel frattempo ci sono due miliardi e mezzo di persone in più sulla Terra, il tasso di estinzione è in continua crescita, il clima sta peggiorando a vista d’occhio, in mare c’è più plastica che pesce, eccetera. Ma ora come allora siamo qui a volere la botte piena e la moglie ubriaca. Vale a dire che pretendiamo un mondo in cui un numero indefinito di persone godono di pace, giustizia e benessere, mentre tutto intorno zampillano fonti argentine, frusciano le chiome delle foreste, cinguettano gli uccelli. La transizione la vogliamo a tempo di record: in 10 anni si deve fare quello che non è stato fatto in 50, ma nessuno deve soffrire, anzi tutti devono stare meglio tranne, eventualmente, un manipolo di plutocrati globali che devono pagare il conto per tutto questo.
Mi domando: tutto ciò è utile?
La protesta è sacrosanta perché davvero siamo ostaggio dei plutocrati ed i governanti del mondo ci stanno menando per il naso, ma senza una strategia la protesta serve, nella migliore delle ipotesi, a dare sfogo alla propria frustrazione; nella peggiore rinforza, anziché indebolire il regime, quando non rischia di generarne uno ancor peggiore.
Fra l’altro, una strategia comporta avere una scala di priorità chiara, coerente e finalizzata. Per esempio, è più importante ridurre rapidamente le emissioni climalteranti, regolare le responsabilità storiche dei vari paesi, assicurare servizi di base alla popolazione, punire i responsabili principali del disastro in corso, evitare esodi biblici, scongiurare guerre, rallentare il tasso di estinzione, mitigare la desertificazione o che altro ancora? Ovvio che tutti questi punti sono desiderabili, ma quale viene per primo? Ci saranno situazioni in cui due o più obbiettivi saranno sinergici o, almeno, compatibili, ma altre in cui si dovrà scegliere ed in questi casi cosa si salva e cosa si sacrifica?
Lo stesso vale con i mezzi da impiegare per raggiungere lo scopo stabilito. Per continuare con l’esempio del clima, si deve puntare soprattutto sulla riduzione dei consumi energetici o sull’installazione di pannelli solari e pale eoliche? Oppure sul rimboschimento? O magari sul blocco dei tagli boschivi? O eliminare gli allevamenti intensivi? O forse estendere i parchi e le riserve naturali? Bisogna razionare determinati prodotti e servizi, oppure tassarli?
Perché non solo tutto insieme non si può fare, ma soprattutto queste strategie sono solo parzialmente sovrapponibili e le conseguenze di una scelta spostano necessariamente sia gli effetti ambientali, sia quelli sociali ed economici. Soprattutto, le scelte spostano il carico degli “effetti collaterali” dalle spalle di certuni a quelle di certi altri. Proprio quegli effetti collaterali che, quanto più si temono, tanto più si cerca di esorcizzare ignorando il nocciolo della questione: se vogliamo salvare la Biosfera (di cui siamo parte integrante) dobbiamo ridurre drasticamente e molto rapidamente la tecnosfera. Il che vuol dire meno gente, meno consumi, meno tecnologia con tutte la conseguenze ed i grandissimi rischi che questo comporta. Ci sono, certamente, dei margini di manovra e anche delle opportunità di miglioramento in alcune nicchie, ma nell’insieme non può essere indolore.
Il terzo e fondamentale pezzo di una strategia efficace è infatti capire quale sia il prezzo, non solo monetario, che i cambiamenti auspicati comporterebbero perché non esiste che, oggi, si possa fare o disfare qualcosa senza che molta gente ne soffra. Dunque bisogna metterlo in conto e vedere, se del caso e se possibile, come mitigare le sofferenze senza che questo vanifichi l’azione. So bene che questa è la parte più difficile; che è più facile convincersi che si possa fare tutto senza che nessuno si faccia male, ma questo significa che la menzogna non è solo da una parte, cosciente o meno che sia.
La politica è prima di tutto una faccenda di priorità e volere tutto serve solo a contrapporre un diverso blablabla a quello con cui i governi ci stanno sfibrando.
Tanto più che, sono convinto, la maggior parte di coloro che manifestano sono sì preoccupati per il clima o esasperati dal Covid, ma soprattutto sono esausti, frustrati ed infuriati. Esausti per decenni di crisi economica, stipendi in calo, precarietà ed inflazione, servizi pubblici ridotti, tasse in aumento ed tutto che diventa di giorno in giorno più difficile e farraginoso. La sensazione di sprofondare lentamente nelle sabbie mobili è sempre più diffusa.
Frustrati dal vedere inutile ogni appello, ogni proposta, ogni ragionamento, ogni tentativo: il muro di gomma è sempre più impenetrabile. Ed infuriati nel vedere che, mentre “noi” stiamo sempre peggio, “loro” se la passano sempre meglio.
Un cocktail che in altri paesi è già esploso in rivolte e guerre civili. In Europa ancora no e forse non lo farà, ma sta comunque generando un tale smarrimento che vediamo ambientalisti manifestare contro la protezione della natura e persone che rivendicano la propria libertà violata invocando Mussolini; oppure persone che confondono il “greenpass” con la Shoah. Frange, certo, ma che non sono state immediatamente e violentemente censurate dai loro sodali perché, mi si dice, dobbiamo restare uniti. Per forzare la mano ai governi è necessario infatti accorpare una massa critica raggiungibile solo aggregando persone e movimenti di origini, opinioni e propositi diversi, altrimenti resteremo sempre uno sparuto ed elitario gruppuscolo di intellettuali.
E’ vero, ma a queste condizioni, ne vale la pena?
Per molti anni anche io ho pensato di si, ma comincio a cambiare idea perché dare ragione a tutti, purché siano “contro il sistema”, serve solo a distillare un “minimo comune multiplo” che è l’opposto di una strategia. Un’amalgama in cui proprio le posizioni ambientaliste sono quelle che per prime sfumano in un generico “verdismo” che non ha niente da invidiare al greenwashing operato dal potere. Non vedo come altrimenti si potrebbero spigare gli eccessi poch’anzi citati e, soprattutto, il fatto che, ancora oggi, nessuna organizzazione ambientalista rilevante ha denunciato il Summit di Rio con annessi e connessi per il clamoroso fiasco che fu.
Così, mentre i governi stringono le viti del controllo e della repressione, vediamo persone che, in nome e per conto della Libertà, inneggiano a personaggi e governi, attuali e passati, che sono o somigliano molto a dittature; molte delle quali nate proprio dalla capacità di soggetti poco scrupolosi di catalizzare a proprio vantaggio il pubblico smarrimento. Uno smarrimento che il proliferare di menzogne sempre più credibili e di fatti sempre più incredibili non possono che accrescere.
Tanto le maggioranze, quanto le opposizioni, sembrano quindi convergere verso forme di governo che mantengono l’apparenza delle istituzioni democratiche postbelliche, ma che in realtà sono controllate da oligarchie plutocratiche ben attente a puntellare il vacillante capitalismo. Guidate però da personaggi abili nel vendersi come “uno del popolo” o, magari, “l’uomo forte che farà pulizia”. Orban, Bolsonaro e Trump sono solo alcuni degli esempi di spicco.
Non è detto che debba andare così dovunque, la politica è solo parzialmente soggetta a leggi naturali dagli esiti prevedibili. Tuttavia, questo contesto è quanto di più lontano si possa immaginare da quella che dovrebbe essere una vera “onda verde”, basata cioè sulla consapevolezza che l’antroposfera deve essere ristretta il più rapidamente possibile: un processo doloroso ed incerto, ma necessario perché ogni alternativa possibile è peggiore. Non si tratta quindi più, come in passato, di organizzarsi per costringere l’élite a condividere la ricchezza, bensì per costringerla a condividere una povertà che sia gestita e finalizzata a salvare il salvabile del nostro pianeta e non, come ora, un mezzo per spremere ancora qualche punto di PIL da un sistema in agonia. Un compito per il quale, apparentemente, nessuno è preparato.
“Senza una forte ventata di opinione pubblica mondiale, alimentata a sua volta dai segmenti più creativi della società – i giovani e l”intellighenzia’ artistica, intellettuale, scientifica, manageriale – la classe politica continuerà in ogni paese a restare in ritardo sui tempi, prigioniera del corto termine e d’interessi settoriali o locali, e le istituzioni politiche, già attualmente sclerotiche, inadeguate e ciò non pertanto tendenti a perpetuarsi, finiranno per soccombere. Ciò renderà inevitabile il momento rivoluzionario come unica soluzione per la trasformazione della società umana, affinché essa riprenda un assetto di equilibrio interno ed esterno atto ad assicurarne la sopravvivenza in base alle nuove realtà che gli uomini stessi hanno creato nel loro mondo” . (Aurelio Peccei)
Caro Jacopo, non sei il solo ad essere incazzato e anche questo non è nulla di nuovo, Peccei aveva visto giusto, ma anche lui non poteva essere tanto più esplicito, ne tantomeno incazzato. Conosceva bene come funzionava il sistema economico di cui anche lui era figlio, sapeva benissimo che i politici non contato una mazza dal punto di vista decisionale, il loro lavoro è raccogliere voti, punto, e per far questo sono pagati, non per fare scelte economiche, strategiche, militari ne tantomeno politiche. Detto questo non possiamo neppure aspettare la rivoluzione del genero umano prevista da Peccei, che non arriverà mai e comunque prima vedremo i robot umani, controllati da cip inseriti da qualche parte nel cervello, abbiamo visto come hanno potuto controllare la mente dei terroristi attraverso pilloline colorate tipo smarties. La storia si ripete https://it.wikipedia.org/wiki/Assassino e noi ora siamo qui a sperare che arrivi la rivoluzione….Ciao
Personalmente, non spero affatto in una rivoluzione. Di solito fanno peggio, ma se si creano le condizioni adatte, poi arrivano. Per nostra fortuna, l’Europa è in questo periodo poco idonea alla scoppio di vere rivolte. Ma sa una rivolta non risolve, neppure la mancanza di essa lo fa. Sembra che seguire il corso naturale degli eventi sia l’unica cosa che siamo in grado di fare, ma non è mai detto.
Secondo me le persone inneggiano alla rivoluzione perché così intanto non devono fare nulla.
Come fai notare in conclusione, il sistema è in agonia. Tutti i bei programmi e progetti che noi e “loro” possiamo immaginare si scontreranno coi limiti della crescita, con l’enorme debito pubblico e privato, con la scarsità di risorse. Sarei molto stupito se la giostra resistesse ancora un decennio. Certo entro due ne resterà poco o nulla.
Parole sante, il negazionismo verso la demografia fuori controllo e qualcosa di mostruoso, e proprio vero che Dio acceca i suoi nemici per eliminarli. Ho tentato dozzine di interventi su radio e giornali, niente, censura totale. Facciamo qualcosa noi.uniamo i ns sforzi.
Da queste parti Legambiente, del tutto assente, complice o incapace quando si tratta di protestare contro un parcheggio o il mini idroelettrico, si è messa a fare campagna a favore dei richiedenti asilo e del loro inserimento sul territorio.
Ora, a me sta benissimo che le persone si rifiutino di veder morire di fame o di freddo esseri umani in condizioni di difficoltà. Però questa battaglia non c’entra niente con l’ambientalismo, la dovrebbero fare a livello personale o tramite altre associazioni. E, soprattutto, che ci si possa dire ambientalisti e al tempo stesso non capire che in Italia, e ancor più in montagna, non c’è spazio per altra gente, è davvero assurdo.
Per tutti scelgo il colibrì
per la sua arte di librarsi
dal fiore scelto in retromarcia
e per l’incanto iridescente
che a noi volando infonde
superiore al metallico riflettere
se è vero che da rettili discende
esseri dal fascino mostruoso
e parente ancora adesso
di coccodrilli e tartarughe
allora in questo buio da noi steso
nel quale svaniscono esistenze
tutte stupende in qualche modo
sopporto questo stupido oscurare
chè non può sopprimere i bagliori
dell’aurora emergente prossima
voi tutti che volate pure goffamente
e dai dinosauri ereditate arti
in volteggi d’aquila di condor
in coreografie di storni le sfoggiate
insistete ostinati con noi ottusi
affinchè noi si ritrovi l’equilibrio
ho scelto il vostro ambasciatore
per ammettere che desideriamo tregua
e a bordo di silenziosi alianti
d’ora in poi vorremmo veleggiare.
Marco Sclarandis
Riguardo alla citazione di Peccei, per me è sbagliata: i giovani sono idealisti ma non hanno esperienza, e l’intellighenzia fa battaglie da posizioni di privilegio e alle spalle di quelli che poi ne fanno le spese (vedere gilet gialli in Francia, o la questione del rewilding, scaricata su territori marginali e sulle popolazioni povere ma produttive mentre chi lo propone non vede cambiare di una virgola il proprio tenore di vita e le proprie comodità).
Senza coinvolgere operai, contadini, fattorini, infermieri, piccoli esercenti e produttori, non si fa altro che proporre politiche che li danneggiano senza offrire nulla in cambio.
L’unico modo accettabile di cominciare la transizione è farla partire dall’alto, nel senso di togliere a chi ha di più e non ne risentirebbe troppo, e poi via a scendere. Altrimenti la vedo dura.
Alcune idee: pesanti tassazioni sul carburante degli aerei e sulle seconde case o sulle case molto grandi, redistribuzione dei redditi o meglio ancora riduzione dei super-stipendi nei settori in cui è il pubblico a elargirli o favorirli, tassazione delle rendite finanziarie, patrimoniale sulle grandi eredità, stop ai bonus sui consumi, di cui beneficiano sproporzionatamente i ricchi…
… e ovviamente basta con questa idolatria della crescita come soluzione a tutti i mali, come bene assoluto dato per scontato…
(Non so se avete notato ma adesso il problema della pandemia, della disoccupazione, o di qualsiasi altra difficoltà che dobbiamo affrontare non è che queste cose ci fanno morire o stare male, ma che “danneggiano la crescita”… siamo a questo punto)
Cioè: costringere l’élite a condividere una povertà gestita e finalizzata. Giusto?
Ni, nel senso che forse non dovrebbe essere per forza povertà, non quella vera per lo meno.
Non ci serve tutta quella valanga
di merce che ci propini e proponi
con quel sordido grigio sorriso
stampato su ogni tuo imballo
derivato da quella freccia deforme
che il cuore vorrebbe colpire
ma in fondo punge solo budella
quando scontati ci offrivi dei libri
il tuo commercio onesto appariva
ora ci vorresti clienti per tutto
dal concepimento alle esequie
ogni giorno ogni mese ogni anno
e se potessi riuscirci ci venderesti
i nostri stessi sfuggenti pensieri
tu devi essere pazzo davvero
pur non sembrando dato il successo
ma la tua è una triste insana follia
identica a quella dei tiranni dei despoti
che si saziano solo quando trasformano
esseri umani in meccanismi automatici
che ti hanno fatto i tuoi avi i coevi
per mutare il tuo animo in mostro
i cui occhi contemplano solo l’accumulo
che ne farai di denaro inspendibile
su un pianeta ridotto a discarica
che ne farai della tua gloria acquisita
quando l’Amazzonia sarà devastata
da chi come te idolatra il mercato
ma non quello che rallegra le piazze
i vicoli la gente con il senso del limite
quello invece che il prezzo darebbe
anche alle salme abbandonate degli angeli
se per disgrazia qui sulla terra morissero
pensaci un attimo che non costi nulla
capirai perché è inutile tutta quella valanga
di merce stivata nei tuoi magazzini.
Marco Sclarandis
Sempre fantastico Marco
Grazie
Primo, grazie davvero al poeta del gruppo.
Secondo, riguardo ai punti sollevati da Jacopo: mi soffermo sulla questione principale del post, ovvero “Ovvio che tutti questi punti sono desiderabili, ma quale viene per primo?”
Ebbene, risposta immediata e prevedibile (non infondata!): DIPENDE DA CHI lo deve sostenere.
Trovo quantomeno comprensibile, che (al di là dei profittoni d’ogni risma) la gente dica: esigiamo che si trovi prima il mitico “Capitalista” a doverlo sostenere. Vien da sè, poi, che fermandosi a questo si finisca sempre col rimandare le soluzioni… a quando quest’ultimo abbia fatto passi indietro (e di solito li fa dopo aver trovato altre fonti di guadagno ancor più proficue).
Quel che può fare la differenza, semmai, è il come se ne esca rispondendo al solito “che fare?” e al modo concreto di organizzarsi della catena conoscenza-convinzione-consenso-elezione-potere politico-rapporti col potere efficace (spesso distinto e ben più alto da quello politico).
Chi pretende di agire solo su un anello di quella catena, non potrà mai agire davvero sulla catena, perchè finirà lui stesso ad essersene incatenato, non solo a causa di chi la catena gliela attorciglia a tradimento. O a frantumarsi i denti nel morderla sul punto più duro e lontano dalla libertà.
Ecco perchè trovo sempre più urgente, che si pretenda
a) dal mondo politico, che sia trasparente e ineludibile il percorso verso la sostenibilità. Ovvero, dateci una vera road map e non una fatta di chiacchiere tipo “ci impegniamo a impegnarci per tracciare un impegno di percorso che si impegna a dipingersi di verde davvero impegnato”, nelle quali ci sono sempre mille nuovi sottintesi “semprechè…”. Non ci fidiamo punto, di chi le road map le annacqua per galleggiare. Se sentiamo naufraghi nella m…a, non ci dobbiamo portare l’acqua per diluirla, ma per bere!
b) che non si tema di essere “ideologici”, laddove ciò significhi costruire un pensiero organico, anche dal punto di vista della filosofia politica. Personalmente, penso che si debba partire da un aspetto insopportabilmente finora dato per scontato: l’attribuzione quantitativa del valore economico, in ogni aspetto della vita. C’è sempre un punto, dove ci si ferma: sembra che non siamo noi, a dover stabilire quanto valga una banconota. Poi ci si lamenta che tutto dipenda da chi mette la firma da parte della BCE… E per forza, che ci puzza molto un “summit sul clima” che ragioni sul totem della finanza verde. Chi ci ragiona davvero, se non i draghetti di turno, o quelli che già ora sono molto avanti nel sostenerli o sostituirli con un’economia pressochè automatizzata?
Intanto, quel che non è virtuale avanza e fa male. Mica solo con il clima, perdio.
https://volerelaluna.it/rimbalzi/2021/11/29/lettera-ai-ricchi/
https://www.annualreviews.org/doi/full/10.1146/annurev-environ-012220-011104
This article has demonstrated that, while the reasons for 30 years of failure to bend the global emissions curve are multifaceted, a common and strong thread is woven through them all. In various guises and to differing degrees, the centralization of power and the privileges that accompany it have coalesced around a particular worldview. Through recent decades, the central tenets of this worldview have evolved into a wider global Zeitgeist whereby development and progress are reduced to economic growth and defined by increasingly narrow financial metrics and indices. Coincident with this financial reductionism and economic characterization of nations and societies has been a growing recognition that the “system” externalities are set to undermine the very tenets of the system. Thus far, however, the power and inertia of the existing system have been sufficient to give the impression of ongoing control. The challenges are “recognized” and “internalized,” and through promised technical futures that are carefully costed in elaborate models, the existing power structures remain unchallenged.
However, even if people can, at least temporarily, be steered to ignore physical reality, the same is not true of the natural systems on which human societies ultimately depend.[…]
Questo scrivevo pù di trent’anni fa.
Illudendomi che sarebbe stata una profezia sbagliata.
Mai ci parlerà l’aragosta
Dell’abisso d’angoscia
Precedente la sua estrema ustione
Né ci farà sapere il riservato riccio
Del suo terrore
Al sopraggiungere del battistrada
E se volesse la tartaruga dirci
Della lenta agonia
Provocatagli da una medusa falsa
Estrusa in polietilene
Chi troverebbe disposti al suo ascolto
Nemmeno un pino marittimo
Diverrà mai loquace
Per raccontarci della sua tortura
Proiettatagli da pellicole di detersivi
Ma noi imprechiamo per il nostro soffrire
Fino ad istoriarne le pietre
Da chi l’abbiamo mai ereditato
Questo diritto di piangere
Amianto cadmio arsenico mercurio
Benzolo plutonio rumore piombo
Gorgogliano d’accordo intenti nell’accusarci
L’autorizzazione a lamentarci
La perderemo tra non molto
E stiamo sterminando qualsiasi testimone
Scomparso che ne sia l’ultimo a favore nostro
Annegheremo in un dolore insostenibile.
Marco Sclarandis