“Certe persone si isolano dal mondo confinandosi nello spazio angusto dal quale lo guardano”

Così scriveva il poeta libanese Kahlil Gibran al principio del secolo scorso. Cento anni dopo, il suo messaggio descrive accuratamente la situazione del dibattito sulla crisi ecologica globale che, consapevoli o meno, stiamo vivendo.
Mesi fa, durante una presentazione del mio libro ‘Il Secolo Decisivo’ in una libreria del nord Italia, un signore dal pubblico osservava che le mie idee sulla crisi ecologica globale erano un po’ sospette, perché in fondo per anni non se n’era parlato, e solo da qualche tempo la tv se ne occupava. C’era qualcosa sotto, insomma, a naso interessi occulti. Così, una persona che fino a qualche tempo prima non credeva nel più grave disastro ambientale della storia umana ‘perché in tv non se ne parlava’, ora non ci credeva perché se ne parlava troppo. Un giorno come un altro nella penisola.
All’opposto, leggendo i paper di economisti ecologici e teorici della decrescita pubblicati negli ultimi tempi, si ha l’impressione che non solo la crisi ecologica globale non vada nemmeno più dimostrata, ma che persino la necessità impellente di una transizione decrescente ad un’economia di tipo stazionario sia un fatto oramai di dominio pubblico. Qualcosa di assodato e banale, come la sfericità della Terra o l’incompetenza del governo. Il dibattito si concentra invece su come produrla, questa transizione, e su come renderla sostenibile dal punto di vista sociale, politico e finanziario.
Sono due mondi separati, quello accademico e quello di chi si informa attraverso tv e social network, ma condividono la stessa logica: lo sguardo isola. E questo isolamento prospettico può trovare soluzione solo nella comunicazione. A me, che oltre ai saggi leggo anche qualche quotidiano (pazzesco nel 2019, lo so), appare manifesto che i tentativi di comunicazione fra i due mondi sono stati finora poco efficaci. Nononostante la sesta estinzione di massa, il riscaldamento globale, la desertificazione, Trump, Salvini e tutti gli altri grandi flagelli del nostro tempo, la crescita è ancora il metro di ogni cosa buona e giusta. La crescita, si continua a ripetere come un disco rotto, è sviluppo; la crescita è diritti umani; la crescita, addirittura, è la chiave per un futuro sostenibile (!). E per la crescita si va alla guerra (commerciale, finanziaria, anche reale se necessario). La Cina è prospera perché cresce al 6% l’anno. In un recente rapporto patrocinato dal governo cinese, il paese di mezzo sarebbe campione dei diritti umani perché cresce e diventa più ricco (a quale costo per l’ambiente il rapporto non lo dice). L’Europa, naturalmente, della Cina è invidiosa, l’America è invidiosa. Entrambe non crescono più come una volta. Come se il punto d’arrivo non contasse affatto, ma solo il viaggio. Come se, giunti in cima alla montagna, anziché godere della vista si provasse invidia per chi, a metà cammino, arrancasse ancora verso l’alto.
Per esigenze di spazio, in questo articolo darò per scontata la consapevolezza dei lettori circa l’impossibilità di: 1. una crescita materiale (in termini di risorse utilizzate e scarti prodotti) che sia sostenibile sul lungo periodo; 2. un disaccoppiamento assoluto fra crescita economica e crescita materiale. Per un’analisi approfondita di entrambe le questioni, rimando alla lettura dei primi due capitoli del mio libro ‘Il Secolo Decisivo’.
In questo articolo vorrei invece gettare luce su due questioni altrettanto fondamentali:

  • Che cos’è un’economia stazionaria e che cosa la differenzia dalla decrescita?
  • Quali ostacoli macroeconomici e istituzionali si frappongono al superamento del modello socio-economico vigente basato sulla crescita infinita del PIL?

Che cos’è un’economia stazionaria e che cosa la differenzia dalla decrescita?

Seguendo la definizione classica di Herman Daly,[2] un’economia stazionaria è un’economia in cui il flusso totale di materia ed energia ad alto livello di entropia – ovvero non riutilizzabile dagli esseri umani – generato lungo l’intero ciclo di produzione e consumo si mantiene a un livello costante sul lungo periodo.[3] Se sul lungo periodo un’economia della crescita è per definizione insostenibile, un’economia stazionaria può esserlo o meno, dipendendo da dove si posizioni tale livello. Un’economia stazionaria è sostenibile laddove quest’ultimo corrisponda a:

  • Un utilizzo delle risorse rinnovabili che non superi le soglie di rinnovamento dettate dagli ecosistemi;
  • Un tasso di consumo delle risorse non rinnovabili inferiore al tasso di sviluppo di loro sostituti rinnovabili;
  • Un tasso di produzione di scarti e inquinamento inferiore al tasso di riassorbimento e smaltimento da parte degli ecosistemi.

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Agli attuali livelli di produzione e consumo, un’economia stazionaria non sarebbe sostenibile. È necessario un ponte che ci possa condurre a un’economia stazionaria sostenibile. Quel ponte si chiama decrescita.
Benché il termine decrescita sia usato in modi diversi da autori differenti, una definizione minima condivisa la identifica con una riduzione delle dimensioni materiali di una società e un conseguente ridimensionamento del suo impatto ambientale sugli ecosistemi terrestri. Ciò ha un’implicazione importante, spesso ignorata dai media generalisti: come la crescita al di là di una certa soglia di sostenibilità non è auspicabile – perché inizia a danneggiare il benessere delle generazioni future e non apporta maggiore benessere a quelle presenti –, così la decrescita al di sotto di tale soglia non è necessaria. Detto altrimenti, ridurre produzione e consumi può accrescere il benessere aggregato in una situazione di sovraconsumo e sovraproduzione, ma una volta che produzione e consumi siano scesi a un livello sostenibile per il sistema-Terra, ridurli ulteriormente non apporta alcun vantaggio, e può anzi condurre a una riduzione del benessere aggregato.
Occorre decrescere per ritornare a un equilibrio sostenibile con gli ecosistemi. Una volta fatto, la decrescita cessa tuttavia di essere utile. Ne consegue che la decrescita, definita in termini materiali ed economici, non è un’alternativa al modello socioeconomico vigente, bensì un mero ponte verso un modello alternativo. Quel modello alternativo, e su questo un numero sempre maggiore di studiosi concorda, si chiama economia stazionaria. La decrescita è il mezzo, l’economia stazionaria il fine.

Quali ostacoli macroeconomici e istituzionali si frappongono al superamento del modello socio-economico vigente basato sulla crescita infinita del PIL?

La domanda da un milione di euro. Ho dovuto scrivere per arrivare a una risposta soddisfacente. Qui ho a disposizione poche righe. La risposta sarà dunque per necessità parziale, ma non per questo inutile.
Vediamo quindi brevemente quali ostacoli macroeconomici e istituzionali ci impediscono di attraversare il ponte, abbandonando la crescita per raggiungere, sull’altra sponda, un modello di società sostenibile sul lungo periodo[4]. O, che è poi lo stesso: vediamo quali caratteristiche del modello economico e istituzionale vigente rendono la crescita economica apparentemente ineludibile. Per farlo, occorre innanzitutto ribadire che un’economia stazionaria costituisce qualcosa di radicalmente differente da un’economia della crescita in fase di stagnazione. Se per quest’ultima l’assenza di crescita rappresenta l’esito indesiderato e imprevisto di una crisi, per un’economia stazionaria si tratta invece della condizione fisiologica del sistema economico-produttivo. Al contrario di un’economia stazionaria, un’economia della crescita non può non crescere per lungo tempo senza collassare.
Rimandando al mio libro per un’analisi più approfondita, possiamo identificare quattro elementi principali del modello socio-economico vigente che rendono la crescita economica imprescindibile.

a) Un sistema redistributivo della ricchezza basato sui redditi da lavoro nel contesto di un incremento costante della produttività del lavoro.

L’innovazione tecnologica aumenta costantemente la produttività del lavoro, rendendo necessari sempre meno lavoratori per produrre la medesima quantità di beni e servizi. In altre parole, il capitale tecnologico sta rimpiazzando il lavoro umano quale motore primario della produzione globale. Una riduzione della quantità aggregata di beni e servizi a livello globale (decrescita) o anche un suo mancato incremento (economia stazionaria) non potrebbe che accelerare tale processo, portando a un aumento esponenziale della disoccupazione. Ciò, nel contesto di un sistema di redistribuzione della ricchezza basato in gran parte sul lavoro – qual è in buona misura quello attuale –, condurrebbe a una società caratterizzata da uno sparuto numero di super-ricchi (i controllori dei grandi capitali tecnologici e finanziari) circondati da una massa sterminata di poveri. Una transizione decrescente deve dunque necessariamente passare per una preliminare riforma del sistema di redistribuzione della ricchezza. Tale riforma può assumere tre forme: 1) una progressiva redistribuzione del lavoro fra la popolazione per tenere il passo con l’innovazione tecnologica; 2) un disaccoppiamento fra lavoro e redistribuzione della ricchezza, ad esempio attraverso l’istituzione di un reddito di base universale; 3) un qualche commistione fra le due forme precedenti.

b) Un sistema fiscale basato in buona parte sulla tassazione del lavoro.

In presenza di sistemi fiscali incentrati sulla tassazione del lavoro, una diminuzione dei livelli di occupazione (conseguenza altamente probabile di un modello economico stazionario) produrrebbe una diminuzione delle entrate pubbliche, con effetti devastanti sulla spesa pubblica e la sostenibilità del welfare. Un’economia stazionaria richiede quindi che la tassazione si concentri su ciò che sempre più è al centro della produzione della ricchezza: il capitale tecnologico e finanziario.

c) Un sistema finanziario basato sull’inflazione.

In assenza di una crescita costante di produzione e consumi, l’attuale politica monetaria basata su un incremento costante della massa monetaria condurrebbe a una crescita esponenziale dei prezzi (iperinflazione), con forti effetti recessivi. Un’economia stazionaria non può funzionare con un politica monetaria espansiva. Tuttavia, il passaggio a un politica monetaria non espansiva è inattuabile senza una previa riforma dei sistemi redistributivi e fiscali in chiave post-lavorista (i due punti sopra citati). Senza tali riforme, In assenza di un flusso costante di nuova moneta nel sistema gli interessi sui prestiti concessi dalle banche crescerebbero, portando a una riduzione di investimenti e consumi nell’economia. Il risultato sarebbe maggiore disoccupazione, minori consumi, minore entrate per gli stati e una crescita dei debiti pubblici. In una parola: recessione.

d) Sistemi democratico-elettorali che incentivano politiche di breve periodo.

Le democrazie rappresentative occidentali, fortemente mediatizzate e basate su cicli elettorali di breve durata, generano politici che concentrano i propri sforzi su misure efficaci sul breve periodo a problemi contingenti. Riforme di ampio respiro che richiedano anni per essere implementate (come sarebbe la transizione a un’economia stazionaria) sono facilmente attaccabili dalle opposizioni, perché i loro effetti non sono visibili sul breve periodo, portando al fallimento elettorale coloro che provassero a implementarle. Al contrario, politiche dannose sul lungo periodo ma efficaci sul breve periodo (per esempio politiche che promuovano più crescita, più consumi e più occupazione a scapito dell’ambiente) portano al successo alle urne chi se ne fa portavoce. Gli effetti negativi di queste ultime, estendendosi oltre i confini temporali di un singolo ciclo elettorale, sono facilmente attribuibili a futuri governi.
Il problema della comunicabilità delle idee riaffiora qui in tutta la sua importanza. La gente vuole più occupazione, più crescita e una soluzione alla crisi ecologica globale. Lo sa. Non vuole assolutamente sentirsi dire che queste tre cose sono in contraddizione fra loro. La crescita è sempre stata positiva, l’occupazone è sempre stata positiva, i danni all’ambiente sono sempre stati negativi. Che la crescita oltre certe soglie non sia positiva e che il lavoro, se superfluo, non sia una virtù, sono concetti difficili da far passare in un’arena politica dominata da slogan e tweet. Argomentazioni complesse e dati ponderati richiedono più tempo per essere comunicati rispetto a un rapido appello alla pancia dei cittadini. ‘Abbasseremo le tasse’, ‘Aumenteremo l’occupazione’, ‘faremo crescere il paese’ sono concetti di facile comunicazione. La gente sa cosa sono le tasse, cos’è l’occupazione, cos’è la crescita economica. ‘Implementeremo una transizione a un’economia di tipo stazionario’ non sortisce lo stesso effetto.

In questo articolo non ho toccato nemmeno la superficie del dibattito accademico in corso sulla necessità di una transizione a un’economia di tipo stazionario. Anche limitandosi agli ostacoli da superare per metterla in atto, non ho citato innumerevoli aspetti di primaria importanza. Un esempio (fra innumerevoli altri) è il fatto che, nel contesto di un mondo profondamente interconnesso a livello economico, la transizione a un modello stazionario avrebbe effetti disastrosi sull’economia di un qualunque stato che la implementasse per primo in forma isolata.
Pur con i suoi limiti, spero che il presente articolo possa però spingere il lettore ad approfondire il tema della transizione a un’economia di tipo stazionario. Dopo quasi 15 anni di studio degli aspetti macroeconomici, politici e istituzionali del tardo capitalismo, sono personalmente convinto che tale transizione, per quanto difficile, sia l’unica soluzione plausibile alle molte crisi che stiamo vivendo.

[1] Va forse ricordato che a fine 2019 il PIL pro capite cinese, pari a circa 10.000 dollari, è meno di un terzo di quello italiano (dati Fondo Monetario Internazionale).

[2] Questi tre principi furono enunciati per la prima volta più di un secolo fa in H. E. Daly, Toward a Steady-State Economy, W.H. Freeman & Co, 1973.

[3] Oscillazioni entro certi limiti sono possibili nel breve termine. Ciò significa che il PIL, in un’economia stazionaria, può crescere senza compromettere la sostenibilità del sistema, a condizione che input e throughput materiali aggregati rimangano costanti. Al contrario che nelle economie della crescita, l’aumento del PIL non è però una condizione necessaria alla stabilità del sistema.

[4] Ignoreremo qui ogni ostacolo di tipo culturale non perché non presente, ma per semplici limiti di spazio (rimando al libro per un approfondimento in tal senso).

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