In questi giorni l’associazione “Luca Coscioni” ha avviato in tutta Italia la raccolta delle firme per la presentazione di un disegno di legge di iniziativa popolare che consenta, in determinate condizioni, l’eutanasia dei malati terminali (qui per i dettagli).   Un modo per tentare di forzare il parlamento ad occuparsene, dopo anni che fa finta di nulla.   Un occasione per riproporre alla riflessione un argomento che troppo spesso viene semplicemente rimosso, come molto di ciò che riguarda il nostro futuro.

La morte, si dice, è l’unica certezza della vita, ma a nessuno è mai piaciuto morire.  La Morte fa paura, la ha sempre fatta e sempre la farà, eppure le società umane hanno affrontato questo dramma in modi estremamente diversi e non sempre morire è stato considerato un male, tantomeno il Male assoluto contro cui combattere con ogni mezzo ed a qualunque costo.

Per restare in casa nostra, l’antichità greca e romana ha venerato numerose divinità connesse con la Morte, alcune paurose, come i Mani o Thanatos, altre soccorrevoli e consolatrici, come Persefone.
Articolata era anche l’opinione riguardo al suicidio. Il giudizio poteva infatti variare drasticamente a seconda del contesto in cui la scelta veniva maturata, ma non risulta che, neppure nei casi peggiori, la cosa fosse stigmatizzata più di tanto. Spesso, anzi, fu al contrario considerato un atto eroico (il che non significa necessariamente meritevole).
Il passaggio al monoteismo creò un problema esistenziale estremamente spinoso: se Dio è unico ed è un dio d’Amore e salvazione, come si spiegano il male, la sofferenza e la morte? La risposta fu che il Male deriva dell’aver tradito il patto con Dio.  Dunque la Morte e gli altri mali che angustiano le nostre vite sarebbero frutto di una nostra colpa atavica che, però, la Fede può redimere, assicurando ad ognuno la vita eterna che rappresenta, invece, il sommo bene per il quale vale la pena di sacrificare qualunque altra cosa.
Ma se questo approccio fu parte integrante della dottrina cristiana fin dalle sue origini, il primo ad occuparsi specificatamente del suicidio mi risulta che sia stato S. Agostino secondo cui rinunciare volontariamente alla vita era sempre e comunque una colpa suprema, viatico certo per la dannazione eterna.
Suicidi eroici, esaltati dagli aedi e dai cronachisti, sono ampiamente documentati anche nelle epoche successive, ma sta di fatto che la Chiesa ha sempre considerato il suicidio come uno dei peccati più gravi ed imperdonabili.

Passando dalla mitologia all’osservazione del quotidiano, non si può non considerare che il male è un fattore relativo in quanto quasi sempre ciò che è un bene per qualcuno o qualcosa è anche un male per altri.  La volpe che uccide un gatto fa del male al felino ed a chi eventualmente gli è affezionato, ma nutre sé stessa ed i suoi “pucciosissimi” cuccioli che, altrimenti, morirebbero di fame.  Analogamente, l’esercito che vince una guerra fa del bene al suo paese ed alla sua gente, ma del gran male agli sconfitti.  Dunque, il male è solitamente nient’altro che un punto di vista, ma esiste ugualmente un “Male Assoluto“? Personalmente penso di sì e credo che consista nel danneggiare altri senza necessità, per interesse o, magari,  per divertimento.
Faccio un esempio. Il gatto gioca torturando topi e lucertole, ma non è cosciente del fatto che sta facendo soffrire qualcuno; gli animali non hanno quasi mai questo tipo di empatia. Per il gatto quello non è un essere sofferente, bensì un giocattolo che si muove, oppure un buon boccone.
Viceversa, l’uomo che si diverte a torturare un altro animale qualsiasi, lo fa esattamente perché prova un perverso piacere nella sofferenza e nella morte altrui.  Una specie di cortocircuito in un sistema cerebrale troppo complesso.
Insomma, il male assoluto, secondo me, non risiede nella morte e neppure nell’uccidere, bensì nel infierire su altri, sovente indifesi, senz’altro scopo che il gusto di far soffrire.

E qui lasciamo i manicomi per tornare agli ospedali, il cui scopo di esistere dovrebbe essere proprio quello di eliminare la sofferenza, nei limiti del possibile. Dovrebbe e, in effetti, da non molti anni si praticano anche in Italia terapie specifiche contro il dolore, ma il focus principale rimane sempre e comunque quello di far sopravvivere le persone, costi quel che costi. E “costi quel che costi” sono parole che meritano un’attenta riflessione, tenendo conto di quelle che sono le probabili prospettive della nostra società.
Malattie incurabili o estrema vecchiezza possono facilmente generare stati di sofferenza sia fisica che psichica estremamente gravi che le terapie possono lenire solo in parte. Senza considerare la sofferenza di amici e parenti ed il fatto, non secondario, che un lungodegente incurabile può rappresentare un problema terribile per qualunque famiglia che non si possa permettere un badante.  Per quale ragione ostinarsi a perpetuare simili condizioni anche quando è il malato stesso che desidera morire? A cosa tutta questa sofferenza dovrebbe portare se non a coinvolgere e sconvolgere intere famiglie?
Faccio un esempio. Un signore che conoscevo bene è vissuto fino a quasi novant’anni senza prendersi nemmeno un’influenza. Poi, improvvisamente, un collasso cardiaco che lo avrebbe ucciso in poche ore se non fosse stato ricoverato d’urgenza e “salvato” da un’equipe certamente di altissima professionalità. Ma di discutibile eticità visto che il salvataggio comportò per il malcapitato sette mesi di agonia, bloccato in un letto d’ospedale, con infilati nel corpo una decina di tubi che solo dosi crescenti di morfina gli hanno permesso di sopportare a stento. Per la sua famiglia, la pena di assistere a tutto questo senza poter fare nulla per interrompere quella che, a tutti gli effetti, era una tortura. Perché?

Oltre ai motivi filosofici ancor’oggi derivanti dalle idee di S. Agostino, ve ne sono anche altri, sicuramente più cogenti. L’accanimento terapeutico è un business formidabile che da lavoro a una miriade di specialisti, personale vario, case farmaceutiche e via di seguito.  I sette mesi di agonia del signore di cui sopra costarono qualcosa come 70.000 euro e non è una cifra record. E’ noto che l’ultimo anno di vita di un occidentale costa al sistema sanitario ed alle famiglie tanto quanto tutto il resto della sua vita messo insieme.
Già odo voci indignate che mi danno del “nazista”; sono uno spregevole individuo che considera il supremo valore della vita umana in termini di vile denaro: orrore e vituperio.

A costoro rispondo con tre argomentazioni:

  • La prima è che la professione medica è giustamente fra le più stimate, ma non mi pare così etica quando diviene una speculazione sulla sofferenza altrui.
  • La seconda è che è facile fare del moralismo quando le spese sono a carico di altri.
  • La terza è che se la scelta è fra la stentata sopravvivenza di vecchi e malati inguaribili, oppure fra sostegno, istruzione e protezione dei giovani, cosa è più etico fare? Certo, potendo, sarebbe meglio fare entrambe le cose, ma se non si può? C’è una ragione per cui si devono sacrificare i giovani per sostenere i vecchi? O non è questo atteggiamento un suicidio collettivo, esaltato proprio da coloro che si scagliano contro il suicidio individuale?

Non dimentichiamoci che, comunque la si pensi, la decrescita è iniziata e proseguirà a balzelloni, ma inarrestabile per decenni, forse secoli.  Abbiamo oramai minato le fondamenta stesse del sistema che ci garantiva un ambiente abitabile e possiamo quindi limitare i danni, non evitarli. La catastrofe climatica e il collasso della biosfera sono iniziati e non saranno fermati né dalle chiacchiere, né da investimenti che aumentano anziché ridurre consumi e impatti antropici.
Non possiamo sapere quando e come ritroveremo un equilibrio con quello che resterà della biosfera, ma sappiamo per certe due cose:

  • Solo la drastica riduzione di consumi e popolazione può arginare il disastro (senza fantasticare di stermini di massa che è un vecchio pretesto per evitare l’argomento). I due fattori sono sinergici perché una riduzione consistente dei consumi provoca un aumento della mortalità e, probabilmente, anche una riduzione della natalità (con buona pace di teorie demografiche datate).
  • La riduzione degli standard di vita è iniziata e proseguirà, non sappiamo quanto, ma presumibilmente molto.  Dunque il sistema sanitario ed il sistema pensionistico saranno progressivamente adeguati a standard sempre più bassi, ci piaccia o non ci piaccia. Insomma, si potranno cercare delle mitigazioni e degli arrangiamenti, ma la qualità e la durata della vita media diminuiranno considerevolmente perlomeno per tutto il secolo in corso.

E allora, cosa è più etico ed altruista fare?

Predisporre un sistema che permetta alla gente finita e disperata di morire con il minimo di dolore possibile.

oppure

Abbandonare i vecchi ed i malati al loro destino.

Pensiamoci in fretta perché la seconda opzione la abbiamo già vista all’opera in più di una città nelle fasi più acute della pandemia da Covid. Certo, si è trattato di una situazione eccezionale e molto temporanea, ma molte delle eccezionalità di oggi diventeranno la normalità di domani.

Tutto ciò per me è molto importante perché se la morte è inevitabile, non lo è la sofferenza e se morire e veder morire chi si ama è terribile, vi è qualcosa di peggio ancora: soffrire e veder soffrire senza neppure una speranza di guarigione.  Perciò, quando la morte rimane l’unico per interrompre un inutile calvario per sé o per altri, trovo che lo stato non solo lo dovrebbe consentire, ma anche facilitare. Certo, la Chiesa ha il diritto di dire ai suoi fedeli che il suicidio non è la scelta giusta, ma non quello di interferire con leggi che si applicano poi a persone che cattoliche non sono.
Eppoi, alla fin fine, avere pietà di chi soffre non dovrebbe essere considerato un atteggiamento da buon cittadino, oltre che da buon cristiano?

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