Per non ripetere la solita pletora di luoghi comuni che tipicamente segue a ogni insurrezione palestinese, bisogna riconoscere gli elementi di novità che contraddistinguono quella attualmente in corso. Infatti, l’offensiva scatenata da Hamas ha ben poco in comune con le consuete sollevazioni, neppure con la cosiddetta ‘intifada al-Aqṣā’ o ‘seconda intifada‘ di cui fu protagonista nel 2000 proprio l’organizzazione islamista in reazione alla provocatoria visita al Monte Tempio dell’allora capo del Likud Ariel Sharon. 

Siamo di fronte a un attacco per nulla ‘spontaneo’ né ‘organizzato dal basso’, bensì a un piano militare ben orchestrato, frutto di capillari operazioni di intelligence e messo in pratica da uomini ben addestrati (su tutti i commandos con i deltaplano a motore): il risultato è stato un bagno di sangue che in molti, forse a ragione, hanno definito l’undici settembre israeliano. E come per gli attentati alle Torri Gemelle, è lecito sospettare che i terroristi abbiano potuto contare su potenti fiancheggiatori, perché l’iniziativa sembra eccessiva anche per un’organizzazione ben preparata, radicata sul territorio ed efferata come Hamas. 

Rispetto ai fatti del 2001, però, non servono particolari teorie cospirative perché fin dal primo minuto l’Iran sta plaudendo urbi et orbi all’aggressione. Anzi, inizialmente il regime degli ayatollah lasciava intendere un appoggio non solo morale, mentre successive dichiarazioni hanno negato qualsiasi coinvolgimento diretto nell’operazione. Se non ci fosse di mezzo una tragedia di proporzioni immani, verrebbe quasi da sorridere pensando a come questi due soggetti fondamentalisti (Hamas e la teocrazia iraniana) siano riusciti a riconciliare le due anime dell’Islam, sunniti e sciiti, violentemente in lotta tra loro fin dalla morte di Maometto. 

Lasciando perdere le facili (e ciniche) ironie, è difficile ignorare alcune significative coincidenze temporali, in primis che l’attacco di Hamas abbia seguito di pochi giorni gli allarmi del Pentagono sulla carenza di fondi per garantire armi all’Ucraina per più di sei mesi. Non solo gli USA dovranno dividersi tra sostegno a Kiev e Tel Aviv, ma la Russia si avvantaggerà anche della minor copertura mediatica assegnata alla ‘operazione militare speciale’. Senza contare l’inevitabile affossamento degli ‘Accordi di Abramo‘ tra Israele e Arabia Saudita, un duro colpo inferto alla politica estera statunitense in Medio Oriente. 

Di fatto, il conflitto israelo-palestinese è entrato in un nuovo contesto globale (“ordine mondiale multipolare”, per dirla alla Putin) dove la Russia è sostenuta militarmente dall’Iran nella sua espansione in Ucraina e Teheran rappresenta una tessera importante del mosaico geopolitico cinese nell’area mediorientale, non foss’altro per la sua centralità nel progetto della ‘Nuova via della seta’. Insomma, tutti questi attori (Iran, Russia, Cina) hanno molto da guadagnarci da un lungo e prolungato conflitto tra Israele e Hamas.

Chi invece ha tanto da perdere, manco a dirlo, sono i diretti interessati. Per quanto attiene ai palestinesi, è superfluo parlarne: la dichiarazione di Omer Tishler, capo di stato maggiore dell’aeronautica israeliana, secondo cui “stiamo colpendo Gaza su scala senza precedenti… agiamo in modo preciso e professionale, ma non più chirurgico” lascia intendere l’esorbitante livello di distruzione in programma. La carneficina non farà altro che rinfocolare l’odio e rafforzare ulteriormente il terrorismo islamista a Gaza e Cisgiordania (e nel resto del mondo), stremando una società palestinese dove, a più di cinquant’anni di occupazione, si aggiunge il malgoverno di un’autorità locale che vive di aiuti umanitari internazionali contraddistinguendosi per clientelismo e corruzione (segnalo al riguardo un interessante articolo del 2015 di Tareq Dana). Se Hamas è divenuta tanto popolare non è certo solo per colpa del giogo sionista.

Israele, presumibilmente, uscirà vincitrice sul piano militare, ma anche la sua società subirà uno smacco ben oltre le già cospicue perdite civili. Da Ben Gurion ai giorni nostri, forse non sono esistiti leader dello stato ebraico esenti da comportamenti discutibili (eufemismo, pensando ad alcuni di loro), tuttavia nessuno può avvicinarsi al livello di squallore di Benjamin Netanyahu. Chi si è sporcato le mani di sangue era almeno seriamente convinto di proteggere e rafforzare il suo popolo, mentre l’attuale premier, in stile Berlusconi, approfitta della carica politica per il proprio tornaconto. La sua ‘riforma della giustizia’, pensata per addomesticare la magistratura e garantirsi l’impunità a fronte delle accuse di corruzione, frode e abuso di potere, aveva indignato profondamente l’opinione pubblica israeliana, con innumerevoli e partecipate manifestazioni di protesta. 

Oltre a denunciare l’uso personalistico del potere, tali contestazioni rigettavano il fondamentalismo ultraortodosso espressione della maggioranza di governo e, forse, stavano aprendo una riflessione più generale su tante criticità della loro nazione, situazione dei territori occupati compresa. Le atrocità di Hamas hanno provocato la prevedibile reazione di ricompattare la popolazione nel nome dell’unità nazionale sotto la figura del capo di governo, pur trattandosi della peggior persona possibile in uno dei momenti più delicati della storia di Israele, la cui inettitudine è stata capace persino di ledere la notoria efficienza del Mossad e delle forze armate. I danni generati da questa situazione non saranno cruenti come gli attentati terroristici ma non meno gravi nel lungo periodo.

Del resto, chiusura a riccio e difesa a oltranza del proprio gruppo sono gli atteggiamenti tipici che hanno contrassegnato più di mezzo secolo di occupazione e di reciproci ‘occhio per occhio’; oggi, però, si è decisamente superato il grottesco. Come i collettivi ‘antifa’ che, inneggiando a Tel Aviv in fiamme, osannano gli autori di eccidi che per crudeltà e viltà hanno poco da invidiare ai crimini nazifascisti. Oppure gli esaltatori della democrazia israeliana e del suo spirito ‘occidentale’ che fingono di non vedere un regime di apartheid conclamato, dove della varietà del pensiero sionista delle origini è oramai rimasto solo un nazionalismo gretto e bigotto.

“Due popoli e due stati” diventa un vacuo slogan se l’unica prospettiva politica è lo jihadismo islamista, così come non ha senso blaterare di “diritto alla difesa di Israele” perché il suo problema non è contrattaccare alle minacce esterne (ci riesce fin troppo bene) bensì uscire dal vicolo cieco in cui si è ficcata dopo la guerra dei sei giorni, nel momento in cui ha deciso di comportarsi da potenza di tipo coloniale, con tutto il degrado morale e politico che ne è conseguito.

L’unica speranza per lasciarsi alle spalle questa spirale di odio, morte e strumentalizzazione risiede nel coraggio di dissociarsi. Il coraggio che fu ad esempio di Primo Levi e altri ebrei italiani nel denunciare i pericoli della politica militarista di Menachem Begin. Oppure di Albert Camus che, pur condividendo le aspirazioni di libertà del popolo algerino, stigmatizzò i metodi terroristici del Fronte di Liberazione Nazionale. Il romanziere franco-algerino, malgrado i suoi ideali socialisti (o forse proprio in virtù di essi) condannò pure il totalitarismo sovietico, posizione che lo portò alla rottura con Jean Paul Sartre e tutti coloro convinti che bisognasse sostenere la propria fazione sempre e comunque.

Sto auspicando un comportamento obiettivamente difficile, specialmente per la parte più debole che ha dovuto subire il peso maggiore di ingiustizie e violazioni. Come ha sottolineato Haggai Matar in un contributo ripreso da Jacobin Italia, ciò che ora stanno vivendo sulla loro pelle tanti cittadini israeliani non è troppo diverso da quanto provano da decenni gli abitanti dei territori occupati. Ma quando l’odio e la barbarie travalicano ogni limite morale, non esistono più ragioni, solo un’infinità di torti. Chi vuole bene a Israele e Palestina deve necessariamente combattere la follia sanguinaria in cui le stanno trascinando le rispettive leadership. Per chi ha il vantaggio di poter ragionare lucidamente non essendo coinvolto direttamente nell’orrore e nella distruzione, si tratta di un imperativo categorico.

 

 

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