Recovery Fund” è la parola magica che si spera valga ad esorcizzare lo spettro della catastrofe economica innescata dal Covid-19, ma lungamente preparata da 50 anni di follia collettiva ed universale.
Per la precisione, questo disastro è stato predisposto da due secoli di follia collettiva, ma da 50 anni sappiamo per certo  come sarebbe andata a finire e non abbiamo fatto quasi nulla per evitarlo.
Ora che i nodi cominciano a venire al pettine, facciamo finta di non capire e questo è molto pericoloso perché una tale valanga di miliardi avrà conseguenze immense ed irreversibili sul nostro mondo e non è detto che saranno positive, dipenderà da come li spenderemo.
Non voglio qui affrontare un argomento tanto vasto e sul quale non ho competenza, ma vorrei ricordare solo uno dei tanti aspetti che i governanti si stanno dimenticando completamente: la Biodiversità.
In compenso si parla molto di emergenza climatica, facendo però attenzione a dimenticare che questa è strettamente connessa con tutte le altre crisi della “tempesta di tempeste” che si sta addensando sul nostro capo, una delle quali è proprio la perdita di biodiversità.
Poco popolare perché difficile da capire, è però ancora più grave di quella climatica per una semplice ragione:

Finché ci sarà una sufficiente biodiversità, la biosfera potrà sia mitigare i mutamenti del clima, sia adattarsi ad essi, cosicché continuino ad esistere sulla Terra acqua, piante ed animali.  In caso contrario, vaste zone del pianeta diventeranno desertiche o, comunque, lande desolate in cui ben poco sopravvive.

Uno degli strumenti principali (anche se non certo l’unico) per conservare la biodiversità è la creazione di un’efficace rete di aree protette.   Una cosa che i naturalisti hanno cominciato a chiedere a gran voce a partire perlomeno da 100 anni or sono.
Nel clima ottimistico degli anni ’80, molti governi, fra cui il nostro, istituirono od ampliarono parchi e riserve, senza però rendersi conto della loro importanza, tanto che molte di queste, in realtà, sono poi state protette solo sulla carta o quasi.
Il ragionamento, nella maggioranza dei casi, fu di questo genere: “Queste sono aree marginali, poco popolate,  difficilmente raggiungibili da grandi masse di gente e non hanno quindi nessun interesse economico.  Facciamoci dei Parchi che è di moda e contenta quei rompiscatole degli ambientalisti e dei naturalisti dell’università.  Perlomeno, si svilupperà un poco di turismo che è meglio di niente.”

Partiti così, è logico che, non appena siamo stati risucchiati in una crisi economica seria e lunga, la reazione dei politici sia stata:
Non possiamo più permettercelo, questi territori devono diventare produttivi”.
Che nel loro gergo significa: “Contribuire al PIL”.
Di qui la trasformazione degli Enti Parco in qualcosa che somiglia sempre più a delle “pro loco”, la riduzione delle superfici, la tolleranza verso gli abusi, lo smantellamento della vigilanza, eccetera.  Di fatto, il progressivo annullamento di quelle tutele già molto parziali di cui queste zone godevano.
Il Recovery Fund entra in questo gioco perché sarà massicciamente utilizzato per ampliare la già pervasiva ed eccessiva rete infrastrutturale italiana.  Uno degli strumenti più usati ed efficaci per “valorizzare” queste aree è infatti migliorarne l’accessibilità con strade, parcheggi, illuminazione, piste ciclabili, eccetera.
proprio le piste ciclabili meritano particolare attenzione perché sono particolarmente insidiose.  Gli ambientalisti infatti giustamente le adorano, dunque chi potrebbe opporsi alla loro moltiplicazione?  Non servono forse a ridurre il traffico, l’inquinamento, ecc.?
Dipende.  Le piste ciclabili sono strutture urbane che effettivamente riducono il traffico se permettono ai ciclisti di attraversare città e suburbi in sicurezza per andare a lavorare, a scuola, a trovare gli amici e via discorrendo.  Meglio ancora se si realizzano restringendo le strade carrabili, così da disincentivare l’uso della macchina.
Se invece stendiamo nastri di asfalto larghi alcuni metri attraverso i pochi frammenti di territorio ancora non urbanizzato, stiamo semplicemente facendo un opera di urbanizzazione e di devastazione ambientale.  Cosa che peraltro sta già avvenendo in alcuni casi concreti in cui si stanno realizzando piste attraverso quelle che formalmente sarebbero delle riserve integrali, dei resti di foreste planiziali, dune, eccetera.
Lo scopo è quello di far lavorare le ditte che realizzano queste opere ed aumentare la frequentazione delle aree in questione perché più gente ci va, maggiori saranno le opportunità per fare  poi del buon business.

Il punto che spesso sfugge perfino a chi si occupa di ambiente in perfetta buona fede, è che se in queste aree si sono conservate certe cose, è proprio perché ci andava poca gente.  Se ce ne andrà di più, alcune di quelle cose necessariamente spariranno. 

La ragione per cui nei vecchi cimiteri vive una varietà di piante ed animali molto maggiore che nei vicini parchi urbani è proprio questa: nei cimiteri le persone sono meno numerose e più silenziose.
Non conosciamo tutti i segreti delle reti ecologiche, ma sappiamo che il grado di biodiversità degli ambienti è inversamente correlato con l’intensità della presenza umana con un elevato grado di confidenza.
Questo è un fatto accertato, ma sembra difficile da capirsi.
Nessuno trova strano che si pongano dei limiti alle visite di certi monumenti perché si capisce che troppa gente li danneggerebbe, ma non si capisce (o non si vuole capire) che esattamente lo stesso vale per gli ecosistemi.
Dunque, nel caso si volesse conservare qualcosa della vita selvatica, bisognerebbe ridurre e non aumentare la frequentazione delle aree protette e ci sono due modi per farlo.  Il primo è presidiare fittamente il territorio con la polizia; il secondo è rendere difficile e faticoso raggiungerle.
Se non si fa una di queste due cose, non si sta parlando di protezione della Natura, ma di grattare il fondo del barile, nel disperato e anacronistico tentativo di “rilanciare la crescita”.

La densità della popolazione in Italia è di circa una persona ogni meno di 2 ettari. La ragione per cui  esiste ancora vita selvatica è che questa popolazione non è uniformemente distribuita, ma lascia degli spazi relativamente poco frequentati all’interno della rete urbana, suburbana ed agricola.  Possiamo anche scegliere di eliminarli, ma perlomeno si dovrebbe evitare l’ipocrisia di fingere che questo non abbia conseguenze.

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