Nel mio ultimo post ho criticato l’infatuazione di alcuni ecologisti per Theodore John Kaczynski alias Unabomber, terrorista morto nel frattempo in carcere il 10 giugno scorso. In questo vorrei invece riportare all’attenzione una figura che, diversamente da Kaczynski, ritengo portatrice di idee feconde e utili ma che, a mio parere, non riceve l’attenzione che meriterebbe: mi riferisco a Murray Bookchin, anarcoecologista scomparso nel 2006. A dirla tutta, malgrado il maggiore spessore non stupisce più di tanto un seguito meno nutrito rispetto a Unabomber e simili .
Il pensiero di Bookchin, infatti, mal si adatta all’era degli influencer e dei social media. Le sue opere, su tutte L’ecologia della libertà , non sono pamphlet di facile lettura che tentano di compiacere un certo tipo di lettore elargendogli verità assiomatiche, volte a rafforzarlo nelle sue convinzioni più radicate. Al contrario, si comporta da vero filosofo elaborando ragionamenti complessi e realmente critici, senza risparmiare nemmeno le sue due più grandi passioni intellettuali, ecologismo e anarchismo. Famosa ad esempio la sua polemica (che oggi forse mi pare un po’ eccessiva) contro l’ecologia profonda.
Sarebbe al di sopra delle mie capacità sintetizzare efficacemente i capisaldi del suo pensiero incentrati sulla cosiddetta ecologia sociale , dalla critica eterodossa al marxismo passando per le teorie dell’anarchismo post-scarsità fino al municipalismo libertario; preferisco evidenziare brevemente i fondamenti del suo ecologismo, un’operazione che mi sembra quanto mai importante in un’epoca dove assistiamo a pericolose imbarcate ideologiche ed intellettuali nel campo ambientalista.
Bookchin aveva colto tempestivamente le degenerazioni in cui è incorsa la ragione strumentale, in particolare di una scienza degenerata in scientismo e di una tecnologia sottomessa alle logiche di apparati burocratici; oltre ad ammonire contro la “tecnocrazia ambientalista” puramente pragmatica e particolarmente insidiosa per il suo tinteggiarsi di verde. Ciò nonostante, avversa ogni teoria dal sapore irrazionale, animista e primitivista: a suo giudizio, la razionalità umana altro non è che un aspetto della soggettività naturale.
Soprattutto, rimarca come sia stata la natura stessa a fornire all’essere umano la capacità di alterare anche profondamente gli ecosistemi in cui vive, da qui la stupidità di bollare a prescindere come ‘innaturale’ qualsiasi alterazione dell’ambiente selvaggio:
E’ un luogo comune che ogni impresa umana ‘interferisce’ necessariamente con la natura ‘pura’, ‘vergine’. Questo concetto, che suggerisce l’ipotesi che gli esseri umani e il loro operare siano intrinsecamente ‘innaturali’ e in un certo senso antitetici alla ‘purezza’ e alla ‘verginità’ della natura, offende sia l’umanità sia la natura… Dobbiamo domandarci se la società umana deve essere considerata ‘innaturale’ in quanto coltiva il suo cibo, alleva animali, taglia alberi… in breve, in quanto ‘manomette’ un ecosistema… Ma tutti questi atti di apparente ‘contaminazione’ possono benissimo potenziare la fecondità della natura anziché ridurla… Rendere la natura più feconda, variata, intera e integrata può essere lo scopo nascosto dell’evoluzione naturale. Che gli esseri umani diventino soggetti razionali attivi di questa tendenza espansiva naturale (di cui essi stessi beneficiano, ad esempio, sotto forma di maggiori e maggiormente variate quantità di cibo), non è una ‘contaminazione’ della natura, come non lo è il cervo che, nutrendosi della corteccia degli alberelli, limita la crescita della foresta e protegge i prati. (da L’ecologia della libertà )
L’agricoltura, bollata dai primitivisti quale fonte di ogni male, ha rappresentato l’esempio supremo di questa co-produzione tra fecondità naturale e capacità manipolativa umana. L’industrializzazione, invece, è consistita in una frattura storica dove la ragione è stata ridotta a mezzo efficiente per dominare e asservire la natura, vista unicamente come fonte di risorse da colonizzare tecnicamente: da qui la nascita di una società che, anziché potenziare le proprie capacità produttive all’interno dei cicli naturali, interferisce pesantemente su di essi accampando come giustificazione una perenne ‘scarsità’ che costringerebbe a forzare violentemente gli ecosistemi, fino a distruggerli per sostituirli con un mondo totalmente artificiale e artificioso.
Altro elemento portante dell’ecologismo di Bookchin è l’idea che il dominio dell’Uomo sulla Natura sia conseguenza di quello dell’Uomo sull’Uomo, e non viceversa come intende Marx. A differenza di tanti polemisti-semplicisti, non ritiene sufficiente abolire lo Stato e i ‘grandi gruppi’ per risolvere ogni problema: senza intenti realmente libertari ed emancipatori, qualsiasi organizzazione sociale finirà inevitabilmente per provocare oppressione e quindi devastazione ambientale:
Si devono risolvere le ambiguità della libertà esistenzialmente, con principi e istituzioni sociali e con un’etica comunitaria che facciano della libertà e dell’armonia una realtà. (da L’ecologia della libertà )
La concezione di libertà di Bookchin, lontana anni luce dall’individualismo pseudo-nietzschiano di Unabomber, è ispirata alla paideia , ossia lo spirito di cittadinanza che caratterizzava le polis dell’antica Grecia. Scrive in Dall’urbanizzazione alle città:
Paideia è normalmente tradotto in inglese come educazione, un termine che si distingue per la sua scarsità e limitazioni. Per i greci, in particolare per gli ateniesi, la parola significava molto di più. L’educazione di un giovane ha comportato un processo profondamente formativo e lungo tutta la vita il cui esito finale lo ha reso una risorsa per la polis, per i suoi amici e la sua famiglia, e lo ha indotto a vivere secondo i più alti ideali etici della comunità…
La nozione moderna di “politica” come forma di “efficienza” manageriale o di educazione come mera acquisizione di conoscenze e competenze sarebbe parsa pietosa a un cittadino ateniese di epoca classica. Gli ateniesi si riunirono come ecclesia non solo per formulare politiche e formulare giudizi; si sono riuniti per educarsi reciprocamente alla capacità di agire con giustizia ed espandere i loro ideali civici di giusto e sbagliato. Il “processo politico”, per usare un luogo comune moderno, non era strettamente istituzionale e amministrativo; era intensamente processuale nel senso che la politica era un “curriculum” inesauribile e quotidiano di crescita intellettuale, etica e personale – paideia che favoriva la capacità dei cittadini di partecipare creativamente alla cosa pubblica, di portare le loro migliori capacità al servizio della polis e le sue esigenze, per gestire con intelligenza i propri affari privati secondo i più alti standard etici della comunità.
In questo senso, Bookchin si ricollega ad Hannah Arendt e Cornelius Castoriadis, ossia altri due pensatori di cui sarebbe importante conservare e valorizzare l’eredità intellettuale e che invece stanno progressivamente lasciando il posto a pessimi ideologismi. Al riguardo, ho una mia personale teoria, che ho già vagamente esposto nell’articolo su Unabomber.
Nauseati dalla società globalizzata oramai in fase marcescente e dai problemi sempre più insormontabili che ha creato (fino alla catastrofe climatica e al rischio di guerra nucleare), tante persone iniziano a rifiutare per partito preso tutto quanto possa essere etichettato come ‘moderno’ od ‘occidentale’ (quindi scienza, tecnica, liberalismo politico, ecc.), lasciandosi ammaliare da ciò che suoni tradizionalista (quasi sempre reinvenzione postmoderna che ha ben poco di tradizionale), mistico, irrazionale e ‘orientale’. Da qui insane passioni per i regimi russo e cinese nonché, più in generale, per le teorie complottiste e per guru di infimo valore. Facendo il verso a un famoso proverbio, si finisce per sostituire il bambino direttamente con l’acqua sporca.
Il ‘pensiero critico’, invocato da troppa gente che in realtà ha solo cambiato il prosciutto di fronte agli occhi, è un concetto prettamente occidentale: grazie ad esso, il demos ateniese potè contestare una tradizione che relegava il potere politico nelle mani di un ristretto numero di famiglie aristocratiche, iniziando i processi che portarono alle riforme di Solone (timocrazia) e Clistene (democrazia, poi perfezionata da Pericle). Di volta in volta, quando narrazioni che pure avevano svolto un ruolo emancipatorio sono assurte a loro volta a tradizioni dogmatiche e incontestabili, il pensiero critico ne ha decostruito le pretese: lo ha fatto l’Illuminismo con l’Ancien Regime, il socialismo con la società capitalista, l’anarchismo con lo stato centralizzato, l’ecologia con le logiche economiciste e industrialiste. Quando Gandhi si batté per l’uguglianza giuridica dei cosiddetti ‘intoccabili’, diede prova della sua educazione europea.
Con questo ovviamente non si vuole minimamente accreditare la tesi eurocentrica, ampiamente smentita, per cui certi ideali (come uguaglianza e democrazia) sarebbero prerogativa esclusiva occidentale. Tuttavia, consapevoli dell’opportunità di apprendere da chiunque e della necessità di una fortissima autocritica, come vogliamo comportarci con il nostro patrimonio culturale? Vogliamo disfarcene tout court, alla maniera del bambino stufo del vecchio giocattolo? Oppure vogliamo agire in modo davvero critico, sobbarcandoci il gravoso compito di recuperare quanto di buono è presente depurandolo da idee tossiche e malsane, come la mitologia intorno al Progresso, alla tecnoscienza e al mercato?
Per chi intenda intraprendere la seconda opzione, malgrado le difficoltà che comporta e l’impossibilità di ottenere facile consenso, rapportarsi con Murray Bookchin rappresenta un passo imprescindibile.
Immagine in evidenza: Murray Bookchin
E’ uscito ‘La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell’umanità‘, libro scritto da Jacopo Simonetta e Igor Giussani.
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