E’ da metà maggio che circolano notizie allarmate riguardo a una grave carenza di barattoli metallici che rischia di mettere in ginocchio il settore delle conserve alimentari:

 

 

La situazione pare il risultato di due fenomeni verificatisi simultaneamente durante la pandemia: l’accaparramento di prodotti conservati in reazione ai lunghi periodi di lockdown e il crollo della produzione di acciaio, che per il 56% circa afferisce alla Cina; di conseguenza, il prezzo delle bobine per fabbricare lattine è schizzato in pochi mesi da 400 a oltre 1.000 dollari a tonnellata. Siccome circa due terzi delle conserve in commercio sono vendute in barattoli di acciaio e il nostro paese può provvedere solamente a un ottavo del fabbisogno necessario, si paventa il rischio di un enorme spreco alimentare, in particolare di lasciare a marcire nei campi una grande quantità di pomodori. Sicuramente si assisterà a un rincaro dei prodotti finiti.

Nel suo piccolo, la ‘crisi dei barattoli’ rivela molto sulle dinamiche che coinvolgono la disponibilità effettiva delle risorse, al di là di considerazioni ingenue e luoghi comuni. Nonostante i materiali per produrre lattine siano ancora relativamente abbondanti (oltre che facilmente riciclabili), la scarsa domanda di acciaio ne ha generato una penuria che, a cascata, rischia di creare in Italia un’ulteriore insufficienza di passata, malgrado il nostro paese sia tra le primissime nazioni al mondo per produzione di pomodori. Inoltre, si evince chiaramente come piccole perturbazioni in qualche settore dell’economia globalizzata possano causare pesanti risvolti in campi apparentemente non correlati tra loro (cosa sembra accomunare siderurgia e coltivazione di ortaggi?).

Secondo il pensiero economico mainstream non c’è da preoccuparsi, basta un lieve aggiustamento al rialzo nei prezzi e passa la paura: sul momento i consumatori accuseranno il colpo, poi la ripresa della domanda cancellerà per sempre ogni problema e tutto tornerà come prima. Anche io immagino un esito abbastanza simile della vicenda, tuttavia mi astengo da pericolose generalizzazioni, a differenza degli economisti che, elevando a leggi naturali alcune situazioni contingenti, sminuiscono qualsiasi preoccupazione di scarsità.

L’esempio più estremo in tal senso è rappresentato da Julian Simon, il quale nel libro L’ultima risorsa (capace di meritarsi una entusiastica prefazione di Milton Friedman) asserisce addirittura che le risorse minerarie della Terra siano sufficienti per i prossimi sette miliardi di anni, calcolo stimato sommando tutti gli elementi disseminati per la crosta terrestre e dissolti nelle acque di mari e oceani. Una bella pacchia, a maggior ragione pensando che tra ‘solo’ due miliardi di anni la modificazione dell’attività solare dovrebbe rendere proibitiva la vita sul pianeta.

Tale visione ottimista-progressista si basa su alcuni assiomi fondamentali:

  • esisterà una tecnologia efficace per risorse sempe più complicate da sfruttare;
  • tale tecnologia godrà dell’apporto energetico sufficiente per il suo funzionamento;
  • le scorie e le esternalità provocate dall’attività industriale saranno gestite opportunamente;
  • sussisteranno le condizioni economiche adeguate perché l’intero processo funzioni al meglio.

 

Se i primi due punti sono atti di fede di cui solo i posteri potranno giudicare appieno la fondatezza, il terzo è già oggi ampiamente smentito: il riscaldamento globale del pianeta dovuto ai gas serra antropogenici ne è la prova più lampante. Al punto che, nonostante le viscere della Terra siano relativamente abbondanti di petrolio, carbone e gas, occorre emanciparsi con estrema rapidità da essi per non aggravare la catastrofe climatica. Uno scenario molto diverso da quello previsto da Hubbert, il quale inseriva il picco delle fonti fossili in una visione ‘progressista’, come conseguenza dello sviluppo esponenziale della tecnologia nucleare. 

 

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Tagli delle emissioni di gas serra necessari per contenere l’aumento di temperatura di 1,5°C rispetto all’era preindustriale (Fonte: IPCC 2016)

 

Qui arriva un altro aspetto critico della questione. I combustibili fossili (l’85% sul totale mondiale dell’energia primaria) sono la linfa vitale di quel business as usual che, quando funziona al meglio, garantisce abbondanza di beni attraverso gli aggiustamenti dei prezzi legati alle dinamiche domanda-offerta. In particolare, alimentano la megamacchina estrattiva, la rete globale dei trasporti e il sistema agroalimentare, ossia il nucleo fondante del benessere materiale della società umana (o meglio: della frazione che ne può godere). Senza dimenticare il contributo fondamentale per costruire l’infrastruttura tecnologica della decarbonizzazione: pannelli fotovoltaici, pale eoliche, reattori nucleari, sbarramenti idroelettrici, ecc.

L’ipotesi di limitare l’utilizzo delle fonti fossili alle attività essenziali, a prima vista del tutto ragionevole, presenta non pochi problemi di fattibilità. In primis, c’è il forte rischio di ritrovarsi con una ‘coperta corta’, se pensiamo che il solo comparto alimentare globale, secondo la FAO, impegna il 32% dei consumi energetici planetari (e la popolazione mondiale si prevede ancora in crescita). In secondo luogo, il crollo della domanda di idrocarburi per ottemperare alla transizione ecologica renderebbe cronica l’ondata deflattiva che già oggi affligge pericolosamente il settore a causa della scarsa domanda, rendendo insanabile il contrasto tra bassi prezzi di vendita e costi di produzione sempre più elevati.

Anche in questo caso, la risposta al problema sembra abbastanza scontata: socializzare le perdite. Oramai, dopo il crack del 2008 e la recessione conseguente alla pandemia, il liberismo ha perso seguaci e l’intervento dello stato in economia non è più tabù, viene anzi invocato con fervore. Tutti i guru di privatizzazioni, sgravi fiscali ai ricchi e pareggio di bilancio si sono scoperti improvvisamente keynesiani (vedi il nostro Draghi) e le ‘politiche espansive’ sono sulla bocca di tutti.

Del resto, la marcescente industria delle fossili è già lautamente sovvenzionata (circa 300 miliardi di dollari l’anno), quindi forse si tratterebbe solo di sciogliere un po’ di più i cordoni della borsa da parte degli stati, i quali però si troverebbero decisamente sovraccaricati di oneri. Infatti, dovrebbero allo stesso tempo:

  • innescare una ripresa economica non in stile business as usual, incentivando quindi la decarbonizzazione a ogni livello: produzione industriale, mercato, formazione e ricerca, ecc.;
  • contenere la portata del danno ambientale e far fronte a emergenze improvvise, come i cigni neri (che poi tanto neri non sono) in stile Covid;
  • supportare le attività economiche e le fasce di popolazione inevitabilmente colpite dall’attività di riconversione ecologica, in maniera analoga a quanto accaduto con i lockdown;
  • assicurare il welfare, la previdenza sociale e altri servizi ritenuti oramai imprescindibili, che nei paesi occidentali costituiscono il 40-50% della spesa pubblica.

 

Tutto questo in un contesto in cui gran parte della nazioni del pianeta sono pesantemente indebitate. Mi pare di sentire slogan e parole d’ordine tipici quando la discussione verte su questo tema: guerra agli sprechi e alla burocrazia, tassazione dei grandi patrimoni, sovranità monetaria, tagli alla Difesa, ristrutturazione del debito pubblico, ecc. Proposte che meritano di essere esaminate seriamente e dalle quali è sicuramente possibile trarre indicazioni utili per affrontare il futuro, senza però mettere la testa sotto la sabbia e negare un evidente problema di fondo.

Nel terzo e ultimo aggiornamento de I limiti dello sviluppo (pubblicato in Italia con il titolo I nuovi limiti dello sviluppo) si immagina uno scenario (il sesto, in ordine di presentazione) contrassegnato a partire dal XXI secolo da uno sviluppo tecnologico formidabile nell’abbattimento degli inquinanti, nell’aumento delle rese agricole, nella salvaguardia dei suoli e nell’efficientamento dell’impiego delle risorse non rinnovabili.

 

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Rispetto a quanto avvenuto realmente si tratta di pura fantascienza, ma non è questo il punto focale, bensì capire perché i prodigi tecnologici ritardino ma non impediscano il collasso a partire dal 2040 circa. Lasciamo la parola direttamente agli autori:

 

Le tecnologia e il mercato costano in risorse, energia, denaro, lavoro e capitale. A mano a mano che si approssimano ai limiti, questi costi tendono a crescere, e lo fanno con andamento lineare. Questa è un’altra causa di comportamenti sorprendenti del sistema.

 

Se tutto ciò avviene nell’astrattezza del mondo simulato, figuriamoci in quello reale, gravato da molte più variabili critiche.

Personalmente, sono convinto che nel futuro prossimo si ripeteranno con una certa frequenza fenomeni simili alla ‘crisi dei barattoli’. Eventi paragonabili ai piccoli smottamenti di neve che precedono le grandi valanghe, ma la cui rapida ‘soluzione’ positiva sarà per lo più ritenuta la prova tangibile del fatto che, apparentemente, tutto procede per il meglio. O quasi.

 

 

 

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