Possiamo rappresentarci l’economia globale come una megamacchina, costituita dall’insieme di tutte le machine e motori di ogni genere mediante cui facciamo tutto ciò che ci serve. Strutture sociali ed organizzazioni di ogni tipo ne fanno anch’esse parte ed ognuno di noi ne è un minimo ingranaggio.

Ovviamente una simile megamacchina deve essere alimentata e, dunque, troviamo in entrata un flusso costante di energia, sotto svariate forme, e materie prime. Alcune minerarie e quindi non rinnovabili per definizione; altre sono rinnovabili, ma solo la luce solare, il vento e le onde sono anche inesauribili. La scomparsa di molti banchi di pesca, l’inaridimento, l’erosione, l’estinzione di specie sono solo alcuni dei molti esempi di come anche risorse rinnovabili vengano facilmente esaurite o degradate.

Il “motore” globale elabora tutto ciò che gli viene dato ricavandone un insieme di oggetti e di servizi (anch’essi resi utilizzando oggetti e dissipando energia), oltre ad una massa di scarti che vengono accumulati da qualche parte: in discariche, nelle acque, nell’aria, ecc. Ma anche gli oggetti, perfino quelli più duraturi, prima o poi divengono rifiuti, mentre i servizi scompaiono nel momento stesso in cui sono realizzati. In tutto questo il denaro non è altro che il lubrificante del motore che, se ben dosato e distribuito, olia la megamacchina, evitando che grippi. In sintesi, si può dire che l’economia non è che un elaborato sistema che distrugge risorse per produrre rifiuti. La vita delle persone (anch’esse prima o poi rifiuti da smaltire) ne è il risultato che ci interessa.

Una metafora, questa, evidente ed abbastanza realistica, ma che ha un grosso difetto: semplifica e distorce la visione. Ognuno di noi sa che se si vuota il serbatoio (o si scarica la batteria) la nostra auto si ferma e basta. Di qui il nostro istintivo interesse principalmente rivolto a ciò che alimenta la megamacchina economica, in particolare energia sotto ogni forma e materie prime strategiche. L’esaurimento di importanti giacimenti, ad esempio, suscita vera apprensione ed accorata ricerca di alternative. Una sana preoccupazione, ma che rischia di farci dimenticare altri aspetti non meno importanti della faccenda.  Anzi, forse anche più importanti.

Mi riferisco innanzitutto alla struttura ed al funzionamento interno del sistema che, come qualunque motore, se le sue varie parti non sono ben integrate, proporzionate e lubrificate, gira male ed eventualmente si rompe, generando disordine sociale, miseria, rivolte, guerre, corruzione, ecc. Ma il motore può anche diventare troppo grande rispetto alla struttura che lo sostiene, tanto da provocarne il collasso. Siamo infatti abituati a pensare che un motore è sostenuto da un telaio, oppure da un edificio od altro che, se indebolito o soggetto ad eccessivo peso, si può rompere provocando la distruzione del sistema. 

Solo pochissimi di noi sono invece abituati a pensare che qualunque economia è sostenuta da un insieme di strutture fisiche, chiamate ecosistemi, che creano e mantengono i presupposti affinché il “motore economico” possa funzionare correttamente. A partire dalle sue componenti umane che abbisognano innanzitutto di aria, acqua, spazio e molte altre cose che solo ed esclusivamente la Biosfera può fornire; nessuna macchina può, né potrà mai per quanto avanzata tecnologicamente.

Una considerazione, questa, che ci porta ad osservare con attenzione anche cosa esce dal nostro motore. Da tempo oramai i disastri prodotti dall’inquinamento sono all’ordine del giorno e, da una decina d’anni almeno, anche il grande pubblico sente parlare con insistenza degli effetti disastrosi che i gas di scarico della nostra megamacchina esercitano sul clima. Qualcuno anche osserva con ira crescente la triste farsa delle COP: garruli consessi in cui i pesci grossi cercano potere, i pesci piccoli cercano soldi e tutti cercano di scaricarsi l’un l’altro la responsabilità del totale fallimento di cotanta impresa. O, in alternativa, tentano di spacciare come un grande successo lo spostamento di una virgola in testi che, in ultima analisi, dicono sempre la stessa cosa: è stato fieramente deciso che prima o poi decideremo di fare qualcosa sul serio; per ora abbiamo tante buone intenzioni.

Di qui la battaglia di organizzazioni vecchie e nuove per una drastica riduzione di tali emissioni, ma poiché perverso è il sistema di cui siamo parte, perversi ne sono necessariamente i risultati. Perversione è infatti ciò che persegue scopi opposti a quelli che dovrebbe. Perverso è, ad esempio chi, invece di corteggiare una ragazza, la stupra. Oppure chi raccoglie cani randagi per divertirsi a torturarli. Ma perverso è anche un sistema politico-economico che utilizza i fondi per la riforestazione per costruire fabbriche di bricchette, oppure i fondi per ridurre le emissioni climalteranti per vendere gadget tecnologici, anziché per convincere le persone ad abbassare i propri termostati e spengere tanti lampioni. Tanto per fare gli esempi più banali.

Così, in nome e per conto della salvaguardia del clima, anziché ridurre la natalità in alcuni paesi ed i consumi in altri, si alza un polverone globale che nasconde un aspetto tanto importante, quanto negletto di tutta questa “vexata questio”: sulla Terra esistono umani ed esistono civiltà perché il Pianeta ha un’entropia nettamente più bassa di quella degli altri pianeti conosciuti. L’alterazione del clima, così come tutti gli altri “problemi” ambientali sul tappeto, deriva in ultima analisi da un aumento di entropia terrestre. 

Aumento che è indissolubilmente legato alle nostre attività umane, quali che siano, perché qualunque cosa faccia un animale, accresce l’entropia del suo ambiente ed esiste una ed una sola cosa che la può nuovamente ridurre: la fotosintesi.
Foreste, paludi, alghe e praterie sono insomma ciò che assicura che sulla Terra ci siano i presupposti per la vita e la civiltà.  Come i bambini che si accorgono di aver bisogno della mamma solo quando questa si allontana, noi ci stiamo rendendo conto, ma troppo poco e troppo tardi, che non siamo divinità e che la nostra vita e la nostra potenza dipenddono da tutto ciò che siamo soliti distruggere.

Riassumendo, qualunque attività umana comporta dissipazione di energia e qualunque dissipazione di energia, di qualunque tipo questa sia, comporta un aumento di entropia del pianeta, dunque un danno anche per noi. Ne consegue che una strategia di sopravvivenza della civiltà, se non proprio della nostra specie, dovrebbe essere articolata chiaramente e apertamente su due pilastri: ridurre le nostre attività e restaurare gli ecosistemi degradati.

Ovviamente ci sono dei limiti a ciò che può essere fatto, ma per entrambi i pilastri esistono molto ampi spazi di manovra e di creatività. Sarebbe un’avventura entusiasmante provarci, ma lo faremo? Per ora no, semmai siamo concentrati sul contrario, ma il futuro giace in grembo a Zeus, vedremo.

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