“Migliorare la competitività e la sostenibilità delle industrie forestali dell’UE, della bioenergia e dell’economia verde in generale è un obiettivo prioritario poiché il legno europeo, materia prima naturale, rinnovabile, riutilizzabile e riciclabile, proviene da foreste gestite in maniera sostenibile ed è trattato e usato in modo tale da ridurre al massimo gli effetti negativi sul clima e sull’ambiente fornendo al contempo mezzi di sussistenza e svolgendo un ruolo importante nella bioeconomia della Ue.”
Così Marino Berton in un importante, duplice articolo dal titolo “Direttiva europea rinnovabili e biomasse forestali sotto attacco” parte 1 e parte 2 su “Quale Energia”.
Parole rassicuranti, inserite in un lungo e circostanziato testo volto a dimostrare la pretestuosità dell’appello e delle petizioni presentati da alcune ONG e numerosi cittadini contro alcune parti della Direttiva europea sulle energie rinnovabili “Red II” attualmente in discussione. In particolare, contro il sovvenzionamento pubblico dei combustibili ricavati dai tagli boschivi.
Il tema è complesso e per essere affrontato in maniera soddisfacente sarebbero necessari almeno due corsi propedeutici di 50 ore cadauno: uno in ecologia forestale ed uno di termodinamica dell’economia industriale.
In attesa che qualche importante ateneo trovi l’argomento degno di attenzione, tenterò di riassumere alcuni punti fondamentali, desunti da 40 anni di lavoro come “ecologo di campagna”. Beninteso, tutto ciò sarà necessariamente approssimativo e lacunoso.
PARTE 1 – Il picco dell’energia.
Per questa parte, rimando senz’altro al cospicuo articolo di Luca Pardi “Dopo la crescita e verso il Picco di Tutto”.
Qui mi limiterò a ricordare che il rendimento economico dell’energia dipende da diversi fattori.
In particolare: la sua concentrazione (quanta energia per chilo o per litro), la facilità di estrazione e raffinazione (l’energia non si produce, si estrae e si trasforma), la facilità di trasporto dai siti di estrazione ai luoghi di dissipazione (l’energia non si consuma, ma viene resa inservibile), la versatilità (in quanti e quali modi può essere utilizzata).
Di fatto, dalla preistoria agli anni ’70 abbiamo via via aggiunto (NB. mai sostituito, sempre aggiunto) fonti energetiche qualitativamente migliori a quelle già in uso: prima cibo, poi legna, quindi vento ed acqua corrente (mulini, pompe e velieri). Poi il carbone che permise il raddoppio della popolazione mondiale in meno di un secolo; infine petrolio che, ad oggi, rimane di gran lunga la migliore in assoluto (dal punto di vista economico, s’intende). Dobbiamo principalmente al petrolio se oggi siamo quasi 8 miliardi.
Un materiale ben noto da quasi un secolo prima, ma fino ad allora scartato perché costoso e pericoloso da trasportare, oltre che molto meno versatile del petrolio che, però, non bastava più. L’idroelettrico data anche lui dal XIX secolo e non ha margini per ulteriori, sensibili sviluppi (i posti adatti sono già tutti presi). Anche il nucleare (grande promessa degli anni del boom economico) tende più a ridursi che ad aumentare. In ultimo sono giunte il solare (termico e fotovoltaico) e l’eolico moderno, ma tutte queste insieme sono una goccia nel mare dei un bisogno di energia tanto più disperato quanto più la qualità del petrolio e del carbone va scemando.
Così abbiamo visto prima un revival del carbone (compresa la lignite che 30 anni fa era stata dismessa con disprezzo) ed ora perfino del legname: di gran lunga la fonte energetica con il minore rapporto di concentrazione, le maggiori difficoltà di trasporto, la minore versatilità ed i maggiori impatti diretti sul territorio. Davvero roba da medioevo (per una volta in senso proprio). Perché?
E’ semplice. Qui non possiamo dilungarci sull’argomento, ma vale la pena di ricordarlo e di tenerlo presente leggendo le prossime pagine: La nostra civiltà sta morendo di una subdola inedia energetica. Anche se i quantitativi di energia immessi sul mercato aumentano, le fasi di estrazione, raffinazione e trasporto assorbono una percentuale rapidamente crescente dell’energia commerciale, lasciandone sempre meno a disposizione dell’economia globale, al netto dell’industria energetica stessa.
Amen. Possiamo crederci o meno, fa poca differenza perché, tanto, è ben poco qual che potremmo farci.
PARTE 2 – Spiccioli di ecologia forestale.
Cosa è un bosco e come si valuta la superficie forestale?
L’Europa è un continente da millenni densamente popolato, da secoli sovrappopolato cosicché tutti i suoi ecosistemi sono stati più o meno intensamente e recentemente antropizzati. Oggi forse il 4% dei nostri boschi può essere considerato a tutti gli effetti come una foresta; quasi tutto il resto sono varie tipologie di ecosistemi giovani ed instabili come piantagioni da legno, rimboschimenti e cedui cresciuti su terreni ex-agricoli, oppure nati dal taglio dei castagneti da frutto, ecc. Come li dobbiamo considerare?
Per esempio: la pineta di S. Rossore (quel che ne resta) è un bosco? Oppure è un frutteto in abbandono parzialmente colonizzato da una giovanissima lecceta resiliente? Le abetaie cadorine (quelle venute giù in massa con la tempesta del 2018) sono boschi o monocolture da legno? E come considerare i castagneti o le pioppete?
Ma la valutazione dipende anche dall’ottica temporale prescelta. Per esempio, una superficie soggetta a taglio raso o ad un incendio cessa di essere un ecosistema boschivo per almeno venti anni (talvolta per secoli), ma continua ad essere qualificata come bosco se vi si piantano o se si presume che vi nasceranno nuovi alberi (se poi cresceranno davvero lo sapremo solo fra molti anni).
Di conseguenza, cosa sia bosco e cosa no dipende in buona parte da chi ne parla, in che contesto e con quali scopi. Quale sia la superficie forestale è quindi un dato che per essere preso sul serio dovrebbe essere accompagnato da una spiegazione circa la classificazione degli habitat adottata.
Come funziona un bosco?
Per la maggior parte di noi i boschi sono superfici coperte di alberi, ma la realtà è molto più complessa e la parte principale non la vedremo mai perché si trova sottoterra. In un ecosistema forestale degno di tanto nome, si sviluppano infatti relazioni estremamente intricate non solo fra le chiome, il sottobosco e gli animali. Soprattutto, vi si sviluppano reti incredibili che collegano radici, funghi, micorrize, il microbioma ed una fauna del suolo che è molto, ma molto più importante dei cervi e dei lupi. In gran parte è tramite queste reti che gli alberi si scambiano materiali ed informazione, si nutrono o si avvelenano vicendevolmente.
In un metro quadro di suolo forestale si trovano dai 30 ai 550 grammi di batteri, fra 60 e 100 g di ife fungine, da 0,5 a 10 g di alghe e 5 – 20 g di protozoi, più molte altre cose meno rilevanti. Vuol dire fino a 8 miliardi di cellule viventi per grammo di terreno. Quando si interviene sugli alberi, si interviene anche su tutto questo, ma è rarissimo che qualcuno ci pensi.
Il ruolo chiave è giocato delle piante più vecchie che costituiscono i nodi principali di queste reti; dei veri e propri “hub” che regolano in gran parte la vita del bosco. E’ questa una delle ragioni per cui mai e poi mai si dovrebbero tagliare queste piante cui, al contrario, si dovrebbero assicurare la tutela (anche dopo morti) ed il ricambio. Cioè esattamente i contrario di quanto insegnavano (e credo che tuttora insegnino) nelle facoltà di selvicoltura.
Quando si tolgono gli alberi più vecchi, infatti, il livello di integrazione fra i vari elementi dell’ecosistema si riduce e per essere ripristinato occorrono secoli. Di conseguenza, la resilienza e la capacità di adattamento dell’ecosistema diminuiscono drasticamente, rendendo il bosco molto più vulnerabile, per esempio alle avversità climatiche ed ai parassiti.
Come nascono, crescono e muoiono gli alberi? Ed i boschi?
Un punto fondamentale che a scuola dimenticano spesso di spiegarci è che l’evoluzione delle piante è in gran parte lamarckiana. Vale a dire che i caratteri acquisiti dal fenotipo durante la sua vita vengono trasmessi alla discendenza tramite i semi. Un fatto di cui si dovrebbe tenere gran conto.Un secondo fatto spesso dimenticato è che l’evoluzione delle piante dura per tutta la loro vita. Nel caso della maggioranza degli alberi e di molti cespugli, ma non solo, questo può significare molti secoli, superando avversità di ogni genere. Non è affatto raro che in un’unica antica chioma si trovino rami con genomi diversi fra loro e diversi da quello delle radici. Può sembrare un paradosso, ma più le piante sono vecchie, più la loro discendenza è adattata ai tempi moderni.
Proprio le piante più vecchie sono infatti quelle che sono state in grado di crescere e sopravvivere meglio attraverso una più vasta gamma di avversità come incendi, ondate di calore, parassiti e tempeste. Decenni, talvolta secoli di pignolissimo lavoro di selezione che può essere spazzato via in pochi minuti da una motosega. Pochi secondi da una delle macchine attuali. In pratica, i metodi forestali correnti tendono a selezionare sistematicamente i riproduttori peggiori.
La maggior parte dei boschi italiani ed europei sono molto giovani e non hanno dei veri “patriarchi” al loro interno, men che meno una rete di alberi-chiave e questo è un grosso problema. Un altra gravissima tara è la scarsa biodiversità che, anch’essa, riduce la resilienza dell’ecosistema e, spesso, anche la produttività primaria (ma non sempre).
Rispetto al’Asia ed al Nord America, la geografia europea ha fatto sì che le glaciazioni vi provocassero l’estinzione di molte specie che altrove sono invece sopravvissute. Una situazione fortemente peggiorata dal massiccio disboscamento che la maggior parte del nostro sub-continente ha subito a più riprese nella storia. Alla fine, oggi le specie forestali in Europa sono meno di un centinaio e una decina appena costituiscono la quasi totalità dei nostri soprassuoli. Una situazione invero disperata che dovremmo cercare di lenire invece di aggravare.
La durata della vita degli alberi varia moltissimo, da alcune decine a migliaia di anni a seconda delle specie; teoricamente infinito in alcuni casi. Comunque, diciamo che per le specie forestali principali dei nostri boschi l’aspettativa di vita media sarebbe di 4 o 5 secoli, pur potendo essere molto di più (anche 2.000 anni per alcune specie come l’Abete bianco, il Tasso ed il pino loricato). Querce, faggi, castagni e olmi di 7-800 anni sarebbero comuni, se non li avessimo già tagliati quasi tutti.
Per gli alberi, la morte può anche avvenire in modo brusco, ma di solito muoiono con molta calma e gradualità. E’ del tutto normale che mentre parti della chioma siano già morte, altre continuino a prosperare. Un’altra delle tante peculiarità che deriva loro dal fatto di essere degli organismi semi-coloniali. Una cosa molto difficile da capire per noi, ma che dovremmo sempre tener ben presente quando li osserviamo e quando pensiamo ad essi.
I boschi ed il Global Warming
Nei climi temperati, gli alberi approfittano dei mesi primaverili per crescere e di quelli estivi per accumulare riserve che serviranno soprattutto nella primavera successiva per formare la nuova chioma. Se per un’estate fa troppo caldo e secco per poter fotosintetizzare a sufficienza, l’albero perderà parte delle foglie, ma poco male perché può attingere alle riserve di lungo periodo che saranno reintegrate nelle annate successive. Se, però, la pianta ha difficoltà per parecchie estati successive, gradualmente esaurisce le sue scorte e si indebolisce, diventando progressivamente più vulnerabile ad ulteriori avversità come incendi, parassiti, ondate di calore. I sempreverdi, come pini ed abeti, funzionano in modo un poco diverso, ma vale sempre il fatto che le piante in buona salute possono sopravvivere ad avversità notevoli, mentre una serie di annate sfavorevoli le rende vulnerabili.
Segnali generici di sofferenza sono, per esempio, la ridotta produzione di semi e/o l’attacco virulento di insetti e rampicanti, in particolare dell’edera (che è un vero predatore vegetale). Segni più specifici sono meno evidenti, come la minore densità foliare, il colore verde meno intenso, la morte degli apici dei rami ed il conseguente contrarsi della chioma.
A livello di ecosistema, lo stesso tipo si stress ha ulteriori effetti: soprattutto la ridotta vitalità del suolo e la riduzione della biodiversità, in particolare dei funghi che, mancando l’acqua, riducono o cessano l’attività, disgregando le simbiosi. La perdita di vitalità del suolo si traduce quindi in una minore funzionalità o nella perdita delle reti ecosistemiche cui si è fatto cenno, cosa che rende l’intero bosco più vulnerabile e meno efficiente. E’ questa una condizione oramai comune alla maggioranza dei nostri boschi.
Ricordiamoci sempre che la resistenza e la resilienza dei sistemi dipendono dall’entità delle loro riserve e dalla ridondanza delle loro reti.
Un effetto particolarmente insidioso che opera anche a livello di individui, ma che è devastante a livello di ecosistemi, è lo sfasamento fra le temperature e la luce. Gli ecosistemi si reggono infatti su reti di relazioni fra organismi diversi che, alle nostre latitudini, sono regolate e coordinate sostanzialmente da due “orologi”: le temperature e l’illuminazione. Il GW sta provocando un netto aumento delle prime, mentre la seconda rimane uguale. Questo sta sfasando i cicli delle piante, dei funghi e degli insetti, con effetti catastrofici per gli animali, ma probabilmente gravi anche per le piante (un punto questo su cui però si sa ancora molto poco).
Un altro elemento particolarmente nocivo è rappresentato degli incendi, quasi sempre di origine dolosa o preterintenzionale, ma resi particolarmente frequenti e distruttivi dal processo di inaridimento ormai cronico in quasi tutta l’Europa. In parte, questo dipende dalla modifica del regime pluviometrico (piogge meno abbondanti e più concentrate), in parte dalla captazione delle sorgenti e dei torrenti sia per alimentare gli acquedotti delle città, sia per far girare delle turbine elettriche.
In condizioni normali, a cavallo dei corsi d’acqua c’era infatti una fascia di vegetazione dai tessuti ricchi d’acqua che fungevano, fra l’altro, anche da frangi-fuoco naturali. Una struttura scomparsa assieme ai torrenti.
Si possono tagliare i boschi?
Con qualche eccezione, certo che si. Anzi ci sono milioni di ettari di piantagioni di conifere o di cedui semplici che avrebbero urgenza di un diradamento. Il problema è: come tagliare?
Quando ero studente mi fu insegnato che bisognava “svecchiare il bosco” per aumentarne la produttività. Gli alberi giovani crescono infatti più rapidamente di quelli vecchi.
Senza considerare che per molte specie arboree la fase giovanile supera i 100 anni, in linea di massima le piante molto giovani crescono di più in percentuale, ma non in cifra assoluta. Per essere chiari: un alberello di 100 Kg che cresce del 10% farà 10 chili di nuovo legno in un anno. Un grande albero di 5 tonnellate che cresce dell’ 0,5% farà 250 kg di nuovo legno, sottraendo all’atmosfera venticinque volte più CO2. E questo non è l’unico fattore di cui occorre tener conto, ne cito alcuni altri in ordine sparso.
L’aumento di luce e calore seguenti un taglio può danneggiare ed anche uccidere le piante rimaste (alberi, arbusti ecc.) e sempre danneggia più o meno il suolo, attaccato anche da una ripresa dell’erosione che può essere passeggera, grave o anche catastrofica a seconda di molti fattori (natura delle rocce, pendenze, mezzi utilizzati, densità delle piante rimaste, clima, ecc.).
Non bisognerebbe mai dare per scontato (come di solito si fa) che nei prossimi decenni gli alberi ricresceranno in modo analogo a quanto hanno fatto nel recente passato perché completamente diverso sarà il contesto in cui si troveranno. In particolare, prolungate siccità, colpi di calore e tempeste aumenteranno certamente. Un discorso a parte va fatto per l’aumento delle temperature medie e massime che, se associate a carenza di acqua, fanno aumentare la respirazione più della fotosintesi. Vale a dire che oramai ci sono periodi in cui le piante invece di crescere consumano sé stesse ed emettono più CO2 di quella che assorbono. Oramai non è raro che in estate i boschi non solo cessino di crescere, ma addirittura che perdano gran parte delle foglie, abbreviando di molto la stagione vegetativa e perdendo resilienza.
Anche la catastrofica riduzione dell’entomofauna e, viceversa, il massiccio ritorno degli ungulati cambiano drasticamente le condizioni ambientali del futuro rispetto al quelle del recente passato.
L’errore più grave che un tecnico forestale possa oggi commettere è pensare che nei prossimi 50 anni i boschi cresceranno come hanno fatto nei trascorsi 50.
Non è assolutamente un fatto secondario dal momento che, di solito, i danni maggiori ai suoli ed alla stabilità dei versanti vengono fatti proprio per aprire delle piste di accesso per i camion. Danni di solito tanto più gravi, quanto più delicate sono le situazioni in cui si opera.
Un tempo si usavano massicciamente muli e teleferiche che in certi casi potrebbero tornare a sostituire i mezzi meccanici, ma con un aumento dei costi che le ditte non vogliono o non possono sostenere.
(Una parentesi: non si faccia l’errore di credere che la selvicoltura del passato fosse migliore di quella attuale perché spesso era perfino peggio).
Abbiamo accennato che i boschi italiani ed europei sono in massima parte molto giovani, molto densi e con una biodiversità ridotta ai minimi termini. In queste condizioni, il taglio non solo è possibile, ma anche auspicabile perché, se ben fatto, può abbreviare di decenni il periodo necessario perché ammassi di giovani alberi diventino dei veri boschi. Viceversa, un taglio di tipo commerciale standard, arresta lo sviluppo dell’ecosistema o, addirittura, lo fa regredire ad uno stadio successionale ancor più precoce.
Per dirla in termini tecnici, come ogni ecosistema, un bosco è formato da riserve e flussi di materia, energia ed informazione. Quando si tagliano delle piante, si riduce necessariamente lo stock di materia, ma non è detto che sia un problema se il conseguente aumento del flusso di energia è proporzionato agli altri fattori ambientali. Il problema vero è la distruzione di informazione; qualcosa che, come abbiamo accennato, fa capo in buona parte al suolo ed agli alberi maggiori. Cioè proprio quelli che danno i maggiori margini di guadagno. A parità di altri fattori, infatti, la redditività del taglio dipende dalla dimensione dei tronchi.
In pratica, un taglio che aiuta lo sviluppo dell’ecosistema comporta un piano di assestamento su almeno tre secoli, molti interventi leggeri e graduali su piccole superfici, una visione ecologica nella scelta delle piante da abbattere, metodi di esbosco che non danneggino il suolo, interventi integrativi di reintroduzione di specie arboree ed arbustive localmente estinte. Tutte cose che costano molto oggi e che daranno vantaggi fra 50 o 100 anni. Per questo semplice e solido motivo, la prassi è di fare più o meno il contrario di ciò che si dovrebbe fare.
I “boschi abbandonati”
Nessun professionista serio usa mai questo meme che, invece, continuamente rimbalza sulla stampa e nell’ambiente politico-imprenditoriale da cui dipende il destino dei nostri boschi.
Nato in gran parte dalla nostalgia dei vecchi montanari per la propria gioventù, il meme attribuisce qualunque evento sgradevole o disastroso che avviene alla carenza di “cura” (cioè di assidui tagli) .
Abbiamo già detto che molti dei boschi attuali sono costituiti da piantagioni di conifere o da giovani cedui che effettivamente avrebbero bisogno di almeno un paio di diradamenti ben scaglionati nel tempo. Ma è anche vero che, nel complesso, le condizioni di salute dei boschi e delle montagne è oggi molto migliore che “ai miei bei tempi”, quando la fame spingeva la gente a grattare qualunque cosa fosse in qualunque modo utilizzabile e l’erosione raggiungeva tassi oggi inimmaginabili, malgrado tutte le tempeste che ci regala il GW.
Quando però la legittima opinione di un anziano diventa pretesto per fare danni difficili da recuperare o, addirittura, per varare un decreto legge che consegna le foreste all’industria del cippato (quando non direttamente alla mafia), la faccenda diventa grave. Anzi gravissima.
Una moderna centrale termoelettrica a legname.
come inquadri un elemento importante nella gestione del legname, inquinante nel suo uso energetico il concetto che in alcune regioni virtuose viene in parte già usato : espianto, riuso e reimpianto credo in una logica del 25 % di un bosco alla luce delle tue affermazioni?
Oggi ci sono caldaie in classe 5 costose ma efficienti che bruciano a 1300 gradi C , quindi praticamente senza rilascio di percolato assieme a filtri ad acqua .
La battaglia che vuole l’utilizzo del legname come risorsa rinnovabile ad oggi, nonostante le nuove tecnologie, non è affatto risolta e merita attenzione .
Nella logica di cui parli è certamente più difficile distinguere in un appezzamento boschivo fra alberi vecchi e nuovi, infatti poi chi ha le concessioni taglia e amen
Aspetta la seconda puntata.
Venerdì prossimo, penso.
Articolo molto interessante, specialmente per quanto riguarda le piante vecchie, delle cui caratteristiche “lamarkiane” non sapevo nulla (il resto sulla biocenosi e’ gia’ piu’ di domino comune, e intuitivo, per i naturalisti dilettanti).
Interessante anche la miserevole “net energy” dell’idrogeno mostrata nell’immagine, di cui nessuno parla piu’ ma che fino a qualche anno fa sembrava fosse la soluzione di tutti i problemi energetici, climatici e di inquinamento… cosi’ come in giro in altri siti ecologisti comincio a vedere che, dopo aver negato in tutti i modi l’importanza della vegetazione quale assorbitore netto di CO2 e mitigante climatico per non distogliere l’attenzione dal “capitalismo petrolifero assassino” causa di tutti i mali del mondo (e se entrambi, capitalismo e suoi nemici, non fossero invece un ennesimo effetto dell’avidita’ e aggressivita’ umane?) ora si comincia a riconoscere che le piante forse sono proprio il regolatore, grazie alla loro crescita che e’ proporzionale al tasso di CO2 come ben sanno per esperienza pratica da sempre gli agricoltori in climi freddi e serra chiusa. Bastava chiedere a un banale, normale agricoltore.
Un’ultima cosa, importante: negli ambienti ecologisti comincia a montare una discrasia fra l’uso rinnovabile della legna per il riscaldamento, e il “tremendo” inquinamento da tale combustione prodotto. Non e’ difficile trovare analisi secondo le quali l’inquinamento della val padana e’ causato in massima parte dall’uso della legna per il riscaldamento, e in alcune citta’ ne e’ proibito l’uso gia’ da molti anni. Sfruttamento sconsiderato e pellet industriale a parte, che come tutti gli eccessi sono da esecrare, c’e’ il rischio che, su spinta ecologistica, vengano implementate politiche di divieto assoluto all’uso della legna, che personalmente troverei demenziali (io vivo in campagna e gia’ da molti anni uso solo la mia legna, peraltro di alberi morti o di potature, come unica fonte di energia per riscaldarmi il minimo necessario durante l’inverno (vivo praticamente da eremita a “impatto zero”) , e vedo con terrore, e orrore, eventuali ennesimi divieti indiscriminati, che peraltro sarebbero gia’ in vigore nel mio comune, sebbene io abiti a grande distanza dalla citta’ e dalla casa piu’ vicina). Non se ne puo’ piu’, l’unico modo di non essere di peso e fastidio in effetti e’ terminarsi, nulla va bene.
Sembra proprio che esagerare sia la cosa che ci riesce meglio, assieme all’essere anacronistici. Come altrimenti considerare il divieto di uso della legna nei caminetti nelle case di campagna e di paese e il contemporaneo sovvenzionamento dell’industria del cippato e del pellet?
Winston
https://acquistipazzi.it/giubbotto-riscaldato-migliori/
Perché riscaldare l’ambiente quando basterebbe riscaldare il corpo?
Adesso ci scommetto che mi tagliano il commento. È un sito difficile.
Comunque tieni duro. Sei il migliore.
Beh, visto che non sono stato “tagliato” vado avanti. C’è un bellissimo libro di Vito Fumagalli “L’uomo e l’ambiente nel medioevo” dove relativamente alla pianura padana si trova scritto :
“La foresta, il bosco , la brughiera arretrano massicciamente di fronte all’avanzare delle terra coltivate ….Dati allarmanti per la sopravvivenza delle terre incolte emergono precocemente dai documenti dell’epoca”.
Voglio dire, il legname era un lusso già per la scarsa popolazione del medioevo. Figuriamoci oggi.
Quindi, che fare? Personalmente sono convinto che l’unica strada percorribile sia quella tecnologica. Ma bisogna intendersi su quali tecnologie adottare e sicuramente perchè si passi a fare certe scelte bisogna che ce ne sia la necessità urgente. (Attualmente riscaldarsi con un giubbotto termico potrebbe sembrare ridicolo, ma un domani, non si sa. In genere lo stesso discorso vale anche per molte altre tecnologie già disponibili, high o low tech, a basso impatto ambientale).
Personalmente, credo che quello del riscaldamento domestico sia il minore dei problemi. Da hanno tengo il mio termostato fra 13 e 15 C° e sto benissimo. Molto più problematica è la generazione di elettricità, ma se cominciassimo davvero ad eliminare i consumi superflui sono certo che vedremmo dei risultati assai più consistenti che continuando a rincorrere tecnologie futuribili. Non sarebbe sufficiente, beninteso, ma sarebbe, a mio avviso, un buon inizio, anche perché sarebbe fattibile con le tecnologie di cui ognuno già dispone e senza bisogno di investimenti. Forse questa è proprio la ragione per cui il mondo politico ed economico sono così contrari a questo approccio decisamente e apertamente recessivo.
Articolo molto interessante, grazie. Mi farei anche questa domanda: serve davvero tutto il legno che tagliamo? O serve piuttosto all’industria del legno per sostenere sé stessa? Non siamo più nel 1800, dobbiamo davvero distruggere alberi per fare bancali o cippato?
La domanda è in realtà molto complessa e non si può dare una risposta di poche righe. Ha letto l’articolo di Pardi di cui c’è il link nell’articolo? Una parziale risposta la può trovare li.
Quando però la legittima opinione di un anziano diventa pretesto per fare danni difficili da recuperare o, addirittura, per varare un decreto legge che consegna le foreste all’industria del cippato (quando non direttamente alla mafia), la faccenda diventa grave. Anzi gravissima.
Il DL in questione, e purtroppo questi sono i danni di Internet, non ha nulla a che fare con le biomasse. E’ un decreto (di indirizzo e coordinamento perché la competenza primaria della gestione forestale é assegnata dall’art 117 della costituzione alle Regioni) che si occupa di gestione sostenibile. La politica forestale (italiana ed europea) incentiva l’uso a cascata del legname ed in questa prospettiva a produrre energia dovrebbero essere destinati solo gli scarti di lavorazione e gli assortimenti meno pregiati (cosa tra l’altro sollecitata dall’IPCC come buona pratica per la mitigazione del cambiamento climatico). La politica energetica-industriale (non agricola forestale) ha fissato l’obiettivo del 30% dell’energia rinnovabile nella UE. A valle di questo obiettivo ci sono INCENTIVI per la COSTRUZIONE DI CENTRALI A BIOMASSE. La conseguenza é che molte biomasse agricole e forestali sono utilizzate in queste centrali e che a volte si creno delle situazioni assolutalmente insostenibili (vedere il trasporto di biomasse dalle foreste USA al Regno Unito). Il problema non é quindi di politica forestale e, inoltre, il Testo Unico Forestale non c’entra perché tra l’altro é entrato in vigore parzialmente lo scorso aprile mentre i decreti attuativi sono ancora in discussione.
La ringrazio per le precisazioni. Il suo commento conferma sostanzialmente quello che dicono i due articoli che segnalo in apertura a titolo di buon esempio in quanto spiegano in modo molto chiaro e circostanziato codesto approccio. Io, occupandomi di ecosistemi forestali e non di industria, ho ovviamente un approccio diverso. Quanto al decreto in questione, ne ho già parlato nell’articolo cui rimanda il link. Il fatto è che 40 anni di esperienza sul terreno e con le amministrazioni locali mi hanno reso estremamente sospettoso.