La prima parte (Tagliare boschi è energia rinnovabile? – 1 -)  è uscito in data.21/11/2019.

Qui si riparte da dove eravamo rimasti.

Parte 3– Risposta ai tecnici forestali.

Ovviamente non si deve mai fare d’ogni erba un fascio, ma molti dei tecnici forestali con cui mi capita di parlare danno per assodati sei argomenti che, invece, meritano di essere discussi.   Vediamoli.

1 – Il taglio del bosco a fini energetici è sovvenzionato con fondi pubblici come parte integrante del piano di riduzione delle emissioni climalteranti. La UE si è data l’ambizioso traguardo di raggiungere il 32% di energia rinnovabile entro il 2030, il che significa più che triplicare la percentuale attuale in appena dieci anni.   Uno sforzo notevole che richiede di sfruttare al massimo tutte le risorse possibili.
Attualmente, il legname costituisce quasi il 70% circa dell’energia rinnovabile europea, corrispondente al 5% circa dei consumi complessivi dei 28.   Conta cioè il triplo dell’idroelettrico, il decuplo dell’eolico e più di trenta volte tanto il contributo del solare (termico e fotovoltaico insieme).

tagliare boschi non è rinnovabile
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2 – Bruciando legna si immette in atmosfera solo una parte del carbonio precedentemente sottratto all’atmosfera dalla fotosintesi, dal momento che radici e ramaglia restano in loco.   Inoltre, la CO2 emessa sarà rapidamente riassorbita dalla ricrescita del bosco, accelerata dal taglio.

3 – L’Europa ha una considerevole copertura boschiva (intendendo “bosco” nella sua accezione più ampia possibile).   Ben 180 milioni di ettari, corrispondenti al 40% circa del territorio.  Ancora più importante, questa superficie è andata aumentando costantemente dal 1950 ad oggi.  Anche se il fenomeno sta rallentando, ancora nel corso degli ultimi 15 anni la superficie “forestale” è aumentata del 5% circa, caso unico nel mondo.

4 – La gestione delle foreste europee è soggetta all’occhiuto controllo delle autorità che ne impongono una gestione improntata ai criteri di sostenibilità ed è soggetta a rigide norme di tutela, per non parlare dei 110 milioni di ettari di boschi soggetti a vincoli particolarmente restrittivi (aree protette, rete Natura 2000, vincolo idrogeologico, ecc.).  Complessivamente, solo i 2/3 della crescita annuale di biomassa viene destinata al taglio.
Il loro sfruttamento quindi non solo non arreca danni all’ambiente europeo, ma riducendo l’importazione di legname all’estero, contribuisce alla tutela delle foreste tropicali, siberiane, ecc. soggette a ben più pirateschi regimi.

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5 – E’ pur vero che la combustione di pellet e cippato produce consistenti quantitativi di polveri sottili e di Benzo (a)pirene  che danno un contributo importante alla pessima qualità dell’aria di molte città, specie in Val Padana.  Tuttavia, su questo punto, c’è stato un grande miglioramento tecnologico che proseguirà tanto più rapidamente, quanto più si investirà su questo combustibile.

6 –Le varie filiere del legno, tutte insieme, danno lavoro a circa 3,5 milioni di persone in Europa e producono circa l’1% del PIL comunitario.  Molto di più per alcuni paesi come la Finlandia.

Tutto vero, dunque dove è il problema?   Vediamo punto per punto.

 

1 –  Riguardo ai piani energetici, una precisazione: L’unico modo per ridurre le emissioni di CO2 ed altri gas-serra è ridurre i consumi finali di energia.  Punto.  Tutto il resto sono chiacchiere o pretesti per consentire/finanziare attività speculative.

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Ciò detto, all’atto pratico i piani di sfruttamento del bosco vengono fatti per massimizzare la resa economica, non per minimizzare gli impatti sull’ecosistema, altrimenti perché ditte ed amministrazioni ti dovrebbero pagare?  Inoltre, non ho mai visto un caso in cui si sia tenuto conto del rapidissimo peggioramento delle condizioni climatiche.  Raramente, ad esempio, si tiene conto del fatto che un paio di annate ingrate (cioè del tutto normali già oggi ed a maggior ragione in futuro) sono sufficienti per mandare a monte l’attecchimento delle piantumazioni.
I cedui ricrescono con più certezza perché sfruttano apparati radicali già formati, ma una parte delle radici muore comunque in seguito al taglio e se la densità dei rilasci è bassa (come di norma) il sole ed il vento abbattono la maggior parte degli alberi rimasti in piedi, mentre il sole e la pioggia danneggiano pesantemente il suolo.   Le reti di ife di cui si è parlato nella puntata precedente scompaiono del tutto o quasi.
Le ceppaie di molte latifoglie ricacciano, ma con sempre meno vigore, mentre l’eliminazione degli eventuali alberi adulti e le avversità ambientali riducono sia la produzione di semi che le probabilità di germinazione di questi.   Anche gli ungulati, selvatici e domestici, possono ritardare di decenni lo sviluppo di una copertura arborea definibile “bosco”.
In pratica, non possiamo sapere quale sarà il tasso di ricrescita del bosco che tagliamo, ma possiamo contare sul fatto che sarà inferiore a quello storico che troviamo sui manuali e sui prontuari.
“Last but not least”, come abbiamo già fatto presente (v. paragrafo “Si possono tagliare i boschi?” nella prima puntata.), è vero che gli alberi giovani hanno normalmente tassi di accrescimento superiori a quelli adulti, ma in cifra assoluta la quantità di carbonio fissato dagli alberi è approssimativamente proporzionale alle loro dimensioni, perlomeno finché permangono condizioni di buona vitalità.  Cioè parecchi secoli, salvo incidenti.

 2 – Il rilascio di CO2 dal legno bruciato è immediata, ma il suo riassorbimento è molto graduale e neanche certo.   Inoltre, anche il carbonio contenuto nelle radici e nella altre parti che rimangono sul posto finirà in atmosfera, sia pure molto più lentamente, per via della respirazione degli organismi detritivori.  In altre parole, la combustione di legno può essere considerata come “carbon neutral” solo in tempi dell’ordine di molti decenni e a determinate condizioni non sempre presenti, mentre nell’immediato contribuisce comunque all’aumento della CO2 atmosferica.

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3 – 180 milioni di ettari sono tanti, ma gli Europei sono 500 milioni, il che ci da circa 3.600 mq di bosco per uno, che è davvero molto poco.   Comunque, per valutare la superficie boschiva, i dati catastali non sono significativi, dal momento che le zone tagliate continuano ad essere considerate come “bosco” quale che ne sia l’effettiva copertura. Da notare inoltre, che si parla sempre di superfici boscate, mentre si dovrebbe parlare soprattutto di biomassa e di biodiversità che sono due dei tre parametri principali per farsi un’idea della quantità di carbonio stoccato ed  anche dello stato di salute dei boschi (il terzo parametro è l’intensità dell’attività fotosintetica o, in alternativa, la densità foliare). Molto più interessanti e meno rassicuranti sono i dati satellitari da cui risulta un evidente impoverimento della copertura arborea, soprattutto in Svezia e Finlandia, ma un poco dappertutto.
Se osserviamo la mappa qui riportata ad un sufficiente ingrandimento (v. questo link), vediamo che nella maggior parte d’Europa domina un fitto mosaico di pixel rossi (superficie forestale perduta) e blu (superficie forestale guadagnata).  Questo riflette una situazione in cui la superficie forestale non diminuisce, ma gli ecosistemi sono soggetti ad uno sfruttamento industriale molto intenso che impone turni di taglio molto brevi.   In pratica, non abbiamo boschi, ma colture industriali da legno, perlopiù molto giovani ed instabili che non riescono mai a strutturarsi come veri ecosistemi forestali (v. prima puntata).  Dal punto di vista industriale, questo sistema funziona finquando tempeste, siccità o parassiti non devastano queste colture, ma dal punto di vista climatico ed ecologico è un disastro.

4 – Quanto al rigore dei regolamenti e dei controlli, si può citare il celebre “in teoria si” di Radio Yerevan.  In Italia (ma in alcuni paesi UE è anche peggio)  Chiunque abbia un po’ di pratica sul terreno sa che le procedure per la concessione dei permessi sono ad un tempo farraginose ed inefficaci, i controlli praticamente inesistenti.  Di solito se ne occupa del personale comunale con una preparazione carente e/o antiquata, mentre ben presenti e consistenti sono le pressioni per essere “di manica larga”.
Perfino all’interno delle aree protette e sulle proprietà demaniali spesso si utilizzano criteri di valutazione commerciali.  Ne è un esempio fra i tantissimi l’abbattimento di gran parte delle pinete mature della Tenuta di S. Rossore, mentre nella medesima tenuta nessuno si sogna di diradare gli impianti giovani, malgrado ne abbiano estremo ed urgente bisogno.
Anche laddove sono richieste procedure e valutazioni complesse (come per la “rete natura 2000”), queste sono solo carta dal momento che chi propone il taglio del bosco è anche colui che redige una valutazione di impatto che sarà poi vagliata da enti che di solito non possono o non vogliono fare le verifiche del caso.  Tanto più che oggi sono soprattutto gli enti locali che “se la cantano e se la suonano” e per essi la priorità assoluta è attirare una qualunque attività economica sul proprio territorio, costi quel che costi (letteralmente).
Recentemente, si è poi provveduto a peggiorare considerevolmente questa già difficile situazione mediante la promulgazione di un apposito Decreto Legislativo: il cosiddetto  “Testo unico in materia di foreste e filiere forestali” del  3 aprile 2018, n. 34   cui si è già fatto cenno e cui ho già dedicato un articolo quando ancora si poteva, invano, sperare che Mattarella non lo firmasse.

5 – La questione dell’inquinamento esula dalle mie competenze, per cui mi limiterò ad osservare che se riduco la nocività dei singoli impianti, ma ne moltiplico il numero, l’inquinamento complessivo aumenterà comunque.

6 – Per quanto riguarda la rilevanza economica delle attività forestali, abbiamo qui un esempio tipico di un problema assolutamente generale: le esternalità.   Senza qui entrare in dettaglio, si chiamano esternalità tutti quei costi connessi con la produzione, l’uso e lo smaltimento di prodotti o servizi che non ricadono su chi acquista ed usa quel prodotto o servizio, bensì sulla comunità intera.   Tipicamente, costi sociali ed ambientali indiretti e quindi difficili da capire e controllare.   Ad esempio, l’usura delle strade, l’inquinamento, la depauperazione di risorse, gli incidenti ecc. che derivano dall’uso delle nostre automobili.
E’ chiaro che qualunque prodotto o servizio ha delle esternalità, il problema sorge quando queste crescono fino ad avvicinarsi, od anche superare, il prezzo a cui quel prodotto o servizio è venduto.   Per fare un esempio, l’estrazione di ogni tonnellata di marmo, a Carrara, genera circa 50 € di stipendi e tasse, a fronte di oltre 200 € di danni ambientali e sociali (cifre molto indicative che bisognerebbe aggiornare).
Possiamo dire che le esternalità sono la differenza fra i costi complessivi di un prodotto o servizio ed il suo prezzo.  Oggi, spesso, il prezzo è inferiore o vicino al costo, una situazione che sta minando alla base le nostre economie e che è destinata a peggiorare. “Un piccolo prezzo spesso nasconde un grande costo” “W. Sachs).
Il calcolo delle esternalità del taglio di un bosco sarebbe molto difficile e poco generalizzabile, ma non è un problema perché nessuno si sogna nemmeno di provare a farlo nel timore di scoprire che, molto spesso, i vantaggi economici sono molto minori del previsto, finanche negativi in parecchi casi.  Del resto, non è un caso se, per essere redditizia, l’industria del cippato e delle bricchette ha bisogno di essere fortemente incentivata con normative ad hoc e fondi pubblici.  Dunque, in ultima analisi, buona parte di questa industria vive di debito e/o di tasse.
Senza qui entrare nei dettagli, i margini di guadagno sono sempre più risicati e l’industria si regge quindi su tre pilastri: tagliare le spese (leggi: ridurre il personale), aumentare i volumi (che implica aumentare gli impatti), accedere a finanziamenti pubblici con un pretesto qualsiasi (cioè socializzare le perdite e privatizzare i guadagni).
Siamo insomma molto vicini, o forse siamo già entrati in quella che Herman Daly chiamava “crescita anti-economica.

 

Conclusioni

Per tornare al titolo:tagliare un bosco fornisce energia rinnovabile?   La risposta è: “Si, ma solo a determinate condizioni, di solito incompatibili con un suo sfruttamento industriale“.
Alla fin fine, la questione è semplice: un taglio ben fatto dal punto di vista forestale sarebbe insostenibile sotto quello economico e viceversa.
In altre parole, è vero che una percentuale consistente dei nostri boschi trarrebbe vantaggio dal taglio, ma solo se questo venisse praticato con criteri opposti a quelli correnti e, quindi, non remunerativi.  E dunque?
A mio avviso, dovremmo sovvenzionare solo i tagli di rinaturalizzazione delle aree vincolate e vigilare che i boscaioli non facciano troppi danni su tutto il resto, usando il legname più per aumentare il grado di autonomia energetica delle comunità rurali, piuttosto che per sostenere filiere industriali e finanziare l’acquisto di macchine operatrici.
La scelta politica (tanto a Bruxelles che a Roma, come in quasi tutti i comuni d’Italia) è invece di sostenere l’industria del cippato ad ogni costo. Pazienza per il bosco, tanto le riserve di legname esistenti possono bastare per decenni.  Poi chi vivrà vedrà.

Non vedremo una repentina scomparsa dei boschi, come in tanti altri paesi, bensì un loro progressivo degrado che ne ridurrà la capacità di contrasto del GW e, contemporaneamente, la resilienza ai suoi effetti (siccità, ondate di calore, incendi, diffusione di parassiti e tempeste).   Anche senza eventi spettacolari, ci sarà una ripresa dei fenomeni erosivi che porteranno sedimenti nei corsi d’acqua a valle, aumentando i problemi con reti idrauliche completamente artificiali e sottodimensionate, in decenni in cui i fondi disponibili per la manutenzione saranno cronicamente insufficienti, così come quelli per la ricostruzione dopo le alluvioni.
L’alternativa è ridimensionare una fiorente filiera industriale, con le necessarie conseguenze negative sul PIL e sull’occupazione.

Quello che dobbiamo imparare è che l’epoca dei compromessi che salvano capra e cavoli è finita.   Sempre di più dovremo scegliere: o salviamo la capra o salviamo i cavoli.  La scelta sarà spesso dolorosa e non dovrebbe essere lecito fingere che la propria opzione (quale che sia) non abbia ripercussioni pesanti, finanche catastrofiche su altre persone.
Io credo che la scelta migliore sia sempre quella che tutela ciò che resta della biosfera perché se non ne fermeremo il collasso non ci sarà scampo per nessuno.  Neppure per i sindaci o per gli industriali del cippato, le loro famiglie ed i loro dipendenti, così come per me e per chiunque altro su questo pianeta.
La Biosfera è l’unica cosa che può mantenere condizioni fisico-chimiche compatibili con la vita su questo pianeta.

 

 

 

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