Il rapporto Draghi dovrebbe entrare di diritto nella letteratura horror. Non in quella divertente a base di zombi, fantasmi ed altre improbabili creature, bensì in quella che fa davvero paura perché descrive in modo asettico pericoli oggettivi, se non addirittura catastrofi oramai inevitabili. Eppure, sotto molteplici aspetti, scivola invece nel fantasy, con maghi ed eroi che sconfiggono il male e riportano la luce infischiandosene di tutte le leggi della fisica e dell’ecologia.

Come c’era da aspettarsi, finché parla di industria e finanza, l’analisi di Draghi mi pare ineccepibile. In estrema sintesi, il documento sostiene che gli europei hanno ormai perso l’autobus delle nuove tecnologie (IA, digitalizzazione, computer quantistici, ecc.) e che questo ci rende estremamente vulnerabili nei confronti di USA e Cina, sia sul piano industriale e commerciale, che su quello militare e geopolitico.

Entrambi questi colossi sono infatti visti come poteri concorrenti e potenzialmente ostili, interessati a sfruttare l’Europa a proprio vantaggio mediante l’antica strategia del “divide et impera”. Anche la minaccia militare, per quanto non immediata, non deve essere sottovalutata perché non possiamo più fare affidamento sull’ombrello americano. Dobbiamo quindi tornare ad essere noi stessi i garanti della nostra indipendenza e sovranità perché, in caso di guerra, nessuno ci aiuterebbe. Non sarà facile perché, anche in questo campo, si tratta di recuperare 30 anni in cui non solo abbiamo pressoché smantellato le nostre FFAA ed investito nella difesa molto meno di USA e Cina, ma abbiamo anche speso male, anzi malissimo, i nostri soldi.

Di poi, anche se non parla esplicitamente di picco delle risorse, il nostro tratta ampiamente di come il degrado quali-quantitativo delle risorse strategiche e la loro concentrazione in pochi paesi, quasi tutti attualmente o potenzialmente ostili, ci lasci in una situazione alquanto pericolosa. Situazione ulteriormente aggravata dal fatto che, in praticamente tutte le tecnologie d’avanguardia, sia la Cina che gli USA ci hanno superati, talvolta di molto. In altre parole, stiamo diventando noi quel “terzo mondo” che siamo abituati a guardare con condiscendenza, velata di razzismo.

Come siamo arrivati a tanto? Anche su questo Draghi è chiaro: abbiamo passato gli ultimi 30 anni a farci i dispetti fra di noi, assai più interessati alla competizione interna che a quella con le potenze rivali. Inoltre, siamo handicappati da una serie di fattori che vanno dall’estrema frammentazione dei piccoli mercati nazionali, all’eterogeneità e ridondanza di normative mai omogenee e talvolta contrastanti; dalla costante lotta politica interna (più insidiosa quando nascosta), alla radicata abitudine di dormire profondamente su allori sempre più avvizziti. Detto brutalmente, mentre noi eravamo rapiti nell’osservazione del nostro ombelico, robuste membra si allenavano ad est e ad ovest. Oramai, mette ben in chiaro Draghi, è cosa fatta e solo parzialmente, forse, recuperabile.

Come? Sempre in estrema sintesi, la ricetta per minimizzare i danni è quella di fare finalmente fronte comune alle difficoltà. Non dovrebbe essere difficile da capire, che il pesce grosso mangia il piccolo e che i piccoli vogliono cavarsela devono coalizzarsi, non è certo una novità. Se, infatti, singolarmente i paesi europei sono un mazzo di “niente” (Germania e Francia comprese), tutti insieme abbiamo ancora un peso economico e politico con cui perfino i due colossi dovrebbero fare i conti, per non parlare di tutti gli altri.  Per esempio, l’Euro è tuttora la seconda moneta più forte al mondo e questo potremmo giocarcelo molto meglio di quanto stiamo facendo.

Se, ad esempio, le trattative commerciali per l’acquisto di risorse strategiche come energia, metalli rari, tecnologie avanzate ecc., venissero condotte unitariamente, sarebbe possibile spuntare condizioni assai migliori sia in materia di prezzo che di affidabilità della fornitura.  Analogamente, uniti potremmo imporre noi le condizioni alle grandi holding globali, anziché subirne regolarmente il ricatto. Uno dei grandi vantaggi competitivi di USA e Cina è infatti la dimensione economica e politica che consente loro di spuntare economie di scala e condizioni contrattuali assai migliori delle nostre.

Per quanto poi riguarda in particolare l’energia, sotto la dicitura inesatta di “decarbonizzazione”, il nostro afferma che bisogna recuperare il tempo perduto installando come forsennati pannelli fotovoltaici e pale eoliche, oltre che di centrali nucleari,  accollandoci i notevoli oneri per adeguare le reti di distribuzione al nuovo assetto.

Un altro punto su cui il rapporto insiste molto è snellire e uniformare le pratiche e gli adempimenti burocratici, specie per le aziende piccole e medie; essendo il peso delle scartoffie (diverse da paese a paese), una delle principali cause dell’emigrazione delle imprese negli USA e non solo. In particolare, si sofferma sull’esasperante lungaggine delle procedure autorizzative, che devono essere ripetute e diversificate per ogni piccolo paese.

Infine, molta enfasi viene posta sul fatto che occorre incoraggiare e sostenere in ogni modo possibile le imprese innovative per tentare di recuperare, nei limiti del possibile, il ritardo tecnologico nei confronti della concorrenza. Il rischio di trovarsi ad essere noi quelli “arretrati” già nel prossimo futuro è, secondo Draghi, quasi una certezza a meno di non intraprendere da subito (meglio da ieri) una politica decisa e generosa di mezzi.
Insomma, per dirla con le sue stesse parole: “Oggi per avere successo le politiche industriali richiedono strategie che abbraccino gli investimenti, la fiscalità, l’istruzione, l’accesso ai finanziamenti, la regolamentazione, gli scambi e la politica estera, tutte unite da un obiettivo strategico concordato”.

Condivisibile, eppure… mi pare che manchino parecchi pezzi importanti, mentre altri sono ambigui.

Per cominciare, saltano subito all’occhio due grossi “buchi”. Il primo è che l’esperienza post-covid ha ampiamente dimostrato come iniettare miliardi in un’economia che, per qualche ragione, non può crescere, anziché benessere produce inflazione. Accanto alla strategia da seguire per inondare l’industria di denaro, si dovrebbe quindi spiegare come evitare un’ulteriore ondata inflattiva che avrebbe effetti devastanti su pensioni, risparmi e salari di quanti non potranno attingere direttamente alla nuova “mammella”.  Il punto è che secondo Draghi gli ostacoli alla crescita sono solo quelli di cui parla lui (frammentazione, inefficienza, ecc.). Il dubbio che ne possano esistere altri, derivanti dal contesto fisico in cui operano banche ed industrie, non lo sfiora neppure.

Il secondo è che, dopo aver lodato il fatto che in Europa la sperequazione fra ricchi e poveri è fra le più basse del mondo (in particolare molto più bassa che in Cina ed USA), non si dice niente su come mantenere, anzi migliorare questa situazione nel contesto di rapida trasformazione del tessuto industriale ed economico proposto; anche in vista delle inevitabili tensioni sociali che tale trasformazione provocherebbe. Eppure questo è un campo in cui l’ex governatore della BCE dovrebbe invece saperla lunga.

Passando poi da ciò che si tace a ciò che si dice, “Decarbonizzazione” e “Transizione energetica” sono termini propagandistici che stonano in un documento che si vuole altamente professionale, ancorché scritto in termini divulgativi. Installare pannelli e pale, con tutto ciò che necessita loro per funzionare, significa infatti integrare, non sostituire le energie fossili che rimangono, comunque, indispensabili; fatto che Draghi stesso ammette apertamente.  In altre parole, lo scopo dell’operazione proposta è quello di rendere l’Europa più resiliente agli shock sulle forniture estere, non quello di ridurre le emissioni. Lo scopo è corretto, mentre non lo è spacciare una cosa per un’altra.

Una vera transizione energetica, anche parziale, necessiterebbe infatti di ridurre i consumi finali parallelamente all’aumento dei GW rinnovabili e/o nucleari. Ma di questo il rapporto non fa menzione alcuna. Semmai, indirettamente, preconizza il contrario giacché ripete ossessivamente che lo scopo di tutto ciò è il rilancio della crescita economica. Cosa che, se avvenisse, comporterebbe un aumento dei consumi e degli impatti ambientali relativi; specialmente se trainata dai settori più cari al nostro (IA, wafer, semiconduttori, chip, ecc.). Tutte tecnologie che per essere prodotte e fatte funzionare hanno bisogno di quantità enormi e rapidamente crescenti di energia.

Parimenti, trovo indegno di un testo serio parlare di “economia circolare”: ennesimo ossimoro, specie se associato alla parola “crescita” come in questo caso. Avrebbe invece avuto senso, e molto, dedicare un paragrafo al fatto che, poverissima di materie prime, l’Europa dovrebbe fare ogni sforzo possibile per spingere all’estremo il riciclaggio. Spiegando però che si tratterebbe di un’impresa industrialmente ancora più ardua della diffusione di sorgenti energetiche intermittenti perché, per raggiungere livelli significativi, richiederebbe la completa revisione di tutte le filiere. Infatti, per rendere industrialmente recuperabili la maggior parte dei materiali usati sarebbe necessario che l’intera progettazione di oggetti e materiali avvenisse a priori in vista di un loro successivo disassemblaggio e recupero. Nientemeno!

Un altro punto dolens riguarda poi la farraginosità delle procedure di autorizzazione e controllo. Se, infatti, è vero che dovrebbero essere uniformi e valide per tutti i paesi UE, oltre che più rapide, è però altrettanto vero che dovrebbero essere anche molto più severe. Attualmente, infatti, le pratiche sono estenuanti, ma neanche prendono in considerazione la cosiddetta “opzione zero” (cioè dire semplicemente “No”). Alla fine, se chi propone il progetto conta qualcosa ad un qualche livello di potere, il permesso lo avrà. Al massimo, gli saranno imposte delle mitigazioni o delle compensazioni che, spessissimo, o non si faranno, o serviranno a fare ancora peggio. Come nel caso, comunissimo, in cui la “compensazione” per la realizzazione di una nuova strada è un’altra strada.

Al contrario, l’ex capo dell’Eurotower, afferma che:Potrebbero essere utilizzati aggiornamenti mirati della legislazione ambientale rilevante dell’UE per fornire esenzioni limitate (in tempo e portata) alle direttive ambientali dell’Unione fino al raggiungimento della neutralità climatica. Questa normativa rivista dovrebbe nominare autorità nazionali di ultima istanza per garantire l’autorizzazione dei progetti nel caso in cui non ci sia risposta da parte delle autorità locali dopo un tempo predeterminato (ad esempio 45 giorni).”

Cioè raccomanda di curare l’influenza con correnti d’aria ed impacchi freddi. Con buona pace del nostro pezzo grosso, si dà infatti il caso che contravvenire alla già lacunosa normativa ambientale non farà altro che peggiorare la situazione climatica. Così come l’aumento dei consumi necessario per l’agognata crescita economica e per lo sviluppo di tecnologie d’avanguardia. Parlare di “raggiungere la neutralità climatica” in un simile contesto non è dunque che l’ennesima dimostrazione di quanto superficiale sia l’approccio a questi temi e di come la classe dirigente consideri la normativa ambientale un lusso che non possiamo più permetterci. Oltre che un ostacolo a quel sogno di crescita infinita che sa tanto di romanzo fantasy sulla carta e di horror quando calato nella realtà.

Ma la lacuna forse maggiore del rapporto è a proposito delle risorse strategiche più vitali, cui peraltro dedica ampio spazio. Vi si parla infatti diffusamente di metalli, idrocarburi e terre rare, ma non di acqua, suolo e biodiversità. Cioè delle tre conditio sine qua non per l’esistenza di una qualsivoglia civiltà, se non per la stessa sopravvivenza della nostra specie.  Si potrà obbiettare che il rapporto è dedicato alla competizione industriale internazionale e che gli argomenti di cui sopra sono invece materia per un eventuale rapporto sull’agricoltura e l’ambiente. Solo che senza suoli fertili, biodiversità, foreste ed acqua dolce non poterebbe avvenire alcuna produzione industriale, men che meno tecnologicamente avanzata.

Limitandoci alla disponibilità di acqua, per fare un esempio, la realizzazione di un singolo chip richiede l’uso di 30-40 litri di acqua distillata non riutilizzabile ed il consumo complessivo della produzione cresce almeno del 10% l’anno in un pianeta che sta entrando nella fluttuazione climatica caldo-arida forse più dura e certamente più rapida della sua intera storia geologica.
Solo per addestrare GPT-3 (quindi senza considerare la realizzazione dei supercomputer e server su cui gira) serviranno qualcosa come 5.000 mc di acqua perfetta, cui se ne dovrà aggiungere circa mezzo litro ogni 10-50 risposte (a seconda della loro complessità), per un aggeggio che dovrebbe sfornare decine di milioni di risposte al giorno. L’IA ha molta sete, oltre che molta fame.

Non per caso, già ora, la produzione di wafer, chip ecc. richiede quantitativi di acqua purissima tanto elevati e rapidamente crescenti che i colossi del settore (Taiwan e Cina) si stanno seriamente ponendo il problema di come continuare a mantenere queste industrie senza assetare la popolazione. Certo ha senso dire che bisogna riportare in Europa almeno una parte di queste produzioni così delicate ed importanti. Ma trovo inammissibile non spendere neppure una parola per dire che questo necessiterà, oltre ad investimenti plurimiliardari in impianti industriali, infrastrutture e scuole di specializzazione, anche una radicale revisione della gestione del territorio e delle risorse idriche per arginare l’inaridimento già in atto sulla maggior parte del continente.

Si tratta infatti di un impegno ben superiore allo sviluppo di tecnologie d’avanguardia e di reti elettriche più complesse e ridondanti. Occorre nientedimeno che manipolare il ciclo dell’acqua a tutte le scale, dal singolo appartamento all’intero continente, in maniera coerente e sinergica, adattando di conserva le politiche industriali, agricole, urbanistiche, ecc.
Si tratta quindi di ripensare tutto quello che è stato fatto negli ultimi 50 anni almeno e modificarlo, quando non demolirlo e rifarlo, ponendosi lo scopo esattamente opposto a quello finora perseguito.

Vale a dire che bisognerebbe allagare tutto l’allagabile, aumentare la copertura vegetale, decompattare i suoli agricoli, finanche demolire interi quartieri e molto altro ancora. Tutte operazioni che, solo per parlarne, si scontrerebbero non solo contro enormi difficoltà oggettive, ma anche contro lo zoccolo durissimo di politici, tecnici e opinione pubblica che la pensano in modo affatto contrario. E che, ben più della CO2, sono responsabili tanto dell’inaridimento cronico, quanto delle occasionali alluvioni. Insomma, l’acqua non è certo una “cosetta” che si possa dare per scontata se davvero si pensa di reindustrializzare il paese.

Che dire infine? Su molte cose Draghi dice il vero, ignorando però il fatto che il quadro delineato è solo un tassello di un mosaico assai più ampio e complesso. Ma finché non decideremo di analizzare le cose in maniera davvero sistemica e multidisciplinare, continueremo a sbattere contro la realtà, come le mosche contro il vetro.

Questa, almeno, è la mia impressione. Ma è possibile che un tizio qualsiasi, che attinge le sue informazioni da fonti pubbliche, possa trovare delle pecche nell’opera di un personaggio di rango mondiale, foderato di uno staff che può accedere alle migliori informazioni riservate? Mi pare inverosimile, ma forse sì, se il gruppo di lavoro è composto da specialisti di settore, economisti classici e robusti lobbisti. Tutta gente competente, ma che non sarà mai capace di capire che il Pianeta è vivibile perché è vivente.Et tout le reste est littérature” (P. Verlaine).

Purtroppo, non credo che ci siano serie possibilità di un cambiamento tanto epocale di mentalità, semmai il contrario. Una guerra globale è dunque una possibilità che prende corpo, così come la possibilità di un futuro in cui saremo noi la periferia dell’Impero Giallo, come immaginato da Jacobs nel 1946. Ma consoliamoci, anche se non ci saranno il capitano Blake ed il prof. Mortimer con il loro Espadon a salvarci, provvederebbe il brutale scontro contro i limiti globali della crescita con cui anche l’aspirante imperatore Xi Jinping sta cominciando a dover fare i conti. L’età dei grandi imperi volge al termine.

rapporto Draghi fra horror e fantasy
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