Un assiduo commentatore dei blog a cui collaboro mi ha consigliato un articolo di Leigh Phillips intitolato ‘Le illusioni della decrescita’, recentemente pubblicato sulla versione italiana di Le Monde Diplomatique. Conoscendo le derive del giornalista britannico quando affronta tematiche di cui si sente ingiustamente esperto, ero abbastanza riluttante a dover spendere anche un solo euro per leggerlo, per fortuna ho trovato on line quello che dovrebbe essere l’originale inglese: gli estratti qui proposti sono opera di Google Traduttore (di certo uno dei maggiori doni del Progresso all’umanità), con qualche piccola revisione.

In realtà, ci sarebbero tanti buoni motivi per destinare all’oblio il testo senza degnarlo di un commento. Phillips, infatti, è solito parlare senza cognizione di questioni ecologiche (vedi il libro Austerity Ecology & the Collapse-porn Addicts – A defence of growth, progress, industry and stuff), anche qui colleziona uno strafalcione dopo l’altro, vedendo ‘decoupling assoluti’ inesistenti e sfornando ragionamenti capziosi a go go. Il fatto che oggigiorno, malgrado tanto blaterare di ‘transizione ecologica’, si possano pubblicare impunemente certe sciocchezze, la dice lunga sulla considerazione reale nei riguardi della sostenibilità ambientale.

Comunque, siccome la tesi di fondo trova molti sostenitori, eviterò di guardare il proverbiale dito concentrandomi sulla ‘luna’ del ragionamento, per evidenziarne la fallacia di fondo. Tuttavia, per non buttare via il bambino con l’acqua sporca (benché fetida da uccidere sul colpo il povero infante nel bagnetto), desidero soffermarmi su di un punto che condivido.

Phillips ha perfettamente ragione nel ritenere inconcepibile la transizione nel contesto del laissez faire: 

 

il mercato è lasciato a se stesso, continuerà a esserci un incentivo a produrre qualsiasi merce fintanto che è redditizia, indipendentemente da ciò che sappiamo del danno che il bene o il servizio può infliggere. I combustibili fossili sono forse l’esempio contemporaneo non plus ultra di tale produzione irrazionale.

 

Sbaglia completamente, invece, nel pensare che per implementarla basti solo riformare il sistema attuale al netto di qualsiasi profonda trasformazione culturale, intendendo che sia sufficiente riproporre il vecchio modello socialdemocratico keynesiano in versione green new deal. Una tara concettuale che lo fa rimanere ancorato all’ossessione per la crescita e svilisce idee genuinamente socialiste che invece potrebbero rivelarsi fondamentali per affrontare il collasso sistemico senza cadere nella barbarie più assoluta.

Ma passiamo al nucleo centrale della sua tesi, che lo porta in rotta di collisione con la decrescita:

 

L’argomento della decrescita afferma che la crescita fa aumentare la domanda di energia, rendendo così più difficile e forse addirittura impossibile decarbonizzare l’economia. Ma una riduzione della produzione di materiale ridurrebbe la domanda di energia, rendendo così la transizione pulita più realizzabile. E per ridurre la produzione di materiale, dobbiamo ridurre l’attività economica aggregata.

Tuttavia, ciò che è precluso dalla nozione di decrescita è la possibilità di crescita socialista: un aumento illimitato – se attentamente pianificato – nella creazione di nuovo valore che non mina i servizi ecosistemici da cui dipende la prosperità umana.

 

Ovviamente, non viene spiegato come la crescita socialista possa ‘angelificarsi’ creando un decoupling assoluto tra produzione ed impatto sulla biosfera, altrimenti Phillips non sarebbe il  personaggio mediaticamente di nicchia che é ma una delle personalità più conosciute e autorevoli del pianeta. Si limita ad alcuni esempi sparsi, sufficienti a suo giudizio per convalidare l’intera impalcatura concettuale, il più significativo dei quali è relativo alla proibizione dei clorofluorocarburi (CFC): 

 

Ma forse la più grande vittoria ambientale finora è stata la guarigione dello strato di ozono. Negli anni ’80, l’esaurimento dell’ozono atmosferico, in particolare intorno ai poli, era la versione di quell’epoca della crisi ecologica esistenziale. Inoltre, non era meno minaccioso per l’umanità nel breve termine del cambiamento climatico attraverso un aumento del cancro della pelle e disturbi da immunodeficienza, nonché impatti negativi sulle reti alimentari acquatiche terrestri e superficiali e sui cicli biochimici e la riduzione dei raccolti agricoli. E la causa erano anche le emissioni antropogeniche: questa volta principalmente i clorofluorocarburi (CFC) che erano comunemente compresi, più o meno correttamente, come usati nei frigoriferi e negli spray aerosol.

Dal divieto del Protocollo di Montreal del 1987 sulle sostanze che riducono lo strato di ozono, compresi i CFC, tali emissioni sono diminuite del 98 percento (c’è stato tuttavia un aumento delle emissioni non dichiarate dall’inizio di questo decennio dall’Asia orientale , suggerendo che qualcuno nella regione sta barando). L’impoverimento dell’ozono è invertito negli anni 2000 e il pieno recupero è previsto entro il 2075…

Se avessimo abbracciato la decrescita rispetto all’esaurimento dell’ozono tentando di arrestare la crescita, diciamo, del numero di frigoriferi nel mondo – o addirittura ridurre il numero totale – invece di una regolamentazione per imporre il cambio di tecnologia, ci sarebbe stato un disastro. Dire “tanti frigoriferi e non di più” avrebbe solo arrestato la crescita delle emissioni, non le emissioni tout court. (Per lo stesso motivo oggi non basta mantenere costanti le emissioni di gas serra, ma eliminarle)…

Oggi ci sono più bombolette di lacca per capelli e più frigoriferi che mai. Quest’ultimo non ultimo nel mondo in via di sviluppo, dove la refrigerazione migliora la qualità della vita attraverso l’espansione della gamma di alimenti disponibili, riducendo la contaminazione degli alimenti e migliorando la nutrizione. Inoltre riduce gli sprechi alimentari e quindi le emissioni di gas serra.

C’è stato un disaccoppiamento assoluto della crescita nelle tecnologie che storicamente utilizzavano sostanze che riducono lo strato di ozono dalla crescita nell’impoverimento dell’ozono. La posizione di decrescita sostiene che il disaccoppiamento assoluto della crescita dall’impatto ambientale negativo è impossibile e che è possibile solo un disaccoppiamento relativo, o un ridotto utilizzo delle risorse per unità di produzione ma un aumento della produzione complessiva, ma la storia della riduzione dell’ozono mostra che questa convinzione è falsa. La crescita economica è stata assolutamente, non relativamente, disaccoppiata dall’esaurimento dell’ozono.

 

A parte i dubbi sulle meravigliose sorti progressive di un mondo straripante di bombolette di lacca, il problema più grave è che Phillips tratta la sostituzione dei CFC alla stregua di una magia. Con qualche semplice ricerca in Rete, avrebbe scoperto che sono stati rimpiazzati dagli idrofluorocarburi (HFC), innocui per la fascia di ozono, ma in compenso potenti gas serra con capacità di trattenere il calore fino a diecimila volte superiore all’anidride carbonica, con tempi molto lunghi di permanenza in atmosfera (qui per chi volesse approfondire).

Pertanto, bombolette e frigoriferi senza CFC tanto osannati quali simbolo di ‘progresso ecologico’ hanno contribuito ad esacerbare quel riscaldamento globale da lui tanto biasimato alle righe precedenti. Morale della favola: oggi da più parti si prospetta una messa al bando anche degli HFC. Esistono alternative che non contribuiscano a surriscaldare l’atmosfera? Sì, che però presentano altre criticità, ragion per cui si tendono a preferire ancora gli HFC. In ogni caso, non può esistere il ‘refrigerante perfetto’ che ti consenta una produzione indiscriminata di bombolette e frigoriferi senza effetti collaterali più o meno gravi (caro Leigh, una distribuzione più equa di frigoriferi tra chi ne ha troppi e chi troppo pochi non incarnerebbe meglio della iper-produzione lo spirito di quel socialismo di cui ti riempi tanto la bocca? Si può fare anche per la lacca, se ti pare tanto fondamentale)

In ogni caso, tralasciando l’ignoranza tecnica, stupisce che a Phillips sfugga il corto circuito logico di condannare il capitalismo neoliberista come responsabile unico della situazione attuale e contemporaneamente innalzare sul piedistallo un provvedimento (il protocollo di Montreal) varato nel 1987, cioé in piena era reaganiano-thatcheriana. Guarda caso, lo stesso periodo in cui sono avvenuti l’efficientamento nell’uso dei fertilizzanti in agricoltura, la riduzione delle emissioni di anidride solforosa e altri esempi proposti nell’articolo che dimostrerebbero la fallacia della decrescita. Forse è il caso di mettere da parte preconcetti e ideologismi per ragionare con più lucidità.

Karl Marx, per quanto nemico mortale del capitalismo, ne riconosceva la capacità di promuovere l’innovazione tecnologica, ragion per cui riteneva necessario tenerlo in vita finché non fosse riuscito a realizzare il ‘massimo sviluppo delle forze produttive’, e solo allora scatenare la rivoluzione proletaria. Sul capitalismo come fase necessaria della liberazione umana si può discutere, la sua vena innovatrice invece non solo è innegabile, ma bisogna ammettere che si è mantenuta elevata sia nei momenti di vacche grasse sia in quelli meno propizi (anzi, forse è stata maggiore proprio nella sventura).

Infatti, messo alle strette dopo la prima grave crisi petrolifera (1973), il capitalismo ha dato grande prova di adattamento, a differenza del socialismo reale che, ingessato nel suo burocratismo, ha mostrato scarsissima resilienza ed è gradualmente imploso su se stesso. Dovendo fare i conti con la fine della ‘natura a buon mercato’ sotto forma di energia e risorse a basso costo e tormentato da problematiche ecologiche alcune delle quali non più differibili, il capitalismo ha reagito sviluppando tecniche sempre più sofisticate per estrarre crescita da margini sempre più risicati: la narrazione di Phillips (involontariamente apologetica del Capitale) lo dimostra ampiamente.

Se il degrado ambientale è peggiorato a fronte di una tecnologia meno impattante per unità di prodotto, ciò si deve al fatto che, sull’altare della crescita economica (e demografica), quasi tutti i miglioramenti di efficienza sono andati a infrangersi sugli scogli del paradosso di Jevons, destino in cui inesorabilmente incapperebbe qualsiasi crescita continua, fosse anche ‘socialista’, ‘verde’ o sotto qualsiasi altra etichetta. Anzi, mi spingo ad affermare che, se proprio si vuole perseguire ostinatamente il dogma della crescita per la crescita, quella di tipo capitalista potrebbe rappresentare paradossalmente l’opzione meno dannosa, dal momento che in un’economia di mercato la necessità di conseguire profitti (e quindi di comprimere i costi) ti costringe volente o nolente a intervenire sull’efficienza produttiva, per non finire in bancarotta. Privi di questo feedback, i paesi comunisti hanno miseramente pagato dazio.

Il fatto che oggi il capitalismo non riesca a sbarazzarsi dei combustibili fossili come accaduto con i CFC non testimonia tanto della sua debolezza, quanto della necessità di consumare petrolio, carbone e gas per raschiare il barile del PIL. Phillips lascia intendere che la fase neoliberista abbia intaccato mortalmente la virtù inventiva del Capitale, cosa su cui posso parzialmente concordare, ma gli accolla  anche fallimenti di cui non ha responsabilità. 

Ad esempio, esalta il programma nucleare francese, definito

 

un “grand projet d’état” centralizzato del settore pubblico eseguito negli ultimi giorni del consenso keynesiano del dopoguerra alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80 prima dell’imposizione della liberalizzazione del settore energetico europeo

 

la quale avrebbe compromesso le ricerche per creare uno standard di reattori di nuova generazione in grado di trasformare le proprie scorie in nuovo combustibile. Evidentemente, non sa che i progetti dei reattori autofertilizzanti risalgono agli anni Cinquanta (così come quelli della fusione nucleare, varati sia in Occidente che in URSS), dopodiché si sono arenati e/o si trovano ancora in uno stadio  prototipico a causa delle innumerevoli (e con ogni probabilità insormontabili) difficoltà tecniche. Il fallimento dell’avveniristica centrale atomica autofertilizzante di Super-Phénix è figlio del celebrato “grand projet d’état”, non della negligenza neoliberista.

Insomma, Phillips si aggiunge alla folta schiera di chi, convinto che “abbandonare la crescita significa dichiarare la fine del progresso”, scambia lucciole per lanterne e farnetica soluzioni peggiori dei mali che vorrebbe risolvere. Involontariamente, avalla le posizioni di coloro che, volendo difendere la stratificazione sociale con tutte le sue sperequazioni, insistono con la crescita allo scopo di alleviare l’ingiustizia e renderla più tollerabile. Veramente ironico per qualcuno che si dichiara orgogliosamente socialista, ma di un socialismo che, rifacendoci a Marx, verrebbe da chiamare ‘pseudo-utopistico’; di sicuro molto poco ‘scientifico’, dal momento che respinge per partito preso mezzo secolo di acquisizioni di studiosi dell’ecologia e della sostenibilità.

Ovviamente, io da sostenitore della decrescita potrei sembrare prevenuto, se non addirittura troppo limitato o ‘malthusiano’ per i gusti di Phillips. In quel caso, lo invito quantomeno a considerare l’ammonimento che due marxisti lucidi e immuni da ideologismi come Theodor Adorno e Max Horkheimer scrivono in Dialettica dell’illuminismo: “la maledizione del progresso incessante è l’incessante regressione”.

 

 

 

 

 

 

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