• Facebook
  • Twitter
  • Google+
  • Buffer
  • Evernote
  • Gmail
  • Delicious
  • LinkedIn
  • Blogger
  • Tumblr

Nonostante il titolo possa trarre in inganno, oggi non vi parlo di coronavirus, bensì di quell’altra crisi, ben più insidiosa, che non possiamo sperare di risolvere con un vaccino. La crisi ecologica globale: una crisi in cui il virus siamo noi. Mi riallaccio al discorso fatto in un mio precedente articolo (qui il link), per invitarvi a una breve riflessione sul libero arbitrio, la natura umana e la loro relazione con la possibilità di un mondo sostenibile. Sì, roba filosofica. Tuttavia, con enormi implicazioni pratiche.

L’idea per questo articolo sorge da una conversazione che ho avuto recentemente con un lettore del mio libro ‘Il Secolo Decisivo: Storia Futura di un’Utopia Possibile’. Il testo tratta della natura del sistema socio-economico vigente, e analizza quali fra i suoi elementi strutturali costituiscono ostacoli alla transizione a una società sostenibile. Descrive poi come si potrebbero superare questi ostacoli, concentrandosi su specifiche riforme economiche, istituzionali e politiche. Il tutto evitando la nota trappola in cui cadono ancora oggi molti teorici della decrescita felice; la possiamo riassumere in slogan quali ‘ridurre i nostri consumi e cambiare i nostri stili di vita’ e ‘il cambiamento deve procedere dal basso’, che puntualmente conducono al vicolo cieco del ‘per cambiare il mondo dobbiamo prima cambiare noi stessi’. In breve: è un vicolo cieco perché non si può tradurre in politiche concrete. Invece, il cambiamento dal basso richiede un cambiamento dall’alto che lo agevoli e lo accompagni.

Fatta questa necessaria premessa, arriviamo al tema centrale dell’articolo. Il mio lettore legge il libro,  dicevo, concorda con l’analisi della situazione attuale e riconosce che le soluzioni proposte potrebbero produrre la tanto desiderata transizione ad un’economia stazionaria sostenibile. Però, sostiene, la natura umana non permetterà mai di implementarli quei cambiamenti. Insomma, secondo lui non solo gli esseri umani non possono cambiare se stessi: non possono cambiare nemmeno le proprie istituzioni. E non si tratta neppure di un cambiamento improbabile, aggiunge, quanto di un’assoluta impossibilità. Il che equivale a dire che siamo intrappolati in una macchina che procede spedita verso il baratro, e che il freno è in buono stato, e che le nostre mani sarebbero in grado di tirarlo, quel freno, ma che disgraziatamente siamo programmati per non farlo.

Detto altrimenti, il problema non sarebbe in un difetto dell’hardware (le nostre mani) o nella resilienza del sistema (la macchina), bensì nel codice del software (la nostra testa). Il software, sostiene ancora il mio lettore, è programmato per l’accumulazione, la crescita senza limite e senza senso, l’accelerazione costante. Queste cose non sarebbero costrutti culturali, bensì caratteristiche ineliminabili della natura umana. Continua poi, citando teorie cliodinamiche – e naturalmente accettandole come verità scientifiche inconfutabili –, che è la storia a dimostrarlo. Che le civiltà sono sempre cresciute fino a quando hanno potuto, e quando hanno smesso di farlo sono senza eccezione collassate. La soluzione, conclude infine, è proprio il collasso. Una non-soluzione. Abbracciare, anzi, l’idea che una soluzione non sia possibile. Che non possiamo frenare. Che non possiamo invertire la marcia. Che dobbiamo rassegnarci a cadere nel baratro. A morire con il sistema. Non tutti, naturalmente. Quelli fra noi che si salveranno potranno ricominciare pian piano, da laggiù in fondo, la lenta risalita verso il precipizio. Solo questa volta con meno risorse. E così ad infinitum, la nostra testa a impedirci perpetuamente di imparare dagli errori del passato: fino al suicidio definitivo.

Naturalmente – lo avrete capito – non sono d’accordo col mio lettore che questo sia il destino ineludibile per la nostra specie. Riconosco, questo sì, che siamo programmati geneticamente per l’accumulazione e la crescita, e che non siamo invece programmati per auto-imporci dei limiti. Dall’accumulazione traiamo piacere immediato, dai limiti traiamo, al più, una serenità di lungo periodo. Per ottenere la seconda occorre sforzo e costanza, mentre per accumulare sempre di più basta seguire il proprio istinto. In altre parole, partendo da una situazione di tabula rasa, senza cultura, tendiamo a desiderare la crescita. Ad avere di più, a produrre di più, a consumare di più, a fare di più. Ciò che non condivido è che la cultura debba necessariamente esaltare questa nostra inclinazione, e non possa invece compensarla per il bene di tutti. Sia chiaro: la cultura globale contemporanea la esalta più di ogni altra cultura cha l’ha preceduta. Ma una tendenza storica, non me ne vogliano i darwinisti sociali e i cliometristi dell’apocalisse, non è una prova che un’inversione di tendenza non sia possibile. È, al più, segno che tale inversione non sarà di facile attuazione.

Vale la pena evidenziare che la situazione attuale si caratterizza anche per elementi inediti che giocano a nostro vantaggio. Per citarne solo alcuni particolarmente significativi:

  1. Oggi, per la prima volta nella storia, sappiamo che il modello socio-economico vigente è insostenibile, e che un cambiamento è necessario (per quanto non ci sia al momento totale accordo su quale tipo di cambiamento e su come produrlo).
  2. Oggi, per la prima volta nella storia, l’intero mondo è interconnesso, e può potenziamente discutere soluzioni condivise (per quanto raggiungere un accordo non si stia rivelando affatto facile).
  3. Le moderne tecnologie consentono una produzione più efficiente dei beni e servizi essenziali alla sopravvivenza umana. Produciamo troppo e consumiamo troppo, ma ogni unità prodotta e consumata ha un’impatto sull’ambiente inferiore al passato.
  4. È un fatto ormai assodato che oltre certi livelli di consumo, ulteriore consumo non apporta maggiore benessere agli esseri umani.[1]

Esistono inoltre evidenze storiche che puntano alla possibilità di modelli sociali complessi non basati sull’accumulazione incessante di beni materiali. Abbiamo comunità intere in Asia e in Africa che per secoli hanno vissuto in società in cui l’accumulazione individuale di beni materiali era socialmente sanzionata. Si tratta di esempi in cui la cultura ha compensato la natura, dando come risultato modelli sociali ecologicamente sostenibili. La vera domanda, dunque, non è se è possibile, ma piuttosto se è possibile senza sacrificare i valori fondamentali dell’occidente e il benessere delle persone. Se per ‘valori fondamentali dell’occidente’ intendiamo cose come i diritti umani e le libertà civili e politiche, la risposta è un sonoro sì (la dimostrazione la potete trovare nel mio libro). Se invece intendiamo il capitalismo senza freni e il mercato senza regole, allora la risposta è ‘molto probabilmente no’.

Il mio lettore, tuttavia, rifiuta categoricamente la possibilità di un cambiamento, qualsiasi cambiamento. Per farlo, mi pare, trae le sue conclusioni non dalla storia, bensì da un’interpretazione della storia. Un’interpretazione determinista che esclude del tutto il libero arbitrio. Così facendo, guarda alla foresta come a un attore indipendente dagli alberi che la compongono. La cultura diventa un’entità separata dagli uomini, che li controlla come una burattinaia. Ha una sua volontà, o si muove come se ne avesse una. Non possiamo in alcun modo controllarla. Persino quando sembra che lo stiamo facendo, stiamo in realtà eseguendo il suo volere. Non sono gli alberi che fanno la foresta, ma è la foresta che fa gli alberi.

La mia posizione, invece, è quella di gran parte degli scienziati sociali: la foresta fa gli alberi e al tempo stesso gli alberi fanno la foresta. Si tratta di un’influenza biunivoca. In certe condizioni storiche è la foresta che determina la vita degli alberi. Dove questi mettono radice. Dove estendono i propri rami. Dove spargono i propri semi. In epoche di incertezza e crisi, sono invece a volte gli alberi che determinano la vita della foresta. In che direzione questa si espande. Se cresce o si contrae. Se fornisce sufficiente nutrimento per gli esseri viventi che la popolano. Similmente, gli esseri umani non sono schiavi della propria cultura, sebbene andare contro di essa, cambiarla, richieda un considerevole sforzo. Uno sforzo che la maggioranza non vorrà intraprendere a meno che non lo percepisca come assolutamente necessario. A meno che non ne comprenda nel profondo la necessità. A meno che – e questo è il punto fondamentale che voglio comunicare oggi – non creda che un cambiamento sia possibile.

È difficile che tale cambiamento avvenga spontaneamente, senza una direzione. I grandi cambiamenti della storia sono quasi sempre avvenuti quando a leader intraprendenti (non solo politici, ma anche intellettuali) si è aggiunta una massa di persone unite da uno scopo comune. In principio una massa piccola, che pian piano cresce fino a giungere alla soglia critica necessaria ad innercare il cambiamento. È successo con i diritti delle donne, è successo con i diritti dei lavoratori, è successo con il modello liberale-democratico, è successo con le rivoluzioni comuniste del secolo passato e con il nazional-socialismo. Il cambiamento non sempre è positivo. Ma è quasi sempre possibile. Ciò non significa che sia sempre probabile. Spesso è improbabile. Credo che oggi sia improbabile. Ma è possibile. E questo è davvero, davvero importante. Un’altra cosa è importante: il cambiamento diventa più probabile se lo crediamo possibile. Se le idee del mio lettore circa la natura umana dovessero diffondersi, il cambiamento diventerebbe meno probabile: una profezia che si autoadempie.

Gli uomini sono programmati da geni e cultura, è vero, ma a loro volta possono riprogrammare la cultura. Sovente possono farlo solo in maniera indiretta, come quando si ridusse la giornata lavorativa a otto ore (una riforma istituzionale) e ciò produsse maggiore tempo libero per le persone, che si tradusse a sua volta in più socialità, e in un proliferare di nuove attività, dando vita, fra le altre cose, all’industria dell’intrattenimento e allo sport.

In conclusione, c’è un accordo e un disaccordo con il mio lettore. Siamo d’accordo nel constatare che il mondo sta andando verso il baratro. Siamo in disaccordo circa l’opportunità di invertire la rotta. Io sono convinto che la rassegnazione sia il peggior nemico del cambiamento. E che l’ottimismo sia più, non meno necessario sull’orlo dell’apocalisse. Se vogliamo produrre un cambiamento, dobbiamo guardare al baratro con un sorriso sulle labbra, ma anche e soprattutto con maniche rimboccate e mani e cervello all’opera. Va bene, molto probabilmente non riusciremo a tirarlo, quel freno. Ma abbiamo il dovere morale di provarci. Riuscire è improbabile, ma di sicuro è possibile. E questa possibilità, essendo radicata nel presente e non nel passato, è qualcosa che nessuna interpretazione determinista della storia potrà mai smentire.

[1] Si veda, ad esempio, D. G. Blanchflower, A. J. Oswald, Well-being over time in Britain and the USA, in “Journal of Public Economics”, 88 (2004), pp. 1359-1386; R. Layard, S. Nickell, G. Mayraz, The marginal utility of income, in “Journal of Public Economics”, 92:8/9 (2008), pp. 1846-1857; D. Kahneman, A. Deaton, High income improves evaluation of life but not emotional well-being, in “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, 107:38 (2010), pp. 16489-93; E. Proto, A. Rustichini, A Reassessment of the Relationship between GDP and Life Satisfaction, in “PLoS ONE”, 8 (2013).

 

Share This