Nonostante il titolo possa trarre in inganno, oggi non vi parlo di coronavirus, bensì di quell’altra crisi, ben più insidiosa, che non possiamo sperare di risolvere con un vaccino. La crisi ecologica globale: una crisi in cui il virus siamo noi. Mi riallaccio al discorso fatto in un mio precedente articolo (qui il link), per invitarvi a una breve riflessione sul libero arbitrio, la natura umana e la loro relazione con la possibilità di un mondo sostenibile. Sì, roba filosofica. Tuttavia, con enormi implicazioni pratiche.
L’idea per questo articolo sorge da una conversazione che ho avuto recentemente con un lettore del mio libro ‘Il Secolo Decisivo: Storia Futura di un’Utopia Possibile’. Il testo tratta della natura del sistema socio-economico vigente, e analizza quali fra i suoi elementi strutturali costituiscono ostacoli alla transizione a una società sostenibile. Descrive poi come si potrebbero superare questi ostacoli, concentrandosi su specifiche riforme economiche, istituzionali e politiche. Il tutto evitando la nota trappola in cui cadono ancora oggi molti teorici della decrescita felice; la possiamo riassumere in slogan quali ‘ridurre i nostri consumi e cambiare i nostri stili di vita’ e ‘il cambiamento deve procedere dal basso’, che puntualmente conducono al vicolo cieco del ‘per cambiare il mondo dobbiamo prima cambiare noi stessi’. In breve: è un vicolo cieco perché non si può tradurre in politiche concrete. Invece, il cambiamento dal basso richiede un cambiamento dall’alto che lo agevoli e lo accompagni.
Fatta questa necessaria premessa, arriviamo al tema centrale dell’articolo. Il mio lettore legge il libro, dicevo, concorda con l’analisi della situazione attuale e riconosce che le soluzioni proposte potrebbero produrre la tanto desiderata transizione ad un’economia stazionaria sostenibile. Però, sostiene, la natura umana non permetterà mai di implementarli quei cambiamenti. Insomma, secondo lui non solo gli esseri umani non possono cambiare se stessi: non possono cambiare nemmeno le proprie istituzioni. E non si tratta neppure di un cambiamento improbabile, aggiunge, quanto di un’assoluta impossibilità. Il che equivale a dire che siamo intrappolati in una macchina che procede spedita verso il baratro, e che il freno è in buono stato, e che le nostre mani sarebbero in grado di tirarlo, quel freno, ma che disgraziatamente siamo programmati per non farlo.
Detto altrimenti, il problema non sarebbe in un difetto dell’hardware (le nostre mani) o nella resilienza del sistema (la macchina), bensì nel codice del software (la nostra testa). Il software, sostiene ancora il mio lettore, è programmato per l’accumulazione, la crescita senza limite e senza senso, l’accelerazione costante. Queste cose non sarebbero costrutti culturali, bensì caratteristiche ineliminabili della natura umana. Continua poi, citando teorie cliodinamiche – e naturalmente accettandole come verità scientifiche inconfutabili –, che è la storia a dimostrarlo. Che le civiltà sono sempre cresciute fino a quando hanno potuto, e quando hanno smesso di farlo sono senza eccezione collassate. La soluzione, conclude infine, è proprio il collasso. Una non-soluzione. Abbracciare, anzi, l’idea che una soluzione non sia possibile. Che non possiamo frenare. Che non possiamo invertire la marcia. Che dobbiamo rassegnarci a cadere nel baratro. A morire con il sistema. Non tutti, naturalmente. Quelli fra noi che si salveranno potranno ricominciare pian piano, da laggiù in fondo, la lenta risalita verso il precipizio. Solo questa volta con meno risorse. E così ad infinitum, la nostra testa a impedirci perpetuamente di imparare dagli errori del passato: fino al suicidio definitivo.
Naturalmente – lo avrete capito – non sono d’accordo col mio lettore che questo sia il destino ineludibile per la nostra specie. Riconosco, questo sì, che siamo programmati geneticamente per l’accumulazione e la crescita, e che non siamo invece programmati per auto-imporci dei limiti. Dall’accumulazione traiamo piacere immediato, dai limiti traiamo, al più, una serenità di lungo periodo. Per ottenere la seconda occorre sforzo e costanza, mentre per accumulare sempre di più basta seguire il proprio istinto. In altre parole, partendo da una situazione di tabula rasa, senza cultura, tendiamo a desiderare la crescita. Ad avere di più, a produrre di più, a consumare di più, a fare di più. Ciò che non condivido è che la cultura debba necessariamente esaltare questa nostra inclinazione, e non possa invece compensarla per il bene di tutti. Sia chiaro: la cultura globale contemporanea la esalta più di ogni altra cultura cha l’ha preceduta. Ma una tendenza storica, non me ne vogliano i darwinisti sociali e i cliometristi dell’apocalisse, non è una prova che un’inversione di tendenza non sia possibile. È, al più, segno che tale inversione non sarà di facile attuazione.
Vale la pena evidenziare che la situazione attuale si caratterizza anche per elementi inediti che giocano a nostro vantaggio. Per citarne solo alcuni particolarmente significativi:
- Oggi, per la prima volta nella storia, sappiamo che il modello socio-economico vigente è insostenibile, e che un cambiamento è necessario (per quanto non ci sia al momento totale accordo su quale tipo di cambiamento e su come produrlo).
- Oggi, per la prima volta nella storia, l’intero mondo è interconnesso, e può potenziamente discutere soluzioni condivise (per quanto raggiungere un accordo non si stia rivelando affatto facile).
- Le moderne tecnologie consentono una produzione più efficiente dei beni e servizi essenziali alla sopravvivenza umana. Produciamo troppo e consumiamo troppo, ma ogni unità prodotta e consumata ha un’impatto sull’ambiente inferiore al passato.
- È un fatto ormai assodato che oltre certi livelli di consumo, ulteriore consumo non apporta maggiore benessere agli esseri umani.[1]
Esistono inoltre evidenze storiche che puntano alla possibilità di modelli sociali complessi non basati sull’accumulazione incessante di beni materiali. Abbiamo comunità intere in Asia e in Africa che per secoli hanno vissuto in società in cui l’accumulazione individuale di beni materiali era socialmente sanzionata. Si tratta di esempi in cui la cultura ha compensato la natura, dando come risultato modelli sociali ecologicamente sostenibili. La vera domanda, dunque, non è se è possibile, ma piuttosto se è possibile senza sacrificare i valori fondamentali dell’occidente e il benessere delle persone. Se per ‘valori fondamentali dell’occidente’ intendiamo cose come i diritti umani e le libertà civili e politiche, la risposta è un sonoro sì (la dimostrazione la potete trovare nel mio libro). Se invece intendiamo il capitalismo senza freni e il mercato senza regole, allora la risposta è ‘molto probabilmente no’.
Il mio lettore, tuttavia, rifiuta categoricamente la possibilità di un cambiamento, qualsiasi cambiamento. Per farlo, mi pare, trae le sue conclusioni non dalla storia, bensì da un’interpretazione della storia. Un’interpretazione determinista che esclude del tutto il libero arbitrio. Così facendo, guarda alla foresta come a un attore indipendente dagli alberi che la compongono. La cultura diventa un’entità separata dagli uomini, che li controlla come una burattinaia. Ha una sua volontà, o si muove come se ne avesse una. Non possiamo in alcun modo controllarla. Persino quando sembra che lo stiamo facendo, stiamo in realtà eseguendo il suo volere. Non sono gli alberi che fanno la foresta, ma è la foresta che fa gli alberi.
La mia posizione, invece, è quella di gran parte degli scienziati sociali: la foresta fa gli alberi e al tempo stesso gli alberi fanno la foresta. Si tratta di un’influenza biunivoca. In certe condizioni storiche è la foresta che determina la vita degli alberi. Dove questi mettono radice. Dove estendono i propri rami. Dove spargono i propri semi. In epoche di incertezza e crisi, sono invece a volte gli alberi che determinano la vita della foresta. In che direzione questa si espande. Se cresce o si contrae. Se fornisce sufficiente nutrimento per gli esseri viventi che la popolano. Similmente, gli esseri umani non sono schiavi della propria cultura, sebbene andare contro di essa, cambiarla, richieda un considerevole sforzo. Uno sforzo che la maggioranza non vorrà intraprendere a meno che non lo percepisca come assolutamente necessario. A meno che non ne comprenda nel profondo la necessità. A meno che – e questo è il punto fondamentale che voglio comunicare oggi – non creda che un cambiamento sia possibile.
È difficile che tale cambiamento avvenga spontaneamente, senza una direzione. I grandi cambiamenti della storia sono quasi sempre avvenuti quando a leader intraprendenti (non solo politici, ma anche intellettuali) si è aggiunta una massa di persone unite da uno scopo comune. In principio una massa piccola, che pian piano cresce fino a giungere alla soglia critica necessaria ad innercare il cambiamento. È successo con i diritti delle donne, è successo con i diritti dei lavoratori, è successo con il modello liberale-democratico, è successo con le rivoluzioni comuniste del secolo passato e con il nazional-socialismo. Il cambiamento non sempre è positivo. Ma è quasi sempre possibile. Ciò non significa che sia sempre probabile. Spesso è improbabile. Credo che oggi sia improbabile. Ma è possibile. E questo è davvero, davvero importante. Un’altra cosa è importante: il cambiamento diventa più probabile se lo crediamo possibile. Se le idee del mio lettore circa la natura umana dovessero diffondersi, il cambiamento diventerebbe meno probabile: una profezia che si autoadempie.
Gli uomini sono programmati da geni e cultura, è vero, ma a loro volta possono riprogrammare la cultura. Sovente possono farlo solo in maniera indiretta, come quando si ridusse la giornata lavorativa a otto ore (una riforma istituzionale) e ciò produsse maggiore tempo libero per le persone, che si tradusse a sua volta in più socialità, e in un proliferare di nuove attività, dando vita, fra le altre cose, all’industria dell’intrattenimento e allo sport.
In conclusione, c’è un accordo e un disaccordo con il mio lettore. Siamo d’accordo nel constatare che il mondo sta andando verso il baratro. Siamo in disaccordo circa l’opportunità di invertire la rotta. Io sono convinto che la rassegnazione sia il peggior nemico del cambiamento. E che l’ottimismo sia più, non meno necessario sull’orlo dell’apocalisse. Se vogliamo produrre un cambiamento, dobbiamo guardare al baratro con un sorriso sulle labbra, ma anche e soprattutto con maniche rimboccate e mani e cervello all’opera. Va bene, molto probabilmente non riusciremo a tirarlo, quel freno. Ma abbiamo il dovere morale di provarci. Riuscire è improbabile, ma di sicuro è possibile. E questa possibilità, essendo radicata nel presente e non nel passato, è qualcosa che nessuna interpretazione determinista della storia potrà mai smentire.
[1] Si veda, ad esempio, D. G. Blanchflower, A. J. Oswald, Well-being over time in Britain and the USA, in “Journal of Public Economics”, 88 (2004), pp. 1359-1386; R. Layard, S. Nickell, G. Mayraz, The marginal utility of income, in “Journal of Public Economics”, 92:8/9 (2008), pp. 1846-1857; D. Kahneman, A. Deaton, High income improves evaluation of life but not emotional well-being, in “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, 107:38 (2010), pp. 16489-93; E. Proto, A. Rustichini, A Reassessment of the Relationship between GDP and Life Satisfaction, in “PLoS ONE”, 8 (2013).
Salve, condivido la sua analisi del fatto che il cambiamento sia possibile, ma credo che la consapevolezza del punto 1) di cui sopra non sia abbastanza diffusa da poter creare la massa critica necessaria. Inoltre dato che prendere atto di tale realtà richiede uno sforzo non banale dal punto di vista sia intelletivo che emotivo (visto che potrebbe contrastare con principi basilari su cuui si basa la pripria identità) ritengo che la strada dia molto in salita.
Sarà interessante vedere l’evoluzione della crisi da corona virus e usare questa come base per stimare le probabilità di riuscita e/o affinare gli obiettivi strategici per permettere alla società di tirare quel freno prima chi lo faccia il muro di fronte per lei.
L’attuale crisi da corona visrus darà molti dati per calibrare la capacità dei vari sistemi a cambiare/adattarsi in tempi brevi, non da ultimo il sistema sociale stesso che è necessario cambiare rapidamente. Questa crisi ha dalla sua alcuni fattori ottimali come la rapidità (settimane invece che decenni), la mortalità certa (le morti per crisi sistemiche sono normalmente attribuite alla causa particolare che l’ha scatenata), e soprattutto praticamente unanime accettazione da parte dell’intera popolazione che c’è un problema in essere.
Queste condizioni favorevoli hanno fatto sì che il governo avesse gioco abbastanza facile ad imporre misure draconiane alla popolazione che sostanzialmente sta obbedendo. Comunque tutto questa accettazione è basata sull’ipotesi implicita di temporaneità: una volta sconfitto il virus tutto tornerà come prima (o quasi), come sintetizzato dallo slogan «Andrà tutto bene!».
È quindi interessande vedere come l’atteggiamento della società cambierà quando l’ipotesi di temporanità verrà rivelata come falsa: sia perché ci vorranno ancora mesi per chiudere il capitolo virus, sia perché anche una volta che il virus sarà debellato i disastri della crisi economica epocale in fieri saranno più che evidenti a tutti!
Uno dei primi sintomi è il fatto che sempre più persone cominciano ad evere problemi di soldi per comprare il cibo e quindi col passare delle settimane una fatta sempre più grande di indivisui spingerà il governo a rilassare le misure di quarantena anche a costo di un incremento di contagiati.
In questo senso vedremo se arriverà prima la possibilità di fare test praticamente a tutti in tempi rapidi oppure al rivolta sociale…
“Salve, condivido la sua analisi del fatto che il cambiamento sia possibile, ma credo che la consapevolezza del punto 1) di cui sopra non sia abbastanza diffusa da poter creare la massa critica necessaria. Inoltre dato che prendere atto di tale realtà richiede uno sforzo non banale dal punto di vista sia intelletivo che emotivo (visto che potrebbe contrastare con principi basilari su cuui si basa la pripria identità) ritengo che la strada dia molto in salita.”
Sono d’accordo con te. Per questo ho precisato che dal mio punto di vista il cambiamento è possibile ma non probabile.
“Sarà interessante vedere l’evoluzione della crisi da corona virus e usare questa come base per stimare le probabilità di riuscita e/o affinare gli obiettivi strategici per permettere alla società di tirare quel freno prima chi lo faccia il muro di fronte per lei.”
Credo che gli effetti potenziali del coronavirus siano generalmente sopravvalutati. Il passaggio a una società sostenibile richiede la riforma di elementi strutturali fondamentali del modello socio-economico vigente, fra cui un’economia basata su crescita economica (e quindi di produzione e consumi) e inflazionismo. Il coronavirus al più renderà le persone maggiormente consapevoli delle potenzialità del lavoro a distanza, riducendo l’impatto ambientale dei trasporti. Forse le persone daranno più fiducia alla scienza. Può darsi che si acceleri l’accordo sui vantaggi di un’economia più ‘leggera’ sugli ecosistemi. Su quest’ultimo punto ho già molti dubbi. E poi ci sono i possibili effetti negativi. La sfiducia verso il modello liberale-democratico, con una sempre maggiore enfasi sul secondo aggettivo, ‘democratico’, potrebbe aprire la strada a modelli di governo autoritari. In questo senso, le lodi tessute da molti (anche a livello istituzionale) per il modello cinese sono preoccupanti indizi che ciò non sia del tutto improbabile. Come hai detto tu, sarà interessante, ma non sono sicuro che il cambiamento sarà positivo.
“È quindi interessande vedere come l’atteggiamento della società cambierà quando l’ipotesi di temporanità verrà rivelata come falsa: sia perché ci vorranno ancora mesi per chiudere il capitolo virus, sia perché anche una volta che il virus sarà debellato i disastri della crisi economica epocale in fieri saranno più che evidenti a tutti!”
Sì, questo è ciò che più mi preoccupa.
“In questo senso vedremo se arriverà prima la possibilità di fare test praticamente a tutti in tempi rapidi oppure al rivolta sociale…”
Non credo si arriverà a rivolte sociali ‘durante’ la crisi. È la fase di recessione che quasi sicuramente seguirà la crisi che mi preoccupa. Anche perché potrebbe essere pilotata dai leader politici populisti di cui l’Italia abbonda, con esiti imprevedibili.
Il barlume di consapevolezza comune che si sta palesando, riguardo all’insostenibilità sistemica, è temporaneo? Sì, perchè è normale che lo sia. Ma, ora, è nella testa di moltissimi. Domani, cosa ne resterà? Alle menti che funzionano già da prima (tra cui quelle che afferiscono a questo blog), spetta ostacolarne la decadenza. Prima possibile. Grandi pressioni sociali e politiche proveranno a riaffermare al massimo grado il “business as usual”. Non si fermeranno, a maggior ragione sapendo che il massimo grado non sarà quello precedente. Moltiplicheranno gli sforzi in tal senso, facendo proliferare le invenzioni. Quelle più pericolose, a fronte della loro apparente capacità di offrire possibilità di rinascita economica, saranno quelle configurabili come veri e propri giochi di prestigio. Dunque, il non decadere della consapevolezza (o, idealmente, il suo maturare) di sicuro presuppone che si operi per:
a) Sbugiardare le menzogne senza indugiare in relativismi, facendo attenzione a quelle che consciamente o inconsciamente ricostruiscono da nuove o vecchie fondamenta l’immaginario dell’insostenibile
b) Non temere di apparire sognatori, puntando il dito alla luna prima che a pianeti lontani, cioè secondo me alla teoria del valore economico prima che alle riflessioni “alte” della filosofia; infatti, finchè tale teoria la si dà per scontata o la si trascura… la porta della stalla resta spalancata irriducibilmente ai buoi dell’insostenibilità. Gli individui e le loro organizzazioni sociali misurano monetariamente la propria capacità di campare (e dunque si sentiranno risollevati nella misura in cui i portafogli torneranno a non piangere), ma le unità di misura sono solo illusoriamente e molto parzialmente condivise. Di più, si lascia al potere finanziario il compito di custodirne il valore intrinseco. Con il dettaglio che ormai esso stesso l’ha già lasciato indietro da molto tempo ormai, celato dietro una teoria economica sempre più da azzeccagarbugli.
Carissimo sono certamente in accordo con te , quelli che vedono solo nero non valutano bene le opzioni.
Per esempio quelli che sui social gridano contro gli sporcaccioni che lordano con i cani, buttano cicche e addirittura abbandonano sacchetti di rifiuti, buttano ingombranti su prati e foreste, ecc.sono convinti e certi che l’animo umano sia composto da merdacce senza speranza.
Sulla maleducazione posso solo dare conferma, ma se le persone nascono e vivono in ambienti dove non c’è formazione, dove i controlli inesistenti costituiscono possibilità reiterata di continuità a sporcare dove il passaparola determina quasi una catarsi ribelli lo sporcare, non stare alle regole allora non abbiamo armi.
Hai ragione per arrivare a cambiare se stessi in comportamenti asociali servono regoli, controlli…accompagnamenti alla trasformazione. Per tornare all’esempio dei rifiuti dove è stato fatto le cose pian piano sono mutate, quindi a buon intenditor…..
Buongiorno Gianni! Sono fondamentalmente d’accordo con te, ma vorrei fare due precisazioni. 1. Il cambiamento istituzionale di cui parlo non va in direzione di un modello di stato autoritario (stile cinese o simili), piuttosto va in direzione di una maggiore responsabilizzazione degli individui, che non può essere imposta ma solo agevolata e coltivata. Ovviamente non era lo scopo di questo articolo approfondirlo, ma ci tengo a precisarlo comunque. 2. Alcuni degli ostacoli principali al cambiamento ‘dal basso’ hanno a che fare con meccanismi economici che legano a doppio filo la sopravvivenza del sistema a una crescita illimitata del PIL. Senza alterare quei meccanismi, ogni cambiamento equivarrebbe al collasso del sistema. Potrebbe essere qualcosa di positivo sul lungo periodo, ma di certo non sul breve. L’approccio che propongo nel mio libro è sì radicale ma riformista e liberale nello spirito.
A proposito, ti segnalo che come regalo a chi è in quarantena per il coronavirus, ho deciso di rendere temporaneamente disponibile il mio libro gratuitamente qui. Non sarà per sempre quindi se volessi approfondire questi temi ti consiglio di scaricarlo ora (sempre che tu non voglia supportarmi acquistandolo, naturalmente).