Come accennato nella prima parte del contributo, uno degli scopi principali dell’attuale propaganda nuclearista consiste nello screditare la Germania, che sta affrontando il primo anno completo senza atomo dal 2011, quando è stato deciso il suo abbandono graduale (‘phase out’). Il mantra più gettonato è “tanti sforzi solo per ridurre le emissioni del 20% in quindici anni”. A chi copia+incolla compulsivamente questo refrain in giro per il Web, pongo sempre una domanda molto semplice e diretta: quale paese di taglia vagamente commensurabile alla Germania (almeno sui 15-20 milioni di abitanti, per capirci) è stato in grado di raggiungere il medesimo obiettivo o fare addirittura meglio con un programma energetico incentrato sulle odierne tecnologie nucleari?

E’ bene enfatizzare l’attualità perché, non potendo tornare indietro nel tempo, l’eventuale alternativa alla via tedesca va proposta facendo riferimento ai mezzi di oggi, non del passato. Solo una persona su Facebook ha provato a soddisfare il mio interrogativo, citando la Gran Bretagna; suggerimento decisamente bizzarro, perché i britannici hanno varato l’ultimo reattore nel 1995 dismettendone in compenso ben ventisei negli ultimi venticinque anni! Su 13,5 GW di potenza complessivamente installata, ne sono sopravvissuti 5,8. Di fatto, è stata seguita la strategia del phase out tedesco, lasciando terminare la vita operativa dei reattori esistenti per sostituire il loro apporto con le rinnovabili, oltre a dipendere fortemente dalle importazioni elettriche dal continente, che nel 2023 sono state pari al 7,4%. Si è preferito però non rinnegare l’atomo e invischiarsi nell’affaire EPR (qui per i dettagli). 

 

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Fonte: IEA

 

Non ricevendo suggerimenti validi, in stile Marzullo dopo essermi fatto la domanda ho cercato pure di darmi la risposta. Non ho dovuto passare al vaglio tanti candidati, perché negli ultimi trent’anni hanno varato piani atomici di una certa entità solo Cina, Russia, India e Corea del sud. La scelta è ricaduta su quest’ultima, trattandosi di un paese che presenta diverse affinità al di là delle politiche energetiche: infatti, al pari della Germania, si tratta di una società liberaldemocratica e non caratterizzata da uno stato dirigista come Cina o Russia; con i tedeschi condivide inoltre un indice di sviluppo umano quasi analogo, l’assenza di una filiera atomica militare e l’impossibilità di sviluppare fattivamente l’energia idroelettrica, elemento che ha costretto a una forte dipendenza dal carbone.

Inoltre, nel 2008 lo stato coreano ha varato il progetto National Green Growth Strategy che, tramite la generazione nucleare, le rinnovabili e varie forme di efficientamento, permetta una decarbonizzazione programmata e graduale fino al 2050, un piano in qualche modo affine alla cosiddetta Energiewende, la politica energetica approvata dal Bundestag nel 2010. Dal canto loro, i nuclearisti non dovrebbero obiettare alla mia scelta essendo, tra le nazioni prima citate, quella dove l’atomo incide di più sul fabbisogno elettrico: per la precisione per il 31,5%, contro il 18,4% della Russia, il 4,9% della Cina e il 3,1% dell’India (dati IAEA riferiti al 2023).

L’esperienza atomica coreana inizia già negli anni Settanta (la prima centrale, quella di Kori, venne avviata nel 1977), dapprima servendosi di tecnologia statunitense e francese, poi sviluppando una propria industria. Ai sedici reattori avviati nel XX secolo se ne sono poi aggiunti altri dodici per una potenza atomica installata complessiva di 25,8 GW (altri 2,6 GW sono attualmente in costruzione). Nel 2012 è stato intrapreso il primo progetto per l’esportazione, la costruzione della centrale di Barakah (Emirati Arabi Uniti) dotata di quattro reattori da 1,3 GW ciascuno. I lavori sono durati dodici anni per una spesa complessiva di 24 miliardi di dollari, rinfrancando il morale dei fan del nucleare, demoralizzati dagli inconvenienti che hanno attanagliato gli ultimi piani atomici occidentali.

Forse qualcuno si è ringalluzzito un po’ troppo, ad esempio chi ha ipotizzato che l’Italia entro il 2050 possa dotarsi di tredici centrali analoghe (tranquilli, ha pensato anche a un piano B più conservativo di ‘sole’ otto!). Al di là delle sparate, per tutti quegli stati desiderosi di abbracciare l’atomo ma insofferenti alla lievitazione dei preventivi e poco propensi ad aspettare le calende greche, la Corea del sud sulla carta potrebbe rappresentare l’unica seria alternativa alla Russia di Putin. Insomma, forse è esagerato definirla la Francia del XXI secolo, ma entro certi limiti non è un paragone troppo azzardato, per cui confrontiamola finalmente con la Germania riguardo alla capacità di contenere le emissioni di CO2.

Sul piano dei numeri, emerge una chiara supremazia tedesca. Nel 2023 le emissioni erano infatti inferiori del 39% rispetto al 2000, seguendo una traiettoria chiaramente declinante, mentre quelle coreane rispetto al 2000 sono calate solo del 10%, avendo raggiunto il picco decisamente più tardi, nel 2018. I dati relativi al 2023 descrivono una produzione elettrica coreana ancora caratterizzata per il 61% dai combustibili fossili, dove il carbone primeggia con il 32,8%, mentre le fonti a basse emissioni si attestano al 35,1%, totalmente monopolizzate dall’atomo (29,2%).

In Germania, invece, nel 2023 il carbone è sceso ai minimi storici (27,4%), mentre le fonti a basse emissioni hanno generato il 44,2% del fabbisogno (il contributo delle ultime centrali atomiche superstiti è stato trascurabile, l’1,7%). Queste le cifre diffuse da LowCarbonPower; leggermente differenti quelle di DeStatis, secondo cui sarebbe avvenuto uno storico sorpasso dell’eolico ai danni del carbone (137,8 TWh vs 131,9 TWh). Dati molto promettenti, pensando allo sviluppo ancora limitato dei i sistemi di accumulo, che possono ulteriormente migliorare tali performance.

 

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Se il mio interesse fosse limitato alla querelle nucleare vs rinnovabili per portare acqua al mulino di queste ultime, potrei chiudere sentenziando che i tedeschi sono riusciti a decarbonizzare prima e meglio. Ancora una quindicina di anni fa, prima cioè che mi appassionassi allo studio dei limiti dello sviluppo, non avrei sentito alcuna esigenza di approfondire, mi sarebbe parso tutto estremamente chiaro ed evidente. Oggi, invece, so bene che i meriti attribuiti alla tecnologia sono quasi sempre conseguenza di altre variabili più strutturali ma meno considerate, quali demografia, consumi e crescita economica. Anche questo caso non fa eccezione: Germania e Corea del sud, infatti, sono molto più diverse di quanto possa sembrare superficialmente.

 

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La Germania, come tutto l’Occidente, dal dopoguerra ha conosciuto una fase economica ‘giovanile’, contrassegnata dagli alti tassi di crescita del periodo del boom; dopodiché è entrata in un periodo ‘maturo’ che l’ha vista tra i maggiori protagonisti (favorita dalla riunificazione successiva al crollo del muro di Berlino) della ‘ripresina’ iniziata negli anni Ottanta e terminata con il crack finanziario del 2007-08; da allora, si trova in una ‘senilità’ dove exploit occasionali nei tassi di crescita sono per lo più un effetto-rimbalzo di un crollo precedente. Esaminando i due grafici precedenti si nota come, al passaggio ad una nuova fase, i consumi energetici si stabilizzino per poi decrescere.

La Corea pare seguire la medesima traiettoria economica/energetica della Germania ma con venticinque anni di ritardo, con la crisi delle ‘tigri asiatiche’ del 1997 che apparentemente ha svolto un effetto analogo a quella del 1973 per gli occidentali. Se l’ipotesi fosse corretta, allora questa nazione starebbe vivendo gli ultimi anni della fase matura. Anche il parametro dell’indebitamento avvalora tale interpretazione: quello pubblico oggi si attesta intorno al 50%, similmente alla Germania di metà anni Novanta, ma quello privato si si aggira intorno al 100% del PIL, con tutti i rischi che ciò può comportare in un contesto di bassa crescita.

Se allarghiamo la panoramica a livello internazionale, i vecchi paesi occidentali, anche quelli che non intendono intraprendere il phase out e anzi rimarcano l’importanza dell’atomo, stanno pesantemente arrancando nel tentativo di conservare la loro potenza nucleare; problema patito anche da tante nazioni che si sono dotate dell’energia atomica prima del 1990. Con i progetti attualmente in cantiere e anche immaginando di allungare il più possibile il servizio dei reattori di seconda generazione, nel 2050 lo scenario più probabile è che in tutti questi stati complessivamente rimangano 67 unità superstiti per un totale di 70,2 GW.

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Dati database IAEA PRIS

 

In fondo, sarebbe il naturale decorso di una risorsa che in questi paesi ha raggiunto il picco produttivo poco dopo l’inizio del nuovo millennio (facendo riferimento ai membri dell’OCSE, nel prossimo grafico la decadenza è leggermente calmierata dal dato della Corea del sud).

 

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Fonte: IEA

 

A questo quadro a tinte fosche fa da contraltare il ‘nuovo atomo che avanza’:

 

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Dati database IAEA PRIS

 

I primi quattro paesi sono soggetti ‘attivi’, capaci cioé di produrre autonomamente tecnologia nucleare, che hanno introdotto all’atomo i restanti: la parte del leone l’ha fatta la Russia, che ha iniziato Bielorussia, Iran, Turchia, Egitto e Bangladesh, mentre i cinesi hanno fornito materiale al Pakistan e si è già detto dell’intesa tra Emirati Arabi e Corea del sud. Per il resto, si può notare come siano tutti stati accomunati dal fatto di essere dei BRICS o ’emergenti’, comunque nazioni che negli ultimi tre decenni hanno vantato tassi di crescita economica (e quindi anche dei consumi) superiori a quelli occidentali; fatta eccezione per la Russia, non sono gravate dal peso del vecchio nucleare in dismissione. 

Alla luce di tutte le considerazioni espresse, mi sento di formulare alcune riflessioni conclusive.

  • Si conferma il principio del Paradosso di Jevons, per cui la vera discriminante per la decarbonizzazione e più in generale per qualsiasi politica improntata a una visione ecologica è rappresentata dai consumi energetici, non dalle fonti impiegate. Ciò non significa che fossili e rinnovabili siano la stessa cosa, ma che la crescita dei consumi vanifica o comunque sminuisce decisamente l’apporto della tecnologia.
  • Il nucleare è roba per ‘giovani’ e per ‘maturi’ che abbiano già conosciuto l’atomo nella giovinezza, non è adatto ai ‘senescenti’, condizione testimoniata dai pesanti inconvenienti nella costruzione  dei reattori di terza generazioni in Francia, Gran Bretagna, USA. Il fatto che unità analoghe in Cina siano state completate in maniera più o meno regolare conferma tale criticità.
  • Non ha senso ricercare un programma di decarbonizzazione basato sull’energia atomica perché il suo impiego rivale una condizione almeno simile a quella degli stati occidentali tra gli anni Ottanta e Novanta, quindi si ritiene realistica una crescita costante da manuale di economia, ossia intorno al 3%: tale obiettivo richiede però consumi energetici incompatibili con un consistente taglio delle emissioni. Un caso particolarissimo è la Russia: più che uno stato maturo, mi ricorda un atleta oramai lontano dagli anni migliori che riesce a mantenere prestazioni elevate bombandosi di steroidi e altre sostanze dopanti.
  • Alla prova dei fatti, lo sviluppo delle rinnovabili sembra alla portata dei ‘vecchi’. Le note limitazioni intrinseche a queste fonti possono favorire un processo di riduzione dei consumi compatibile con la decarbonizzazione: la scelta della Germania di recidere ogni legame con l’atomo potrebbe rappresentare una sorta di ‘ritorno al futuro’ per tutto l’Occidente. L’importante è non farsi traviare da vertigini da successo e/o scambiare i mezzi con i fini, atteggiamento che vedo purtroppo molto diffuso.

 

Infine, una nota a margine ma non meno importante. Il settore dell’energia, così come l’informatica, la microelettronica e tanti altri, prospera grazie a collaborazioni e joint venture internazionali le quali rischiano di rimanere vittime delle crescenti tensioni politiche tra stati che stanno creando una frattura profonda tra l’Occidente e i paesi afferenti ai BRICS. Ad esempio, la Cina ha consolidato la leadership nel settore dei pannelli fotovoltaici monocristallini, mentre la UE ha da poco confermato l’intenzione di non sanzionare l’azienda russa ROSATOM a causa della forte dipendenza del comparto atomico europeo nei suoi confronti.

Se davvero Putin sta uccidendo il Leviatano, cioé il sistema economico integrato a livello globale, potrebbe risultare molto complesso se non impossibile rilocalizzare efficacemente filiere produttive articolate in tutto il mondo, con pesanti ripercussioni  per il mantenimento di tecnologie ritenute oramai ampiamente acquisite. E mentre all’umanità urge approntare risorse utili prima di schiantarsi definitivamente contro gli scogli dei limiti dello sviluppo, è davvero triste che la priorità venga accordata ad armamenti e altri strumenti utili solo per aggravare il disastro. 

 

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