Sui social media ho notato una certa recrudescenza della propaganda nuclearista, caratterizzata soprattutto da una forte campagna denigratoria contro la Germania, che si trova ad affrontare il primo anno completo totalmente priva dell’apporto del ‘nuovo fuoco di Prometeo’. Ecco un post in cui mi sono imbattuto su Facebook:

 

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Electricity Maps è un servizio on line che monitora ora per ora la produzione elettrica delle singole nazioni, identificandone la fonte di produzione e approssimando le emissioni di CO2 per kWh, colorando poi i paesi sulla mappa interattiva con tonalità di verde, giallo e marrone a seconda dell’incidenza dei gas serra. È uno strumento spesso utilizzato da Luca Romano alias l’Avvocato dell’Atomo (vecchia conoscenza di questo blog) e dai suoi adepti per sostenere messaggi di questo tenore: “La Francia e le nazioni con l’energia atomica sono verdi splendenti, la Germania è marroncina quindi ha sbagliato ad abbandonare il nucleare, risorsa che dobbiamo diffondere per arginare il global warming”.

 

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Interfaccia di Electricity Maps

 

L’autore del post è andato decisamente oltre, scegliendo momenti della giornata ad hoc per ciascuno stato, lasciando però intendere che i numeri sull’intensità di carbonio esprimessero una media complessiva giornaliera. Ha infatti selezionato un orario notturno per la Germania, in modo che non comparisse la produzione da fotovoltaico, e uno invece con irraggiamento solare ottimale per la Spagna, presentando così un quadro più scoraggiante del vero per i tedeschi (che nella media delle 24 ore si sono attestati a 323 g di CO2/kWh) e una realtà edulcorata per gli iberici (134 g CO2/kWh).

L’onestà intellettuale di tale operazione si commenta da sola, tuttavia, anche senza spingersi a tanto, i paragoni proposti sono già di per sé fuorvianti e strumentali. Finlandia, Svezia e Svizzera (abituale feticcio nuclearista qui stranamente omesso) insieme non raggiungono la popolazione e i consumi energetici di Germania, Italia e Francia prese singolarmente; delle tre, solo la Svezia supera i dieci milioni di abitanti e i 100 TWh di fabbisogno elettrico annuo. Con numeri tanto esigui, l’opzione nucleare può rimanere allettante nonostante inconvenienti e disagi, in quanto capace di sortire comunque grandi effetti.

Prendiamo ad esempio l’odissea del reattore EPR della centrale finlandese di Olkiluoto: nonostante costi e tempi di costruzione triplicati rispetto a quanto preventivato, una volta entrato in funzione ha garantito l’equivalente del 13-14% dell’elettricità nazionale, con tutti gli indubbi vantaggi che ciò può comportare. Se quest’anno sarà finalmente allacciata alla rete l’unità gemella della centrale francese di Flamanville, avrà richiesto anch’essa diciassette anni di ultimazione, ma il suo impatto sui consumi sarà inferiore al 3%, con ricadute positive dunque molto più limitate. Conseguire in Germania un risultato analogo a quello finlandese nel medesimo lasso di tempo avrebbe richiesto 6 EPR da completare a tre anni di distanza l’uno dall’altro, cioé fantascienza.

Se non altro, il post accenna alle opportunità di sfruttamento dell’energia idroelettrica, la forma di energia rinnovabile più impiegata al mondo (sorvoliamo sulle sue reali virtù ecologiche, al di là delle basse emissioni) ma il cui sfruttamento è strettamente condizionato dalla conformazione del territorio. Essa risulta scarsamente funzionale al contesto tedesco, dove nel 2023 ha prodotto solo il 3,8% dell’elettricità nazionale, contro il 9% della Spagna, il 10,3% della Francia, il 12,1% dell’Italia, il 18,5% della Finlandia, il 39,7% della Svezia e il 54,8% della Svizzera; degli stati citati nel post solo la Danimarca fa peggio, essendo questa fonte quasi totalmente assente (dati tratti da Low Carbon Power).

Nessuno stato di media-grande dimensione con produzione idroelettrica inferiore al 7-8% compare tra quelli a emissioni contenute (dal verde al giallo scuro, per capirsi), anche se impiega in modo ingente il nucleare, a meno che non dipenda per una quota simile dalle importazioni (è il caso del Regno Unito). La supremazia francese nel contenimento dei gas serra, però, non sembra ammettere alcuna obiezione, in considerazione dei suoi 68 milioni di abitanti e dell’idroelettrico consistente ma non preponderante: il nucleare, artefice per il 65-70% all’elettricità nazionale, è senza dubbio il principale responsabile del verde intenso che risplende dallo schermo.

Eppure, utilizzando tutte le funzionalità di Electricity Maps senza limitarsi a guardare le figure, emerge un aspetto curioso in grado di aprire uno squarcio nel velo della narrazione idilliaca. L’applicazione fornisce i dati relativi non solo alla produzione per ciascuna fonte, ma anche alla quantità di potenza installata per generarla. Da qui si evince che quella nucleare viene normalmente impiegata per meno dell’80% delle sue potenzialità (talvolta molto meno), inficiando così il principale vantaggio dell’energia atomica rispetto alle altre fonti, ossia di poter rimanere operativa anche per l’85/90% del tempo. Come spiegare un comportamento tanto illogico?

 

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  Secondo Electricity Maps il 26 agosto alle ore 11 la Francia impiegava poco più del 60% della potenza nucleare installata

 

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Se utilizzata secondo i normali standard operativi del nucleare, la generazione atomica francese in teoria potrebbe produrre tra i 470 e i 500 TWh

 

Il problema fondamentale è che il parco atomico risulta sproporzionato rispetto alle esigenze reali, essendo stato realizzato sulla base di previsioni degli anni Settanta sui futuri consumi energetici decisamente sovrastimate rispetto ai riscontri effettivi. E’ come se un boscaiolo per spaccare la legna si fosse allenato fino a sviluppare un fisico da body builder, similitudine ancora più calzante dopo che il fabbisogno elettrico ha raggiunto il picco nel 2010 per poi calare. Per quanto grottesco, il presunto virtuosismo ambientale e i supposti vantaggi economici della Francia derivanti dall’uso del nucleare sono in realtà l’effetto collaterale di un colossale errore di valutazione. 

Per ovviare all’ipertrofia energetica si è puntato infatti a mantenere elevati i consumi interni attraverso una massiccia opera di elettrificazione (come nel settore del riscaldamento domestico) e a favorire l’esportazione verso i paesi limitrofi, ben lieti di ricevere elettricità a prezzi stracciati; anche le tanto osannate basse tariffe al kWh delle bollette sono frutto del gigantismo. Certa propaganda ha spacciato come effetti intrinseci dell’adozione dell’atomo quelle che in realtà sono conseguenze del particolarissimo caso francese, in assoluto il meno idoneo da prendere a riferimento per le palesi anomalie che lo rendono unico al mondo.

Nonostante gli sforzi e una filiera atomica militare su cui scaricare alcuni oneri (“Senza uso militare non c’è nucleare civile”, ha sentenziato Macron quattro anni fa), gli errori di pianificazione non potevano rimanere senza strascichi. Sono varie le ragioni per cui EDF ha rischiato la bancarotta, scongiurata lo scorso anno grazie alla nazionalizzazione completa dell’azienda, ma un ruolo determinante lo ricopre sicuramente l’uso tecnicamente scriteriato della risorsa nucleare, che inizia per giunta a subire gli effetti del trascorrere inesorabile del tempo, altro elemento che ha influito negativamente sulla capacità operativa a causa della necessità di revisioni e riparazioni sempre più frequenti.

Electricity Maps non fornisce dati sull’anzianità di servizio dei reattori e i sostenitori dell’atomo, comprensibilmente, sono molto reticenti al riguardo. Prima di entrare nel merito, chiariamo che la tecnologia atomica per uso civile è progredita finora secondo tre ‘generazioni’, la prima risalente agli anni Cinquanta-Sessanta, la seconda agli anni Settanta-Ottanta, la terza/terza +  dagli Novanta a oggi. La seconda generazione è stata quella più prolifica e a buon mercato, anche perché precedente agli incidenti di Chernobyl e Fukushima che hanno costretto a rivedere radicalmente gli standard di sicurezza. Secondo la Corte dei conti francese, il costo dei 58 reattori funzionanti nel 2010 (di cui 48 avviati prima del 1990) si aggirava mediamente su 1,6 miliardi di euro GW, cifra come vedremo oggi assolutamente irrealistica.

 

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Dati desunti dal database IAEA PRIS

 

Complessivamente, su 78 reattori funzionanti 67 risalgono a prima del 1990, di cui 47 antecedenti al 1985. Per inciso, basta questa semplice constatazione per capire che i programmi atomici di queste nazioni, essendo strettamente legati alla seconda generazione, non possono fungere da modello esemplare per l’Italia o chiunque altro volesse vararne ai giorni nostri. Chiarito ciò, per quanto tempo potrà tirare ancora la carretta il vecchio nucleare?

Anche ammettendo un’improbabile estensione della vita operativa a 60 anni di tutte le unità (la seconda generazione è stata progettata per 30-35 anni di servizio), senza l’avvio di nuovi progetti nel 2050 Spagna, Svezia e Svizzera avranno concluso la loro esperienza con l’atomo, mentre la potenza installata di Francia e Finlandia sarà ridimensionata rispettivamente a 14,1 GW e 1,6 GW, rispetto ai 61,3 GW e 4,3 GW odierni. Ognuno di questi paesi rischia quindi di perdere una quota di elettricità a basse emissioni compresa tra il 20% e il 45%.

Mentre i nuclearisti li esaltano esaltano perché “capaci grazie al nucleare di raggiungere gli obiettivi decarbonizzazione prima del previsto”, per questi stati si pone il serio problema di comparire in futuro su Electricity Maps rigogliosamente verdi come ora. Al netto del sovradimensionamento francese, per mantenere l’apporto atomico dei soggetti in questione occorrerebbero una cinquantina di GW. A fronte di problematiche divenute sempre più spinose, c’è chi ha alzato le mani decidendo di imitare la Germania e chi invece rimane attaccato all’atomo confidando in una sua ripresa.

Nel 2017 il parlamento elvetico ha votato la dismissione progressiva delle centrali nucleari, il divieto di costruire nuovi impianti e una politica energetica basata sulle fonti rinnovabili, imitata dal governo spagnolo nel 2023. Al contrario, la Svezia nel 2009 ha abolito una moratoria posta sul nucleare limitando però le nuove unità solo alle centrali già esistenti in sostituzione di quelle in dismissione, vincolo che l’attuale governo di centro-destra vorrebbe abolire puntando addirittura a un raddoppio della produzione; ma è ancora tutto a livello di boutade mediatiche, come del resto nella vicina Finlandia. Nel 2013, alla luce delle vicissitudini dell’EPR di Olkiluoto, il governo si era accordato per la costruzione di una nuova centrale con l’azienda russa Rosatom, progetto poi definitivamente abortito nel 2022; di concreto c’è solo l’auspicio di allungare la vita operativa dei due reattori di fabbricazione sovietica della centrale di Loviisa fino al 2050, quando avranno alle spalle 73 e 70 anni di servizio.

Per quanto riguarda la Francia, Macron già da qualche anno ha annunciato un rinascimento transalpino dell’atomo. La proposta contenuta nella legge sulla sovranità energetica, che recepisce gli intenti dell’Eliseo, prevede l’installazione di 6 EPR 2 (unità della stessa potenza dell’attuale EPR ma dalla costruzione semplificata, che a oggi però non esistono nemmeno sulla carta) tra il 2026 e il 2035 (per un costo stimato tra i 46 e i 64 miliardi di euro) e l’avvio di altri 8 entro il 2050, per un totale di 22,4 GW.

Per un’idea dello sforzo da intraprendere, negli ultimi 25 anni in Unione Europea, Nord America e Giappone sono stati avviati e ultimati i lavori di solo 7 reattori per una potenza complessiva di 8,2 GW. Dal 2000 a oggi, tra gli stati che hanno investito massicciamente nel nucleare solo la Cina è riuscita a fare meglio di quanto previsto dal piano francese (46,4 GW, contro i 14,4 GW della Russia e i 10,5 GW della Corea del sud).

Tali ambizioni si scontrano con criticità pesanti e ineludibili. Costi di 4,7/6,6 miliardi di euro a GW, cioè tre-quattro volte più elevati della seconda generazione, potrebbero invogliare la ricerca di alternative, specialmente in un mondo dove fotovoltaico ed eolico oramai producono congiuntamente più dell’atomo. A ciò si aggiunga lo specchietto per le allodole dei reattori modulari di piccola taglia (SMR), che rischia di distrarre risorse preziose dalla tecnologia tradizionale. Senza contare, nel frattempo, gli oneri del decommissioning delle unità dismesse, della gestione delle scorie e dello sviluppo parallelo delle fonti rinnovabili.

Insomma, finché si tratta di giocare con Electricity Maps per condividere meme sui social network, certi ragionamenti funzionano alla perfezione, fare i conti con la realtà è un’altra storia. Anche limitarsi al mero debunking della propaganda, però, non serve a inquadrare adeguatamente l’intera problematica energetica ed ecologica.

(continua)

 

 

 

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