Ho appena finito di leggere Spaccare l’atomo in quattro. Contro la favola del nucleare (Edizioni Abele 2022), scritto dall’ingegnere nucleare e fisico Angelo Tartaglia, ex professore di Fisica presso il Politecnico di Torino. Con un taglio estremamente semplice e divulgativo, raro per gli accademici, l’autore confuta efficacemente la propaganda pro-nuke che sta tornando di moda, anche per quanto riguarda gli aspetti più ‘innovativi’, ossia i cosiddetti reattori di quarta generazione e la fusione. Ne consiglio quindi caldamente la lettura.

A integrazione delle sue considerazioni, propongo una riflessione sull’attuale situazione globale dell’energia atomica, facendo riferimento ad alcuni dati fondamentali, troppo spesso elusi nei dibattiti da talk show e social network:

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Se l’energia nucleare si trova in una situazione di stallo e non di declino, lo si deve sostanzialmente all’azione di quattro stati: principalmente la Cina, secondariamente Russia, India e Sud Corea ; ossia tre BRICS e un’altra nazione ’emergente’ che si è contraddistinta per alti tassi di crescita economica dagli anni Novanta fino alle grandi crisi che hanno segnato il nuovo millennio.

Lo sforzo di Pechino desta particolare impressione perché, dal 2000 a oggi, sono stati attivati 52 reattori per una cinquantina di GW di potenza installata. Tuttavia, quando c’è di mezzo il gigante asiatico, tutto assume contorni elefantiaci con il rischio di perdere il senso della realtà. Innanzitutto, l’elettricità da nucleare è solo il 5% circa sul totale ed è stato ridimensionato l’obiettivo iniziale, molto più ambizioso, di installare reattori per 70 GW entro il 2025.

Inoltre il risultato, per quanto notevole, non eguaglia gli exploit del passato delle potenze atomiche tradizionali: tra il 1957 e il 1980 gli USA infatti avviarono 84 reattori per 58,3 GW e, a differenza dei cinesi, senza attingere a tecnologie straniere. La Francia invece, nei quindici anni successivi alla crisi petrolifera del 1973, ultimò 51 reattori per 50,5 GW: fatte le debite proporzioni con la Cina, si tratta di un risultato decisamente superiore.

Quella era però l’epoca d’oro dell’atomo, quando i reattori erano più piccoli e gli standard di sicurezza inferiori. L’esperienza nucleare dei cinque maggiori paesi occidentali che hanno adottato in modo convinto questa forma di energia (USA, Francia,UK, Giappone e Germania) rivela una progressiva disaffezione per il ‘nuovo fuoco di Prometeo’: su 170 reattori attualmente operativi ben 114 risalgono a prima del 1986 (si avvicinano quindi ai fatidici 40 anni di servizio per i quali erano stati concepiti), solo 12 progetti sono stati avviati nel XXI secolo (5 già realizzati e 7 in costruzione), mentre 151 unità sono state permanentemente disattivate. In Gran Bretagna e Giappone la potenza dismessa è attualmente maggiore di quella installata, mentre la Germania nel 2011, dopo i fatti di Fukushima, ha abbandonato definitivamente l’avventura atomica.

Considerando anche l’Occidente ‘minore’ (altri paesi della UE, Canada, Svizzera) il quadro non migliora: 67 reattori attivi di cui 43 precedenti al 1986, 35 dismessi, solo 4 attivati nel XXI secolo (di cui due in Rep. Ceca e uno in Slovacchia, ultimazione tardiva di progetti avviati al tempo del comunismo) e appena uno in costruzione (altra opera slovacca risalente agli anni Ottanta). Tutte le iniziative occidentali legate alla costruzione dei cosiddetti modelli della III generazione (tradizionali reattori a fissione di taglia maggiore, più longevi e con migliori sistemi di sicurezza dei predecessori) non hanno avuto fortuna:

  • Vogtle 3 e 4, USA: lavori iniziati nel 2013 e terminati quest’anno per l’unità 3, ancora in corso per la 4; costi più che raddoppiati rispetto ai 14 miliardi di dollari previsti (fonte);
  • Olkiluoto 3, Finlandia: lavori iniziati nel 2005 e ultimati nel 2022, costi passati da 3 a 8,5 miliardi di euro (fonte), 
  • Flamanville 3, Francia: lavori iniziati nel 2007 e ancora in corso, con costi saliti da 3,7 a 19 miliardi di euro (fonte);
  • Hinkley Point C1 e C2, Regno Unito: lavori iniziati rispettivamente nel 2018 e il 2019, con costi lievitati dai 25 miliardi di sterline preventivati a quasi 33 miliardi (fonte)

 

La necessità di gestire le scorie e di smantellare le centrali fuori servizio (decommissioning) rappresenta un fardello non da poco per i nuclearisti di vecchia data, anche perché in passato si è nutrita troppa fiducia sugli sviluppi tecnologici che consentissero di arginare tali criticità.

Per farsi un’idea della portata del problema, si pensi che la Sogin nel 2022 dovrebbe aver completato il decommissioning dei reattori italiani al 45%, malgrado la nostra esperienza nucleare sia terminata nel 1987 e riguardasse solo quattro unità. Oppure si consideri il caso britannico, dove il costo per lo smantellamento di 14 reattori di vecchia generazione è stimato in 23,5 miliardi di sterline (WNISR 2022). Secondo il database PRIS della AIEA, l’unica centrale atomica commerciale ‘decommissioning completed’ è quella tedesca di Kahl, che impiegava una piccola unità sperimentale da 15 MW ed è rimasta attiva solo quindici anni.

Per ovviare a tutte queste incognite, la strategia universalmente adottata in Occidente è consistita nel prolungare la vita operativa dei reattori esistenti dai 35-40 anni previsti a 60 o addirittura 80, operazione però che richiede aggiornamenti tecnici continui. Rimando alla consultazione del WNISR 2022 per gli incentivi e i sussidi previsti per il mantenimento delle centrali statunitensi; qui preferisco concentrare l’attenzione sul caso francese perché presentava tanti elementi favorevoli allo sviluppo atomico: in particolare un’azienda monopolista pubblica per la produzione e distribuzione e di elettricità (EDF) e una filiera militare su cui scaricare parte delle spese civili (negli USA i due settori sono divisi dai tempi della presidenza Carter). Tutti fattori che hanno consentito di portare l’incidenza del nucleare sulla produzione elettrica al 70-80%, record assoluto per un paese di grandi dimensioni. Se davvero l’atomo è la cornucopia dell’elettricità a basso costo, allora la Francia dovrebbe essere l’Eden dell’energia.

Attualmente, EDF è in passivo per 65 miliardi di Euro e, secondo il CEO Luc Remont, bisognerebbe da subito alzare il prezzo delle bollette e reperire  25 miliardi annui per prolungare la vita dei reattori attuali e tentare di costruirne di nuovi. La manutenzione delle vecchie unità si è rivelata più lunga e complessa del previsto, con il risultato che la Francia, nota esportatrice di elettricità, ha dovuto dipendere da importazioni dall’estero. Il predecessore di Remont, Jean Bernard Levy, avrebbe voluto scorporare l’azienda in EDF Blue, di proprietà interamente statale a cui sarebbe rimasta la gestione delle centrali atomiche, ed Edf Verde (detenuta al 60% da Edf Bleu) quotata in borsa per la distribuzione e la vendita dell’elettricità da rinnovabili.

Si è preferito invece optare a fine 2022 per un aumento di  capitale  di 3,1 miliardi di euro di cui 2,7 messi dallo stato, che nel giugno di quest’anno ha speso ulteriori 9,7 miliardi per nazionalizzare al 100% EDF (ne era stato privatizzato il 16% in seguito alle normative UE sulla concorrenza). L’altra azienda pubblica specializzata nel settore nucleare, Areva, è fallita nel 2017 ed è stata ‘ristrutturata’ con il nome di Orano. Le vicissitudini transalpine chiariscono le ragioni della fine dell’avventura atomica tedesca (decisa nel 2011 da un governo Merkel a maggioranza CDU+liberali, senza Verdi), dato che in Germania il mercato dell’elettricità è liberalizzato e non esiste un comparto nucleare militare che possa fare da stampella.

A fronte di queste gravi note dolenti, nel nuovo millennio il club dell’Atomo può tuttavia vantare nuovi membri e altri che saranno presto associati. Dal fenomeno emerge però la longa manus della Russia:

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Mosca ha fornito anche 6 reattori ciascuno a Cina e India (in entrambi i contesti due unità già realizzate e quattro in cantiere), con tempi di ultimazione mediamente intorno agli otto anni (dieci al di fuori della Cina).

Putin, da ben prima di scatenare la ‘operazione militare speciale’ in Ucraina, sta cercando sostenitori per il suo “ordine mondiale multipolare” e corteggiare leader autoritari e ambiziosi quali Lukashenko, Erdogan, al-Sisi, gli ayatollah iraniani e paesi ’emergenti’ come il Bangladesh offrendo tecnologia nucleare rappresenta un ottimo deterrente, soprattutto se vengono concessi prestiti per coprire totalmente o quasi la spese (vedi il caso di Bielorussia, Egitto, Bangladesh). L’azienda nucleare russa Rosatom e le sue sussidiarie si fanno carico della costruzione dei reattori e dei rifornimenti di combustibile, creando un legame a doppio filo difficilmente rescindibile, con tutti i risvolti politici che ciò comporta. Si pensi che è rimasta esclusa dal pacchetto europeo di sanzioni contro la Russia per la collaborazione fattiva con l’industria atomica europea e occidentale.

Al pari della Francia, la Federazione Russa presenta condizioni favorevoli per il nucleare: il know how dell’era sovietica (23 reattori su 37 attualmente attivi risalgono a quel periodo); un’economia di tipo dirigista dove il settore energetico è sotto il rigido controllo statale; una fiorente filiera militare, vedi il recente test condotto con successo del missile a propulsione atomica Burevestnik. Tuttavia, rispetto alla Francia l’apporto del nucleare sul totale dell’elettricità prodotta è di gran lunga inferiore, intorno al 20%: oltre a una quota quasi analoga di idroelettrico, le fossili la fanno da padrone (su tutte il gas naturale), mentre le rinnovabili sono quasi completamente al palo. 

Un dato in controtendenza con il resto del mondo, dove nell’ultimo ventennio eolico e fotovoltaico sono cresciuti esponenzialmente fino a raggiungere nel 2020-21 il traguardo di superare congiuntamente la produzione elettrica da nucleare:

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In India e in Cina, nazioni che pure hanno investito pesantemente sull’atomo, la generazione da rinnovabili risulta molto più ingente; in Germania hanno già superato il picco di produzione storico del nucleare, mentre nella UE e negli USA il sorpasso è prossimo (per i dettagli si rimanda al WNISR 2022). Nonostante alcuni interventi politici che ne hanno rallentato lo sviluppo, in Italia nel 2021 eolico e fotovoltaico hanno generato 45,7 TWh, ossia la stessa quota di elettricità che avrebbe potuto garantire il programma dei quattro reattori EPR previsti nel 2011 dal governo Berlusconi e poi bocciato dal referendum. Tuttavia, in considerazione di quanto accaduto con i progetti analoghi in Francia e Finlandia, sicuramente la prima unità oggi non sarebbe ancora avviata e i costi complessivi sarebbero gonfiati.

Alla luce di quanto emerso in questo disamina, si possono tracciare alcuni punti fermi imprescindibili in considerazione della necessità di una rapida decarbonizzazione:

  • l’urgenza di arginare celermente la crisi climatica e i risultati produttivi di nucleare e rinnovabili, ancora molto inferiori a quelli di petrolio, carbone e gas, prefigurano un’economia low carbon con consumi largamente inferiori a quelli del mondo dominato dalle fonti fossili. In ottica ecologica non è una cattiva notizia, ma occorre chiarirlo dal momento che i fautori dell’energia atomica tendono a presentarla come opzione per proseguire con il business as usual;
  • solo Cina e India (la prima in misura decisamente maggiore) hanno le possibilità economiche di varare piani ambiziosi sia nel nucleare che nelle rinnovabili, nonché di finanziare ricerca e sviluppo sull’energia atomica ‘di nuova generazione’, sulla fusione e sulle tecniche per la cattura e il sequestro della CO2. Per gli stati nuclearisti occidentali, gravati dal peso del debito e da decenni di stagnazione, si tratta invece di un obiettivo improponibile, anche perché portano sulle spalle il peso delle ‘scorie’ di 50 anni di esperienza atomica (gestione rifiuti radioattivi, decommissioning centrali obsolete). Prolungare la vita operativa delle unità esistenti è una strategia utile solo se gli sforzi per mantenere l’energia low carbon attuale non vanificano quella del futuro;
  • alla luce dell’esperienza cinese e indiana, anche ipotizzando il futuro più roseo per l’atomo è evidente che l’energia prodotta dalle rinnovabili garantirà un apporto maggiore sul fabbisogno globale. Ciò significa la necessità a prescindere di sviluppare i sistemi di accumulo, essendo l’impiego del nucleare molto poco flessibile e quindi inadatto per compensare ai picchi di carico di fonti aleatorie;
  • dati alla mano, nel nuovo millennio l’unico esportatore affidabile di tecnologia atomica (in grado cioé di garantire la costruzione di un reattore in dieci anni o poco più) è la Russia. Questo però prima delle pesanti sanzioni occidentali seguite all’invasione dell’Ucraina e del varo di una sorta di economia di guerra da parte di Putin;
  • il Piano Nazionale Integrato Per L’energia E Il Clima (PNIEC) ha recepito per l’Italia l’obiettivo di ridurre al 2030 le emissioni climalteranti del 40% rispetto al 1990 con neutralità carbonica al 2050 (attualmente non siamo in linea con i traguardi prefissati). In questo scenario è difficile immaginare qualsiasi programma atomico, anche ponendosi intenti ‘moderati’: il 25% di apporto nucleare su di un fabbisogno elettrico complessivo di 300 TWh, ad esempio, implicherebbe di installare 9-10 GW di potenza. A titolo di paragone, tutti i progetti del XXI secolo già avviati o ancora in cantiere in Nordamerica e in Europa Occidentale ammontano a 8,7 GW. Uno sforzo impensabile che tarperebbe le ali alle rinnovabili, aumentando nel frattempo la dipendenza dalle fossili; senza contare la beffa se davvero diventassero fattibili i reattori di IV generazione (al pari di Tartaglia e altri nel dubito fortemente), che significherebbe aver speso decine e decine di miliardi per una tecnologia oramai obsoleta.
  • problemi analoghi sono vissuti da nazioni con caratteristiche simili alla nostra, prive di energia nucleare o con reattori vicini alla fine vita operativa. Diverso il caso di paesi ricchi con una popolazione intorno ai dieci milioni di abitanti o inferiore (vedi Svezia, Finlandia, Svizzera), capaci di coprire una quota molto consistente delle loro esigenze anche con un numero esiguo di unità.

Qualsiasi ipotesi realistica sulla decarbonizzazione passa per i punti sopraelencati. Per chi ama le esternazioni in stile Calenda (“40 GW nucleari per l’Italia entro il 2050”) o Salvini (“centrale atomica a Milano per il 2032”) oppure vagheggi altre favole, si consiglia di giocare a Minecraft.

Immagine in evidenza: centrale nucleare realizzata su Minecraft, videogioco basato sulla costruzione di mondi virtuali. 

 

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