La questione della Sea Watch ha riproposto lo scontro ideologico sul fenomeno delle migrazioni con le opposte fazioni certe di detenere una verità superiore da dover imporre agli altri. I reprobi, peccatori, cattivi, o alternativamente i buonisti, accoglientisti, ecc ecc. Difficilissimo non farsi trascinare e non rispondere alle provocazioni, sospendere il giudizio. Allora ho pensato di abbandonare il social. Poi ci ho ripensato. Il social è indispensabile per capire. Anche per capire il proprio punto di vista ed essere pronti a modificarlo. Sì, perché i punti di vista si possono modificare.

Per rendere le cose più semplici devo illustrare il mio punto di vista, non definitivo, attuale.
Il problema è che ci troviamo di fronte a un fenomeno, l’emigrazione dal sud del mondo verso il nord, che ha molteplici cause, ma tutte essenzialmente riconducibili a problemi ecologico- economici: la sovrappopolazione dei paesi del sud, i cambiamenti climatici, lo sfruttamento da parte del nord delle risorse del sud. Guardiamo ad esempio l’Africa, dove l’industria del nord va a prendere, da secoli ormai, minerali, gas e petrolio, prodotti agricoli, pesce e anche manovalanza a basso costo. Sulla base di questo punto di vista sarebbe perfettamente etico accogliere tutti i migranti. Purtroppo, come capita sempre nelle questioni umane, sulla cause non ci si trova molto spesso d’accordo. Inoltre le diverse posizioni etiche portano le persone a litigare accanitamente perché ognuno si trova “dalla parte giusta della storia”.

Non tutti riconoscono che la causa sia ecologica. Ad esempio il problema della popolazione è respinto come fattore causale quasi da tutti quelli che si rifanno a qualche ideologia (absit iniuria verbis), sia di destra che di sinistra, sia a base religiosa che laica, sia ecologisti che industrialisti ecc. Non tutti riconoscono la realtà del riscaldamento climatico (per non parlare della sua origine antropica). Non tutti infine riconoscono il ruolo predatorio dell’industria capitalistica. Un bel problema.

Si deve aggiungere che il fenomeno migratorio è spesso favorevole ad ulteriore espansione del sistema che lo ha causato, appunto il sistema capitalistico predatorio. Alla fine del secolo scorso il capitalismo ha iniziato ad incontrare una crescente viscosità nel flusso materiale dalla natura al sistema economico che è culminato nel picco del petrolio convenzionale che, anche secondo l’IEA, si è verificato ormai quasi 10 anni fa. Il picco del convenzionale è la fine del petrolio a buon mercato (cheap oil), come previsto correttamente da Colin Campbell e Jean Laherrere nel 1998, e in generale dell’energia facile (cheap energy). Questa viscosità materiale si sommava ad una crescente viscosità sociale che si può riassumere nell’affermazione dei diritti dei lavoratori culminata in una generalizzata resistenza allo sfruttamento ed a una altrettanto generalizzata e crescente richiesta di accesso al consumo. L’affermazione dei diritti dei lavoratori a livello nazionale stava, gia dalla fine degli anni ’60 del XX secolo, riducendo l’autonomia del capitale. Il processo di rapida globalizzazione con l’apertura delle frontiere, la concessione della libera circolazione delle merci, dei capitali oltreché delle persone, permette di sostituire la cheap energy con il cheap labour ed è la risposta, quasi automatica, che il capitale trova per affrontare la nuova situazione. Il lavoro a buon mercato può essere trovato sia delocalizzando la produzione all’estero (grazie alla libera circolazione dei capitali) sia importando lavoratori disposti a fare lavori faticosi o sgradevoli a salari più bassi, spesso molto più bassi, di quelli che pretenderebbero cittadini del paese di accoglienza. Il risultato di questo processo di globalizzazione non è un aumento globale delle disparità economiche, come spesso si sente dire, ma un aumento delle disparità nei paesi di vecchia industrializzazione dove i ceti popolari ed i ceti medi si impoveriscono. Quando si dice che gli immigrati fanno lavori che gli italiani non vogliono fare, si dice in realtà che gli immigrati fanno lavori che gli italiani non vogliono fare a quel salario. Ho un ricordo ancora vivo della raccolta dei pomodori in Maremma, e di altri lavori agricoli stagionali, dove figli del ceto medio e della classe operaia si trovavano ad integrare i reddito familiare alla fine della scuola. Il guadagno, che era almeno cinque volte quello di un lavoratore attuale, garantiva alle famiglie una vacanza che i figli si pagavano da soli.

Il meccanismo è alquanto antico, per vincere la competizione capitalistica si mettono in competizione i lavoratori, c’è un immenso esercito di manodopera inutilizzata nei paesi del sud del mondo (nella prima fase anche nell’est europeo) che è disposta a lavorare per due soldi a casa propria e per tre soldi a casa nostra. Non è difficile capire da dove nasce il risentimento di una parte consistente del popolo dei paesi europei nei confronti delle classi dirigenti che non li hanno protetti e non li proteggono da questo fenomeno. Ovviamente ci sono paesi e paesi. I paesi che, per ragioni storiche e strutturali, hanno una buona mobilità dei lavoratori verso l’alto, assorbono meglio l’immigrazione. I paesi del nord Europa, la Germania in testa, la cui industria ha un forte contenuto tecnologico riescono ad assorbire forza lavoro specializzata che lascia lavori inferiori e meno pagati agli immigrati. Detto per inciso, il progressivo lento sgretolamento del centro politico che ha governato per decenni è segno che questo privilegio nordico si sta attenuando. Questo è comunque un effetto del maggiore avanzamento tecnico- scientifico delle società del nord rispetto a quelle mediterranee. Anche negli USA ed nel Regno Unito la situazione è simile. In Italia la situazione è sempre più difficile ed ha iniziato a diventare difficile proprio dall’avvento dell’ultima fase del processo di globalizzazione di cui, la nascita dell’euro, è stata una componte essenziale a livello regionale. L’Italia, paese della medietà tecnologica, fatta dai distretti che producono tessile, pellame, elettrodomestici, ecc viene investita da un processo che delocalizza all’estero e importa manodopera a basso costo. A questo problema di fondo si risponde in teoria con la retorica della ricerca come soluzione di tutti i mali. l’Italia ha un basso livello di innovazione tecnologica e la mobilità verso l’alto di cui sopra è preclusa a causa del fatto che la ricerca scientifica è poco finanziata.

La classe lavoratrice più forte dell’occidente, quella italiana, con la sinistra più forte del mondo occidentale, investita dallo tsunami economico degli ultimi 40-50 anni si trova minacciata su tutti i fronti e soccombe nello stesso momento in cui il sistema politico della prima repubblica va a ramengo sotto il colpi del giustizialismo e, soprattutto, a causa del cambiamento strutturale dato dal crollo dell’Unione Sovietica e dalla fine della rendita di posizione che, a livello internazionale, l’URSS garantiva al paese. Il meccanismo europeo, con la nascita della moneta comune, e l’imposizione dei vincoli di bilancio, garantisce l’irreversibilità del processo, avendo distrutto ogni forma di sovranità nazionale a favore del centro a trazione germanica. Il passaggio in corso, dopo aver sconfitto le classi lavoratrici imborghesite di fine secolo, prevede l’attacco al patrimonio dei ceti medi fino al ritorno dell’Italia nella normalità internazionale. Tutti uguali, egualmente sradicati dal proprio territorio (cioè non più nemmeno lontanamente “padroni a casa nostra”), impauriti, disponibili di fronte ad un capitale in cerca di lavoro e materie prime a buon mercato. Per ora, finché il lavoro sarà necessario e nella misura in cui lo sarà, poi un aumento della mortalità (come avvenuto in Grecia dopo la crisi, ma come probabilmente sta avvenendo un po’ ovunque) garantirà il rietro nell’alveo della sostenibilità economica.
Su tutti questi fattori si fonda il risentimento che cova sotto la cenere di un fuoco spento lentamente e tenuto a bada grazie alla costante azione di un sistema informativo asservito al progetto.

A me sembra chiaro che l’identificazione di coloro che si oppongono agli ingressi più o meno incontrollati con epiteti più o meno offensivi, xenofobi, razzisti ecc, non aiuti minimamente a rendere il dibattito più chiaro e politicamente produttivo. Non serve a molto neppure la produzione di statistiche raccolte con estrema acribia e che dimostrano, immancabilmente, che gli immigrati sono pochi che non fanno male a nessuno e che anzi aumentano le entrate dell’erario. Mi torna in mente un’intervista di qualche anno fa al ministro Minniti che ricordava un suo intervento nella ex roccaforte Bologna al termine del quale un suo vecchio compagno di partito, si sta parlando del P.C.I., lo intercetta e gli dice (uso le virgolette, ma cito a memoria):” caro compagno, se mia moglie è preoccupata dalla massa di sfaccendati che si aggirano sotto i portici di questa città e tu vieni qui a parlarmi di numeri, vuol dire che non hai capito un cazzo”. La situazione è chiara. Per ogni discorso più o meno generoso (il “meno” si riferisce a quelli, e non sono pochi, per i quali l’immigrazione è un affare), che parla di accoglienza senza se e senza ma, corrisponde una reazione che porta voti al sovranismo aggressivo.

Nel frattempo invece ci sono schiere di quelli che a me sembrano illusionisti al lavoro. Chi, come i liberali, è convinto che per uscire dall’empasse sia necessario portare a termine il processo di globalizzazione creando un sistema internazionale sostanzialmente “no border” in cui ognuno va in giro a cercare l’opportunità migliore. Una specie di gas perfetto sociale con aggregazioni temporanee fra individui che non hanno altra qualità che l’essere valutabili come capitale umano in base a criteri econometrici di valutazione del merito. Chi, come i sovranisti, pensa che sia possibile mantenere o ripristinare la situazione precedente alla grande crisi con una modulazione di azioni di protezione delle frontiere e della produzione locale attraverso la riconquista di spazi di sovranità monetaria ed economica, senza dover pager pegno sui vantaggi che dà il globalismo, ad esempio l’accesso alle materie prime a costi sopportabili e magari stimolando anche un po’ di ripresa demografica. Chi, come i verdi di varia natura, coniuga il cosmopolitismo economico dei liberali (no borders) con l’ecologismo economico, suggerendo una rapida uscita dall’era dei combustibili fossili che garantisca cibo e condizioni dignitose per tutti. Astenendosi, i verdi, dall’affrontare il problema della sovrappopolazione. Poi ci sono i rivoluzionari, anche questi hanno varie nature, ma fra gli illusionisti sono i più credibili di tutti perché sono illusionisti da oltre due secoli e quindi si sa cosa vorrebbero e anche cosa generalmente ottengono le poche volte che hanno successo. Tutti poi attingono a piene mani alla retorica della ricerca. Chi per promuovere l’innovazione produttiva, chi per aumentare la competitività del “sistema paese”, e tutti per darsi una rassicurante verniciata di “green”.

In tutto questo can can è difficile, estremamente difficile, non farsi trascinare in qualche discussione accanita su temi secondari, o trovarsi a difendere posizioni non proprie, o cercare di capire meglio posizioni estemporanee basate sulla pura propaganda. Da questo punto di vista i social network (io frequento quasi solo facebook) hanno il potere di attrarre l’attenzione ogni giorno per un tempo sinceramente eccessivo che va quasi sempre interamente perduto nel nulla.

Io non ho una risposta e la mia analisi non è altro che un abbozzo che volentieri integrerei o smonterei. Comunque troverei più importante, a questo punto, fermarmi a riflettere. Ma lasciare il social significa perdere il polso della situazione. Quindi resto nel social ma evito polemiche ed uso le reazioni altrui e mie come oggetto di studio. Non ho una ricetta migliore per me stesso.

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