Il presidente Mattarella è stata la figura più autorevole tra le tante che hanno condannato la crudele e criminale vicenda che ha causato nelle campagne di Latina la morte del bracciante indiano Satnam Singh, e c’è chi ha parlato esplicitamente di schiavitù. Al di là della retorica, l’espressione non è certo fuori luogo per descrivere quanto avviene laddove il caporalato impera e prospera. Tuttavia, come ha ben spiegato il giornalista d’inchiesta Stefano Liberti ne I signori del cibo, la denuncia moralistica rischia di sminuire la vera essenza del problema, che travalica la piaga dei caporali e le cronache nostrane per assumere proporzioni globali, in una rete intricata tra Occidente, BRICS e Africa:

Non sono schiavi. Sono impiegati a giornata, certamente ricattabili e quasi del tutto privi di potere negoziale, ma che nessuno costringe a lavorare in catene. La distinzione non è un mero esercizio semantico: definendo questi braccianti schiavi e dando al fenomeno una coloratura arcaica, quasi marginale, lo si relativizza, riducendolo al rango di anomalia locale. Invece, il sistema non riguarda solo il Sud Italia con le sue sacche di illegalità e d’intermediazione illecita… Il bracciantato regolato dai caporali… è l’espressione di un movimento che si dispiega a livello planetario.

Questo movimento è la diretta conseguenza dell’offensiva delle aziende-locusta che lavorano sui grandi numeri, trasportano i prodotti alimentari da un capo all’altro del pianeta e si assicurano margini di guadagno grazie alle loro economie di scala, ai loro network commerciali e politici, alla loro potenza di fuoco. Sono i gruppi che muovono le navi-container piene di soia dal Brasile ai porti cinesi e i carichi di pomodoro concentrato dagli stessi porti verso altre direzioni. Sono quelli che rinchiudono in capannoni centinaia di migliaia di maiali nutrendoli con la soia brasiliana. Sono quelli che inscatolano ed esportano il tonno che sta scomparendo dai nostri mari. Sono quelli che comprano il pomodoro raccolto dai bambini nello Xinjang pagati un tot al metro o dagli africani senza documenti nel Sud Italia pagati un tot a cassone.

Riassumendo schematicamente: i brasiliani usano le loro terre per produrre soia che viene ingurgitata dai maiali industrializzati che la Cina ha importato dagli Stati Uniti; i cinesi usano le loro campagne per produrre il concentrato di pomodoro che verrà esportato in Africa o servirà da base al ketchup negli hamburger che i fast food come McDonald’s vendono in tutto l’Occidente – e che stanno cominciando a spopolare in Cina.

 

Animali stipati negli allevamenti intensivi e umanità sfruttata nei campi (sono consapevole della crudezza dell’accostamento) rappresentano di fatto una delle fondamenta su cui si regge la grande macchina dell’alimentazione globale. Chi vive nei paesi industrializzati è abituato alla sovrabbondanza di cibo e ne sminuisce l’importanza lasciandosi piuttosto ammaliare da gadget elettronici e frivolezze simili. Eppure senza cibo molto banalmente è impossibile sopravvivere ed è fondamento di qualsiasi ipotesi di benessere, non a caso il suo controllo ha sempre giocato un ruolo fondamentale nelle strategie di dominazione politica, ieri come oggi.

Raj Patel e Jason Moore, nella loro pregevole analisi storica dei meccanismi profondi del capitalismo, hanno evidenziato l’importanza di garantire cibo a buon mercato, per ragioni non certo filantropiche ma legate alla buona tenuta del sistema. Alimenti a basso prezzo consentono in ottica liberista di contenere l’impatto della precarizzazione del lavoro (fate caso alla coincidenza temporale tra avvento dei discount e progressiva riduzione delle tutele sindacali), in quella keynesiana invece incentivano la classe lavoratrice al consumo di beni voluttuari o comunque meno imprescindibili per l’esistenza.

A partire dalla dal nuovo millennio, però, il prezzo del cibo è progressivamente salito e oggi supera, in termini reali, quelli precedenti alla diffusione capillare della rivoluzione verde, universalmente considerata la panacea contro ogni timore di ‘bomba demografica’.

 

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Fonte: FAO

 

Per scongiurare lo spettro della crisi alimentare, si ipotizza una svolta epocale simile a quella operata dalla rivoluzione verde, ossia la cosiddetta ‘agricoltura di precisione’ basata sull’implementazione su vasta scala di OGM vecchi e nuovi, droni, GPS e sensoristica avanzata; ma tutto ciò comporta altri costi che andrebbero ad aggiungersi a quelli crescenti di sementi, fertilizzanti, pesticidi e combustibili. Si capisce pertanto l’importanza di calmierare le spese tramite pratiche come il bracciantato arruolato dai caporali, un ‘retaggio servile’ che risulta quindi del tutto complementare alla ipertecnologia, che potrebbe quindi esasperare ulteriormente questo fenomeno anziché combatterlo.

 Al cordoglio pubblico riguardo ai fatti di Latina stanno seguendo dichiarazioni e dibattiti di circostanza che avranno come esito prevedibile iniziative estemporanee dell’ispettorato del lavoro e qualche azione dimostrativa di forze dell’ordine e magistratura contro i caporali, poi quando la luce dei riflettori si sarà spenta l’ignavia prenderà di nuovo il posto dell’indignazione. Del resto, a parte interventi per contenere il danno (comunque meglio di niente), l’unico modo per superare il caporalato e tante delle storture che attanagliano il mondo rurale è rifondare da capo l’agricoltura e poi l’intero paradigma alimentare.

In questo caso, però, la discriminante non è tanto sulle tecniche, come lascerebbero intendere le consuete diatribe del tipo ‘OGM vs biologico’. Certo, la transgenesi e i processi agricoli ad alto contenuto tecnologico favoriscono ulteriormente i processi di concentrazione economica che stanno strangolando i contadini e agevolano lo sfruttamento, ma l’agroecologia in stile Whole Foods (catena di prodotti biologici controllata da Amazon) è solo un’operazione di facciata senza risvolti concreti in fatto di sostenibilità ambientale e sociale. Il vero spartiacque è una cultura che smetta di considerare il cibo una mera commodity, per dirlo nel gergo economicista.

Attribuire all’alimentazione dignità e considerazione adeguate è il primo passo per garantirle anche ai servizi ecosistemici fondamentali per la fertilità, ai terreni agricoli, all’allevamento animale e ai lavoratori della terra, siano essi semplici braccianti, coltivatori diretti o contadini di altro genere. Ciò implicherebbe però di superare non solo il capitalismo, ma anche la logica industrialista e sviluppista condivisa dal socialismo marxista e che permea tutte le società attuali, occidentali e non. Occorrerebbe insomma una visione autenticamente ecologica, purtroppo la grande maggioranza degli agricoltori vede con il fumo negli occhi l’ambientalismo (si pensi alle recenti proteste contro il Green New Deal) e i principali movimenti ecologisti, vedi gli attivisti del clima, si concentrano per lo più sulle fonti energetiche, trascurando colpevolmente il settore agricolo.

L’agricoltura ha creato la civiltà umana, se questa dovesse collassare una delle cause fondamentali sarà averla sminuita e soggiogata a logiche ritenute superiori. Finché tutto si limita ad anonimi braccianti sfruttati che riacquistano visibilità solo con una morte atroce o a contadini strozzati da mediatori e GDO, possiamo voltarci dall’altra: ma per quanto ancora?

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