Eppure ci voglio tornare perché c’è chi davvero crede che ancora oggi la Terra abbia “risorse per i bisogni di tutti” o addirittura, che parlare di sovrappopolazione renda complici di un perverso complotto. C’è poi chi è convinto che il problema si risolverà da solo grazie all’emancipazione femminile e la crescita del benessere; poi chi, infine, si arrende, dicendo candidamente che, tanto, non c’è più niente da fare.
Prima di addentrarsi in questo campo minato, è bene ricordare che la demografia dipende solo in parte da leggi naturali abbastanza conosciute e quindi dagli effetti parzialmente prevedibili; in parte consistente dipende invece da fattori psicologici e sociali largamente imprevedibili, specie in un contesto economico ed ambientale instabile.
In pratica, ciò che possiamo fare è osservare cosa è accaduto nel recente passato e cercare di dedurne delle probabili tendenze future. Un approccio prettamente induttivista che rischia, certamente, di portare a conclusioni da “tacchino di Russell“, ma che è anche l’unico che abbiamo. I più sofisticati modelli matematici non stanno dando risultati migliori, semmai peggiori, un po’ perché molti parametri importanti non sono modellizzabili, oppure perché vengono bellamente ignorati per ragioni di convenienza politica.
Dunque, coloro che negano il fenomeno, hanno semplicemente torto ed il paradosso è che molti fra coloro che non vogliono sentir parlare dell’argomento sono gli stessi che si ergono a paladini dei poveri, del sud del mondo e delle donne sottomesse e sfruttate; cioè proprio le tre categorie (largamente sovrapposte) che più di tutti stanno pagando e pagheranno alto il prezzo dell’inazione. Davvero non rendono un buon servizio a coloro che credono di difendere.
Chi invece sostiene che il problema si risolverà da solo ha ragione, anche se solo in parte circa le cause in gioco. Non è infatti la crescita economica che riduce la natalità (semmai il contrario), ma alcuni fenomeni spesso associati ad un relativo benessere, come una parziale emancipazione femminile e la scolarizzazione di massa, effettivamente riducono la natalità, anche se nessuno può garantire che questi siano processi irreversibili. Anzi, in molte parti del Pianeta stanno emergendo tendenze opposte.
Comunque sia, il principale limite di questo approccio è che non tiene conto del tempo. I tempi attuali di rallentamento della crescita non sono infatti compatibili con la sopravvivenza della biosfera, perlomeno se insisteremo ad usarla contemporaneamente come cava per tutto ciò che ci serve e come discarica di tutto ciò che non ci serve più.
Per essere chiari, oggi abbiamo ancora un consistente tasso di incremento demografico (circa 80 milioni di persone l’anno), mentre la sesta estinzione di massa è già in pieno corso. In pratica, la decelerazione della crescita demografica è troppo lenta rispetto all’accelerazione del tasso di degrado della biosfera. Questo non significa che la crisi non si risolverà da sola, anzi lo farà certamente. Purtroppo. Forse ci saranno guerre di sterminio e carestie, o semplicemente un forte aumento della mortalità indotto dal degrado ambientale ed economico, ma comunque, per questa via, il pedaggio verso la sostenibilità sarà particolarmente doloroso. Sarebbe bello poterlo evitare, almeno in parte.
I terzi, coloro che pensano che non ci sia niente da fare, peccano invece di disperazione, ma poiché fra questi vi sono anche persone competenti e sinceramente impegnate nel tentativo di arginare il disastro, vale la pena di affrontare il discorso un poco più alla larga.
La “non formula” di Ehrlich
Nel 1968 (4 anni prima della pubblicazione di Limits to Growth) Paul Ehrlih pubblicò a suo nome un libro che, in realtà, aveva scritto a quattro mani con sua moglie Anne. Il testo fece scalpore per i toni crudi e diretti con cui annunciava e, apparentemente, dimostrava l’ineluttabilità di una carestia di portata biblica. L’incipit del libro era infatti:
“La battaglia per nutrire l’umanità è perduta. Negli anni ’70 centinaia di milioni di persone moriranno di fame malgrado qualunque piano d’azione si possa mettere in atto adesso. E’ troppo tardi per prevenire un sostanziale incremento della mortalità a livello mondiale.”
Un pronostico che fu presto smentito dai fatti. Lo scienziato americano aveva infatti grossolanamente sottostimato le potenzialità della “rivoluzione verde”, ma aveva nondimeno capito e spiegato la natura degli impatti antropici sulla biosfera. In particolare, è concettualmente utile la sua celebre “formula” : I = PAT.
Anche questa rifiutata e dileggiata da molti sulla base di un fondamentale fraintendimento politicamente assai comodo e, quindi, ben radicato. In effetti, non è una formula in quanto i fattori non possono essere espressi in unità di misura comparabili e non è quindi risolvibile, neppure in teoria. Ma se invece di considerarla un’equazione la consideriamo l’espressione concisa di un concetto (dunque qualcosa di analogo, ma non omologo ad una vera equazione) I = PAT risulta pienamente valida.
L’impatto antropico risulta infatti sostanzialmente dall’interazione di tre ordini di fattori: il numero di persone, i consumi delle medesime e la tecnologia utilizzata. Il punto è che fra questi tre non corre una semplice relazione di moltiplicazione, bensì complesse retroazioni prevedibili solo in parte. Ad esempio, esiste un ampio corpus di ricerche che dimostrano, sia sul piano empirico che teorico, che il preteso “disaccoppiamento” fra crescita economica e impatti ambientali è quasi esclusivamente greenwashing (in Italiano “fuffa verde”). Ma sui possibili effetti della leva tecnologica in un contesto politico mirato ad una severa e rapida riduzione dei consumi finali di materia ed energia si discute, proprio perché non è praticamente mai stato fatto.
Dunque Ehrlich si era sbagliato su molte cose, ma aveva correttamente individuato e definito una parte del problema. Non tutto però perché alla sua “non formula” manca un “denominatore”: K. Cioè la capacità di carico del territorio.
Vale a dire che, ricordandosi che non abbiamo a che fare con una vera equazione, andrebbe scritto così:
La sovrappopolazione non è infatti un fattore assoluto, bensì relativo. E’ cioè uno stato “patologico” che si presenta quando una popolazione supera la capacità di carico del suo territorio; vale a dire che comincia a degradarlo in maniera tale che la sua capacità di sostenere a tempo indeterminato quella stessa popolazione diminuisce. Dipende quindi non solo dall’impatto esercitato, ma anche dalla capacità di incasso degli ecosistemi che vengono colonizzati.
Per fare un solo esempio ben documentato, società numerose e complesse sono sorte solo in zone in cui le caratteristiche del clima e dei suoli erano tali da permettere un prolungato ed intenso sfruttamento agricolo con danni relativamente contenuti alla fertilità dei campi.
Dunque possiamo fare qualcosa per la sovrappopolazione?
Certamente si, anche escludendo a priori interventi brutali come si è fatto in Cina e si tentò invano di fare in India.
Per cominciare, spiegare il ruolo della demografia nella crisi globale in corso avrebbe molteplici vantaggi: dal prevenire il ritorno di anacronistiche politiche nataliste, al far comprendere che la tanto sospirata “transizione” sarà comunque qualcosa di molto più complicato e duro di quanto si immaginino la maggioranza di coloro che la invocano. Fattore questo a mio avviso necessario per prevenire pericolose crisi di rigetto in corso d’opera.
Poi, le politiche di “empowerment” femminile e di scolarizzazione, ancorché non risolutive, sono certamente utili. Parimenti, educazione sessuale, distribuzione gratuita di contraccettivi, ecc. sono tutti mezzi che dovrebbero e potrebbero essere assai più diffusi.
Quindi intervenire sui consumi e sulle tecnologie avrebbe parimenti l’effetto di ridurre l’impatto complessivo, anche a parità di numero di persone. E’ ovvio quindi che ci sono paesi e classi sociali in cui la priorità sono il calo dei consumi e il ridimensionamento tecnologico, metre in altri la priorità è il calo della natalità, magari associandola alla diffusione di qualche particolare tecnologia. Negare uno qualunque di questi due fatti è semplicemente mentire.
“Last but not least”: non se ne parla mai, ma operare sul denominatore sarebbe altrettanto importante e, spesso, più facile. Politiche come estendere le aree protette, il “rewilding” (in italiano: rinaturalizzazione), la diffusione di pratiche agricole a basso impatto, la guerra al bracconaggio ed al mercato internazionale di specie rare, l’antincendio boschivo, il riallagamento di paludi, ecc. sono solo alcune delle azioni che contribuirebbero a mitigare il degrado del pianeta e, dunque, a sostenerne la sua capacità di carico nei nostri confronti. In altre parole, sostenere attivamente la biosfera presenterebbe il triplice vantaggio di guadagnare tempo, mitigare la sovrappopolazione senza toccare certi tabù, aumentare la probabilità che i nostri discendenti si trovino su di un pianeta in cui possano esistere nuove civiltà; finanche allontanare lo spettro della nostra stessa estinzione.
Beninteso, quella che stiamo fronteggiando è la fine della civiltà industriale, non quella della specie umana. Tuttavia, se esiste qualcosa che può minacciare davvero la stessa sopravvivenza della nostra specie, è proprio l’estinzione di massa di cui stiamo osservando gli albori e che a ben pochi interessa. Pare infatti che preoccuparsi di queste cose sia un passatempo da fricchettoni. Così, almeno, la pensano praticamente tutti i rappresentanti del potere, ma anche una consistente percentuale di ambientalisti o, piuttosto, di persone che presumono di essere tali.
Fin quando non avremo l’acqua alla gola non cercheremo di nuotare e quando proveremo a nuotare ci accorgeremo che non sappiamo fare, perchè non abbiamo mai imparato prima, pensando che non ci serviva.
Le osannate e incentivate AGRICOLTURA e ZOOTECNIA sono praticamente diventate un CANCRO per il pianeta! Per voti e per soldi!
Bè… anche per mangiare.
Finchè non ci si accorge che le questioni ci vedono tutti sulla stessa barca, solo le “idee” degli ipocriti e dei neonazi trovano spazio nelle menti. Per quanto mi riguarda dunque, chi insiste nel vedere le nazioni come il terreno SEMPRE e COMUNQUE primario su cui si deve agire per “cambiare il mondo”… va trattato come un tangentaro: nel senso che se ne va per la tangente.
Così non fa Jacopo, che analizza le questioni senza lambiccarsi su quel che fa o non fa il singolo Paese per preservare se stesso. Eppure, nel suo Paese, dà battaglia perchè si faccia quel che non rema contro il pianeta. Notate la sottile differenza? Io sì, e per me è cruciale: nessun Paese si salva da solo.
Ipocriti e neonazi pensano invece che solo a valle delle supposte strategie di salvezza NAZIONALE si possa puntare (come effetto secondario, quando addirittura non negato nella sua realtà) alla resilienza dell’Umanità. Ecco allora che se la prendono con gli Altri: che sarebbero subuomini e saremmo noi a dover reggimentare, o quantomeno “aiutare in casa loro” (o cacciare via, se stanno tra noi).
Quella cattiva coscienza è assassina, e stragista quando si accorge di un problema come la sovrappolazione e la vorrebbe gestire.
L’alternativa è il dialogo, anche se la crisi e la fretta spingono sempre più a gridare le proprie ragioni. Ma non è necessariamente un dialogo tra poteri statali. E’ semmai un dialogo tra persone, che non si deve fermare di fronte alla sua apparente insignificanza… della quale c’è sempre chi si sa approfittare, e con la nostra sosta saprebbe pure accelerare.
Ti segnalo un refuso: “rewailding”, immagino intendessi “rewilding”.
Grazie, corretto.
Jacopo, fai un’affermazione forte senza spiegarla: perché la nostra specie è minacciata dall’estinzione di massa? Finora siamo stati in grado (purtroppo!!) di far fuori un sacco di specie senza risentirne, anzi: più spazio per noi e per le nostre piante e i nostri animali!
Io sono assolutamente favorevole alla rinaturalizzazione, purché equa e gestita e non scaricata a mo’ di esperimento sui gruppi più deboli, come ora, però non so se l’argomentazione che “ci conviene” sia poi così convincente.
Ciao Gaia, lo dico perché è la Biosfera che regola i flussi bio-geo-chimici ed assicura quindi che sul pianeta rimangano condizioni chimico fisiche compatibili con la vita biologica. Questa si è sviluppata in tempi molto remoti ed in condizioni che non si verificheranno mai più su questo pianeta. Da allora, è stata la presenza di una vita abbastanza numerosa e varia a garantire che la vita stessa potesse continuare. Quanto è “abbastanza”? Non lo sappiamo e vorrei evitare di fare esperimenti in proposito.
Non sono convinta. Un conto è la “vita biologica”, un conto la “biodiversità”.
L’Europa è un continente da cui, da migliaia o centinaia di anni, molte specie sono sparite per far posto ad agricoltura, urbanizzazione, industria. Eppure è diventato uno dei luoghi più umanamente ricchi e popolosi del pianeta. Si sente spesso ripetere che l’Amazzonia potrebbe contenere medicine ancora sconosciute, e sarà sicuramente vero, però resta il fatto che in Amazzonia quando è arrivato il Covid la medicina tradizionale, a quanto mi risulta, non è servita, dato che le persone morivano come mosche. La medicina sviluppata in zone molto meno ricche di biodiversità ha invece fatto la differenza.
E lo sto dicendo da persona super-decrescista e che vorrebbe rinaturalizzare le pianure del nostro paese in maniera radicale. Però questa storia che la biodiversità in quanto tale sia quello che garantisce la nostra sopravvivenza mi sembra esagerata.
Penso che l’argomento morale per conservare la biodiversità sia molto più convincente.
Scusi Gaia, ma mi pare di notare un salto carpiato nelle sue argomentazioni. Che c’entrano le medicine “sconosciute” dell’Amazzonia, l’arrivo del Covid e l’inutilità della medicina tradizionale con il ruolo della biodiversità? Tanto per cominciare, se non fossimo andati a sfrucugliare troppo gli ambienti naturali e i loro residenti animali e vegetali, molto probabilmente ci saremmo risparmiati la presente pandemia, ma anche Ebola, AIDS ecc. (vedi Spillover). E poi, su quali basi argomenta che “questa storia che la biodiversità in quanto tale sia quello che garantisce la nostra sopravvivenza mi sembra esagerata”? E guardi che, con il mondo in cui viviamo ora, gli argomenti morali avrebbero ben poca presa. Purtroppo. Occorre una buona dose di pragmatismo per cercare di arginare il disastro attuale. Considerazione che vale anche per un suo post successivo, quello sul peso degli anziani: la fandonia della lotta tra generazioni serve solo a chi vuole fomentare la guerra tra poveri per continuare a fare i propri interessi sulle spalle di quelli di cu sopra Non ci sono confini geografici o generazionali, ma solo tra chi depreda e chi è depredato.
ISPRA dixit: https://www.youtube.com/watch?v=RSqPJMWTcM0
Un problema centrale è quello della tecnologia, cui si riferisce anche Herlich nella sua formula. La domanda di fondo è questa: Per salvare il pianeta ci vuole più tecnologia o invece bisogna fermarsi, in quanto la tecnologia inquina? Nella formula la T al numeratore fa presumere un impatto aumentato dalla tecnica. Eppure se vogliamo ridurre l’inquinamento antropico dobbiamo cercare nuove tecnologie, e per dirla tutta la lotta per il rientro demografico si fa con prodotti tecnologici: pillola, mezzi sanitari, istruzione ecc.
Quale dunque il ruolo della tecnologia? Se vediamo alla storia della presenza umana sulla terra dobbiamo fare una prima constatazione: non è l’uomo che gestisce la tecnica ma il contrario. Se vediamo i grandi cambiamenti della storia umana e del pianeta infatti bisogna constatare che non furono dovuti a scelte volontarie da parte della politica o delle classi dirigenti. Furono al contrario effetti di scoperte tecnologiche: la rivoluzione dell’agricoltura stanziale con la semina e raccolti programmati, la polis, la polvere pirica, la forza meccanica del vapore, i combustibili fossili e il motore a scoppio, l’elettricità, la penicillina ecc. E’ la tecnologia che determina le svolte. Fermare lo sviluppo tecnologico è una utopia, e il futuro è aperto. E non saremo noi a scegliere…
https://www.resilience.org/stories/2021-11-10/tech-wont-save-us-shrinking-consumption-will-returning-to-a-1970s-economy-could-save-our-future/
“La tecnosfera minaccia la nostra esistenza fisica e spirituale.
Deve essere ridimensionata e riorientata per servire la popolazione.
Ora attivamente estrae informazioni dalle persone mentre altera le nostre funzioni celebrali al servizio della crescita della tecnosfera stessa”
Però questa crescita ha un limite nelle risorse naturali
https://valori.it/indici-wall-street-record/
Warren Buffett, l’oracolo di Omaha, ha dato il suo nome a un’altra metrica che segnala quando il sistema finanziario è ormai ipertrofico: il Buffett indicator, cioè il rapporto tra la capitalizzazione di mercato e il Pil di un determinato Paese. Di solito un valore compreso tra l’81 e il 99% è ritenuto normale; se supera il 117%, significa che il mercato è «sopravvalutato in modo significativo». Anche in queste condizioni eccezionali in cui i tassi sono prossimi allo zero, in teoria il Buffett indicator dovrebbe aggirarsi attorno al 120%. Ecco, il 4 novembre 2021 al numeratore (finanza) c’erano 51.100 miliardi di dollari, al denominatore (economia reale) 23.700 miliardi. Il risultato è 216%. Ben 96 punti percentuali in più.
Se davvero un “Buffett indicator” fosse indicativo, oltre la soglia del 100%… non avrebbe più senso (se pure un po’ l’aveva conservato prima) quantificare nella stessa valuta la finanza e l’economia “reale”. Oltretutto, non è secondario dire che l’economia reale è la prima a fare i conti (di solito molto male, anche se usa una valuta meno astratta) con le risorse.
In tutto ciò, non è certo un Buffett che può assestare un ceffone alla fantaeconomia dei fantadollari nelle fantarisorse. Tutt’al più, può fare un buffetto al giamburrasca che sogna la pappa col pomodoro.
“La storia del passato ormai ce l′ha insegnato
Che un popolo affamato fa la rivoluzion
Ragion per cui affamati abbiamo combattuto
Perciò, buon appetito, facciamo colazion”
Così dicono ad esempio i cinesi, ormai lasciata alle spalle degli africani la loro Lunga Marcia…
Se non fossimo su un blog molto
serio che un po’ mi mette soggezione, direi che non ci ho capito una mazza.
Quindi per Gianburrasca un buffetto e niente pappa al pomodoro. E i cinesi sulle spalle degli africani. Lunga marcia? Lunga marcia. Già Mao….
Beh, in fondo siamo qui per imparare.
Ma dicevi a me?
Devi sentirti in soggezione solo quando commenta Burlini, davvero.
Ciao
Franco/esco non mette soggezione, perché, gira e rigira, alla fine tira sempre fuori il letame.
Questo Bonan, invece sembra che di economia ne sappia, quindi mi viene un po’ difficile di scherzare. Si rischia di sembrare presuntuosi.
Ma ripeto, siamo qui per imparare.
Finora e tuttora la tecnologia ha praticamente sempre avuto l’effetto di incrementare la popolazione e di conseguenza i suoi impatti. Questo perché lo scopo del progresso tecnologico è “fare di più con meno”. Sarebbe possibile usare la tecnologia per “fare di meno con molto meno”? Forse, ma non mi risulta che nessuno ci stia provando sul serio.
La tecnologia da sola non basterà, come evidenzia lo studio di cui parla quest’articolo:
https://www.resilience.org/stories/2021-08-16/revisiting-the-limits-to-growth/
(nell’articolo c’è il link al pdf del paper)
Ottimo articolo su un problema epocale generalmente negletto, censurato, a volte perfino ridicolizzato per motivi ideologico-politico-religiosi e psico-sociali…
Il problema di qualunque politica demografica però è sempre quello: che lavora a ridurre i bambini e non noialtri anziani, creando una situazione socialmente insostenibile. Come sta succedendo adesso in Cina, costretta oggi a rovesciare radicalmente la sua politica di riduzione delle nascite, perché non saprebbe dove importare abbastanza badanti.
Insomma, non è più una questione di “baionette”, che oggi semplicemente non servono, ma di “badanti”.
Penso che questa sia una falsità totale propagata dai baby boomers che non vogliono rinunciare ai propri privilegi.
In Italia, ad esempio, ci sono moltissime persone che potrebbero benissimo lavorare ma che, per una serie di motivi (università protratta all’infinito, eredità o ricchezze di famiglia/matrimonio, pre-pensionamenti, combinazione di redditi di cittadinanza, disoccupazione, casse integrazioni) non lo fanno. Non serve far nascere lavoratori in più in un paese in cui meno di metà della popolazione attuale lavora. Tra l’altro alcuni dei pochi che lavorano fanno lavori inutili o dannosi, e potrebbero essere ridiretti altrove.
La sanità moderna permette di raggiungere i settant’anni molto più sani e in forma di qualche generazione fa. Chi ne beneficia dovrebbe ripagare lavorando almeno qualche ora alla settimana fino a quando proprio non è più in grado di farlo. Ora invece la pensione e passare decenni a viaggiare per il mondo mentre gli altri lavorano per te sembra agli occidentali un diritto inalienabile.
Senza contare che se facciamo nascere i bambini oggi per “pagare le pensioni”, questi stessi bambini richiederanno cure senza produrre nulla per almeno una ventina d’anni, e a quel punto i pensionati di oggi saranno in buona parte già morti.
E poi, infine, che ci garantisce che questi bambini *vorranno* prendersi cura degli anziani? Non conoscete vecchi che hanno numerosi figli sani, facoltosi e con cui sono in buoni rapporti, ma che stanno comunque parcheggiati in una casa di riposo?
https://it.sputniknews.com/20211002/la-fine-del-mondo-e-vicina-sempre-piu-anziani-e-sempre-piu-risorse-necessarie–13148362.html
Si, purtroppo gli anziani crescono non solo nel nostro paese. Poi si ammalano, e qualcuno li deve accudire.
Tempo fa, qui, si parlava della legge sul fine vita.