Se siete tra i tanti convinti che il grafico sottostante confuti la teoria del picco del petrolio, sconfessi le previsioni di Hubbert, rappresenti la vittoria della tecnologia sulle cassandre catastrofiste, ecc. allora proseguite la lettura perché scoprirete una realtà molto diversa dagli stereotipi massmediatici. Per comprendere pienamente la questione del picco del petrolio occorre un salto indietro nel tempo, precisamente nel lontano 1956, quando il concetto fu elaborato per la prima volta.

 

picco
  • Facebook
  • Twitter
  • Google+
  • Buffer
  • Evernote
  • Gmail
  • Delicious
  • LinkedIn
  • Blogger
  • Tumblr

 

Picco del petrolio 1.0 (anni 50-60) – Hubbert e le aspettative della sua epoca

Nel 1956 Marion King Hubbert, geofisico della Shell, redige uno studio per una pubblicazione dell’American Petroleum Institute intitolato Nuclear energy and fossil fuel, in cui cerca di prevedere a livello nazionale e internazionale l’andamento produttivo di petrolio, gas, carbone ed energia nucleare.

Riguardo quest’ultima, le aspettative sono elevatissime ed Hubbert, in linea con l’opinione prevalente nel mondo scientifico, dà per scontato che l’atomo effettuerà lo stesso ‘salto evolutivo’ compiuto dal petrolio sul carbone, fino a diventare la fonte dominante nel giro di qualche decennio, grazie anche a importanti sviluppi tecnologici come i reattori autofertilizzanti. Le previsioni, pertanto, sono intrise di ottimismo:

 

  • Facebook
  • Twitter
  • Google+
  • Buffer
  • Evernote
  • Gmail
  • Delicious
  • LinkedIn
  • Blogger
  • Tumblr
Attualmente, la potenza nucleare installata negli USA ammonta a circa 95 GW e quella mondiale a 378 GW

 

Alle certezze offerte dal giovane virgulto atomico si affiancano quelle del ‘vecchio’ carbone, il cui picco produttivo è stimato addirittura per la metà del XXII secolo. Con queste premesse, lo studio consiglia di sfruttare giacimenti di petrolio (e gas) solo nella forma ‘convenzionale‘, quella cioé tecnicamente più facile da estrarre e quindi più economica. Pertanto, malgrado si stimi il potenziale nazionale degli scisti bituminosi in 1.000 miliardi di barili, negli scenari viene considerato solo il petrolio estraibile tramite le tecniche già in uso. Del resto, con il trionfo imminente dell’Atomo e l’apporto ultrasecolare del carbone (sono lontane le preoccupazioni per il global warming), che senso avrebbe invischiarsi con gli onerosi petroli non convenzionali?

Picco del petrolio 2.0 (anni 70-80) – Gli USA sbattono contro il picco (peggio del previsto)

In accordo con le tempistiche di Hubbert, il picco petrolifero statunitense sopraggiunge nel 1970. Ora si tratta di gestire la delicata fase compresa tra il declino produttivo e l’agognato boom del nucleare, che richiede ovviamente una momentanea maggiore dipendenza dalle importazioni di greggio. Rispetto agli anni Cinquanta, la situazione geopolitica mondiale è però profondamente mutata: gli USA sono prossimi alla disfatta in Vietnam e la loro egemonia comincia a scricchiolare, mentre è definitivamente tramontata l’era del colonialismo europeo.

Le nascenti petrocrazie arabe e mediorientali, consapevoli di avere il coltello dalla parte del manico, alzano pericolosamente la testa. Nel 1973 i paesi afferenti all’OPEC, cogliendo al balzo l’occasione della guerra tra Israele ed Egitto, chiudono i rubinetti del petrolio alle potenze occidentali causando un rialzo esponenziale dei prezzi che culminerà nel 1979-1980, quando la rivoluzione khomeinista in Iran metterà fine al regime filo-statunitense dello Scià.

 

  • Facebook
  • Twitter
  • Google+
  • Buffer
  • Evernote
  • Gmail
  • Delicious
  • LinkedIn
  • Blogger
  • Tumblr

 

Si è oramai chiusa la stagione del petrolio a basso che aveva alimentato i ‘trenta gloriosi’ del boom economico, coniugando le esigenze di produttori e consumatori. La reazione statunitense e occidentale al nuovo corso si traduce in tre azioni significative:

– usare massicciamente carbone e gas per sostituire il petrolio nell’unico campo in cui possono rimpiazzarlo egregiamente, ossia la generazione di elettricità;

–  intensificare lo sfruttamento di riserve petrolifere interne, come i giacimenti dell’Alaska e del Mare del nord. Così facendo, tra gli anni Ottanta e Novanta gli USA riescono a rallentare il crollo produttivo del greggio;

– interessarsi all’efficienza energetica, tema totalmente ignorato durante la sbornia del greggio a buon mercato e quindi con margini di sviluppo elevati, almeno nell’immediato.

Picco del petrolio 3.0 (dagli anni Novanta a oggi) – Aspettative deluse e presunti miracoli

A inizio anni Novanta, dello studio del 1956 sembrano rimanere validi solo gli aspetti negativi, cioè quelli legati al declino della produzione petrolifera: nel 1988 i giacimenti dell’Alaska (circa il 25% della capacità statunitense) hanno raggiunto il picco e nel 1994 gli USA diventano ufficialmente un importatore netto di ‘oro nero’. Per giunta, la presa di coscienza sui danni sanitari e ambientali relativi a estrazione, produzione e consumo di carbone si traduce in leggi restrittive come il Clean Air Act Amendment (1990), che ne rendono problematico l’impiego malgrado la relativa abbondanza.

Tuttavia, la delusione più bruciante è legata all’energia nucleare, che ha tradito la promessa del nuovo ‘fuoco di Prometeo’ e anzi rimarrà una fonte di nicchia, per una serie di concause. Le più rilevanti: gli incidenti atomici di Three Miles Island e Chernobyl, i rischi e i costi associati alle esternalità della filiera atomica (vedi gestione dei rifiuti radioattivi), le alte spese di gestione, il sostanziale fallimento dei reattori autofertilizzanti, i pericoli di proliferazione militare.

Già prima della tragedia di Chernobyl, i programmi atomici hanno subito un sostanziale ridimensionamento, per cui la  potenza nucleare installata statunitense (e mondiale) raggiunge un plateau prima dell’inizio del nuovo millennio, attestandosi a meno del 30% della stima del 1956; l’incidente di Fukushima (2011) tarperà le ali alle già deboli speranze di ‘rinascimento nucleare’ legate ai problematici reattori di III generazione.

 

  • Facebook
  • Twitter
  • Google+
  • Buffer
  • Evernote
  • Gmail
  • Delicious
  • LinkedIn
  • Blogger
  • Tumblr

Potenza installata nucleare negli USA

 

Gli USA sono usciti vincitori dalla guerra fredda, ma la rapida ascesa economica cinese e gli attentati dell’undici settembre sono prodromi di un pericoloso declino. Per concretizzare gli obiettivi del Progetto per un nuovo secolo americano, ambizioso programma politico dell’élite neoconservatrice insediatasi a Washington con la presidenza di George W. Bush, è necessario ristabilire il controllo sui principali flussi energetici internazionali: da qui gli interventi militari in Iraq e Afghanistan, unitamente ai tentativi di destabilizzazione politica in Iran, Venezuela e altre nazioni. Tuttavia, è  fondamentale rivitalizzare la produzione energetica domestica per ridurre la dipendenza dall’estero.

All’inizio si punta sul bioetanolo da mais, anche allo scopo di sostenere il comparto agricolo; si tenta inoltre di allentare la legislazione ambientale per agevolare il carbone. Ma quando i prezzi del greggio si impennano bruscamente tra il 2005 e il 2010, in conseguenza dell’approssimarsi del picco globale del petrolio convenzionale e delle scorribande yankee in giro per il mondo, allora monta l’interesse per gli scisti bituminosi tanto disdegnati negli anni Cinquanta. Si sono infatti creati i presupposti per il ‘miracolo dello shale oil (e gas)’, essendo i costosi petroli non convenzionali finalmente competitivi sul mercato grazie alle quotazioni al rialzo.

La tecnica del ‘fracking‘ (fratturazione idraulica) per l’estrazione di petrolio e gas dagli scisti viene presentata quale novità rivoluzionaria che permetterà agli USA di riconquistare i vertici della produzione mondiale di idrocarburi. Gli scettici ribattono che trattasi di un ritrovato per nulla all’avanguardia in quanto già sperimentato negli anni Quaranta e liquidano il business del non convenzionale a fuoco fatuo destinato a spegnersi ai primi ribassi dei prezzi. Senza contare le esternalità ambientali di un metodo estrattivo molto più impattante dei tradizionali, sospettato addirittura di provocare sciami sismici, ragion per cui viene bandito in stato di New York, stato di Washington, Vermont e Maryland. 

Nel 2007-08 gli alti prezzi fanno da volano allo shale poi, grazie a un mix di spregiudicatezza finanziaria, sussidi federali e inventiva tecnologica per contenere le spese, questo settore tra fallimenti e fusioni riesce a barcamenarsi anche quando, a partire dal 2011, l’industria energetica entra in una spirale deflattiva a causa del perdurare della crisi economica, situazione poi esacerbata dalla pandemia. Nonostante le difficoltà, la produzione petrolifera raggiunge livelli record permettendo agli USA  non solo di ridiventare un esportatore netto, ma persino di riconquistare la leadership internazionale scalzando l’Arabia Saudita.

 

  • Facebook
  • Twitter
  • Google+
  • Buffer
  • Evernote
  • Gmail
  • Delicious
  • LinkedIn
  • Blogger
  • Tumblr

 

L’epopea petrolifera statunitense del XXI secolo viene celebrata in lungo e in largo dai mass media, anche fuori dagli USA (tanti i peana della stampa italiana). Pochi hanno cercato di indagare la realtà al di là delle sirene propagandistiche: uno di questi è Art Berman, analista da sempre molto critico verso il ‘miracolo dello shale’.

 Le sue analisi evidenziano implacabilmente come l’attuale exploit produttivo sia solo il parente povero di quello degli anni Settanta:

 

  • Facebook
  • Twitter
  • Google+
  • Buffer
  • Evernote
  • Gmail
  • Delicious
  • LinkedIn
  • Blogger
  • Tumblr

 

Innanzitutto, meno del 60% della ‘produzione petrolifera’ consiste effettivamente in petrolio. Una quota rilevante è costituita dal gas naturale liquido, di cui il 55% consiste in etilene, utilizzabile solo per produrre plastiche e detergenti; a questa si aggiunge un milione di barili annui di etanolo ricavato dalle coltivazioni di mais. Per quanto riguarda il petrolio propriamente detto, la parte del leone è ricoperta dal cosiddetto ‘olio di scisto’ (‘tight oil’), che presenta una densità energetica inferiore al petrolio convenzionale (circa del 7%) e non è adatto per la produzione di gasolio.

Ma la notizia peggiore è che i giacimenti delle principali regioni produttrici stanno già palesando chiari segni di declino:

 

  • Facebook
  • Twitter
  • Google+
  • Buffer
  • Evernote
  • Gmail
  • Delicious
  • LinkedIn
  • Blogger
  • Tumblr

 

Insomma, l’unico ‘miracolo’ in atto sembra essere la capacità della macchina propagandistica di esaltare un fenomeno che, in sé, ha decisamente poco di straordinario.

Conclusioni

Contrariamente ai luoghi comuni, il fatto che la produzione petrolifera abbia deviato dalle previsioni di Hubbert non rappresenta una ‘vittoria del progressismo sul catastrofismo’, bensì una sua clamorosa sconfitta. Testimonia infatti di una società industriale incapace di superare virtuosamente le fossili, vincolandosi alle risorse più costose e impattanti, con tutto ciò che ne consegue in termini economici e di distruzione della biosfera.

Insomma, ‘progressisti-ottimisti’ e ‘picchisti-catastrofisti’, tanto divisi nelle loro dispute, possono trovare un importante punto d’intesa: il mancato avvento delle previsioni di Hubbert rappresenta, da qualunque ottica lo si voglia esaminare, una pessima notizia. 

 

E’ uscito ‘La caduta del Leviatano. Collasso del capitalismo e destino dell’umanità‘, libro scritto da Jacopo Simonetta e Igor Giussani.

  • Facebook
  • Twitter
  • Google+
  • Buffer
  • Evernote
  • Gmail
  • Delicious
  • LinkedIn
  • Blogger
  • Tumblr

 

 

Share This