Sesto articolo di una serie di dieci. I precedenti sono reperibili qui: primo, secondo, terzo, quarto, quinto, sesto.

Facciamo ora un passo indietro e diamo un’occhiata ad alcuni autori particolarmente importanti per la comprensione del capitalismo.   Ovviamente, non si farò qui un riassunto nemmeno minimale del loro lavoro, ma ricorderò solo alcuni punti particolarmente pertinenti riguardo al tema di questa serie di post: il capitalismo può “morire”?.

Jacopo Simonetta
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David Ricardo (1772 – 1823).   Grande amico di Malthus, ne condivideva le preoccupazioni e fu il primo a studiare con un approccio scientifico la struttura e la dinamica del capitalismo.   Come tutti i pionieri, si era sbagliato sui molti punti, ma come tutti i grandi ingegni, aveva centrato perfettamente gli elementi strutturanti del sistema allora nascente.
Il punto focale della sua analisi è il cosiddetto “Principio di Rarità”: significa che il valore relativo di qualcosa dipende dalla sua disponibilità.  Per quanto ci riguarda qui, Ricardo osserva che mentre la popolazione ed i consumi aumentano, la superficie agricola è sostanzialmente fissa.  Dal momento che la domanda di cibo pro-capite è anelastica, ne deduce che, sui tempi lunghi, il valore ed il reddito delle proprietà agricole non potrà che crescere a dismisura, tendenzialmente fino a provocare il collasso della società.  Seriamente preoccupato da una tale prospettiva, Ricardo caldeggiava sostanzialmente due provvedimenti:
Primo, una tassazione progressiva sulle proprietà fondiarie, tale da contrastarne efficacemente l’aumento di valore e reddito.
Secondo: l’autocontrollo della natalità da parte dei lavoratori, in modo da accrescere il valore relativo del lavoro sul capitale e, dunque, il potere contrattuale dei poveri.
La storia gli ha dato torto: da allora, il valore ed il reddito delle terre agricole sono precipitati  praticamente a zero, mentre l’ondata di sovrappopolazione europea ha trovato ampio sfogo a danno degli altri popoli della Terra e, soprattutto, della Biosfera.   Tuttavia i punti fondamentali del suo ragionamento rimangono validi.  Ad oggi, osserviamo infatti sia un aumento costante del valore e della concentrazione del capitale (anche se sotto forme completamente diversa da quelle di due secoli fa), sia  la tendenza a ridurre i salari al minimo possibile, sfruttando a questo scopo sia  la sovrappopolazione, sia la mobilità di persone e capitali.
Due tendenze che ora come allora minacciano la salute del sistema capitalista.

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Karl Marx (1818-1883).  Esattamente 50 anni dopo Ricardo, Marx tentò un’analisi molto più approfondita di un capitalismo in cui la terra aveva già perso gran parte della sua importanza, mentre trionfavano la grande industria e la macchina a vapore.  Anche il filosofo tedesco si sbagliò su molti aspetti e su buona parte delle sue previsioni, ma centrò perfettamente alcuni aspetti chiave.   Per esempio, il carattere profondamente rivoluzionario e distruttivo del capitalismo.   Un aspetto che, secondo lui, era destinato a sbarazzare il mondo di ogni residuo retaggio delle strutture economiche e sociali del passato, aprendo cosi’ la strada alla rivoluzione ed alla dittatura del proletariato.  La seconda parte della previsione si è dimostrata errata, ma la prima esatta.
Un altro punto che Marx pone giustamente in evidenza è che il capitalismo è mosso da una dinamica interna tendente all’accumulazione ed alla concentrazione “infinita” della ricchezza.  Una dinamica che, secondo lui, aveva solo due possibili sviluppi: una progressiva riduzione, tendente all’azzeramento, del rendimento del capitale; oppure la rivolta violenta delle masse.  Per meccanismi diversi, entrambi questi sviluppi avrebbero distrutto definitivamente il capitalismo che, secondo Marx, era comunque condannato.
Ad oggi, i numerosi tentativi di rovesciare il capitalismo con la violenza sono falliti, oppure  hanno partorito sistemi ancora peggiori.  Invece nei post precedenti abbiamo visto che si sta verificando una progressiva riduzione del rendimento del capitale, il che ne accelera la concentrazione con effetti devastanti per la società.  Tuttavia niente assicura che questo processo proseguirà fino alle sue estreme conseguenze, mentre oggi il futuro del capitale appare minacciato da fattori che cento anni fa era difficile anche solo immaginare come il deterioramento delle risorse, la distruzione della biosfera e l’inquinamento globale.

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Simon Kuznets (1901-1985).  Fu uno studioso molto serio e cosciente dei limiti delle sue fonti, ma anche politicamente schierato, cosa che non mancò di avere conseguenze.  Studiò i cicli economici e, in particolare, dall’analisi dei dati fiscali degli USA fra il 1913 ed il 1948 ricavò l’idea di quella che fu poi chiamata la “Curva di Kuznets”.   In estrema sintesi, la prima fase dell’industrializzazione provocherebbe  un aumento delle ineguaglianze, mentre l’ulteriore crescita delle economie “in fase avanzata” porterebbe ad un progressivo livellamento dei redditi.  In pratica, la crescita economica ed il libero mercato sarebbero in grado di risolvere le tensioni che esse stesse creano.   Basta aspettare, investire e lavorare perché il capitalismo produca distribuisca benessere per tutti, sia pure non per tutti nella stessa misura.
In realtà, abbiamo visto che, in USA come in Europa, la sostanziale riduzione delle ineguaglianze avvenuta fra il 1914 ed il 1980 fu dovuta alla massiccia distruzione di capitale provocata dalle guerre e dalle crisi economiche, oltre che alle politiche sociali adottate nel secondo dopoguerra per contrastare l’ascesa dei partiti comunisti.  In effetti, i risultati migliori furono raggiunti dai governi social-democratici dell’ Europa occidentale ed il fatto che quel tipo di approccio non funzioni più rappresenta, penso, uno dei maggiori pericoli che incombono sul futuro del capitalismo.  Ci torneremo nell’ultimo post.
In realtà, nelle sue pubblicazioni scientifiche Kuznets fu molto prudente nel proporre la sua curva, ma nelle sue pubblicazioni divulgative fu assai più deciso e quella che era nata come un’ipotesi di ricerca divenne un assioma del credo economicista contemporaneo.  Un destino comune anche ad altre teorie particolarmente comode sotto il profilo politico (per esempio la “transizione demografica”).
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Ancora peggio, l’idea di Kuznets risultò cosi’ affascinante che fu riciclata in quella che viene chiamata la “Curva di Kuznets ambientale”.  Anche qui, sulla base di dati molto parziali, si ipotizza che nelle economie industriali “mature” vi sia una tendenza alla riduzione dei consumi e degli impatti ambientali, grazie al progresso tecnologico ed alla maggiore efficienza dei processi produttivi.
In realtà, il famigerato disaccoppiamento fra PIL e impatti dipende sostanzialmente da due fattori.  Il primo è la localizzazione delle manifatture in paesi con le normative sociali ed ambientali meno efficaci possibile.  Il secondo è la struttura stessa del PIL che è semplicemente un indicatore del flusso di denaro e nient’altro, tanto che mescola investimenti e consumi, disastri ambientali e costruzioni, finanza pirata e qualunque altra cosa faccia circolare del denaro a qualunque titolo.
Comunque, ciò che qui ci preme, è che secondo questo importantissimo economista, il capitalismo non contiene retroazioni in grado di distruggerlo, come avevano invece ipotizzato tanto Ricardo che Marx, sia pure con approcci diversissimi.

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Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994).  L’economista romeno non si occupò di sperequazioni, bensì delle leggi fisiche cui i processi economici sono soggetti.  Per lui, sul futuro dell’economia industriale incombeva infatti un pericolo ben maggiore di qualunque rivolta: l’aumento dell’entropia.
In estrema sintesi, Georgescu-Roegen sostenne che i processi economici aumentano necessariamente l’entropia del pianeta.  Finché sono di portata modesta, eventuali danni sono limitati; ma se divengono preponderanti rispetto ai processi fotosintetici (come è accaduto) l’economia demolisce gradualmente la biosfera, cioè il prerequisito per la nostra stessa esistenza.  .
Le sue pubblicazioni principali furono circa contemporanee all’uscita del leggendario “Limits to Growth” ed anch’esse ponevano in evidenza il fatto che la crescita economica infinita non solo è impossibile, ma è anche disastrosa.   Un fatto che da allora molti illustri accademici si sono affannati a negare per l’evidente ragione che, se si ammettono dei limiti alla crescita economica, devono necessariamente essercene anche alla crescita demografica, al debito ed a tutto il resto.   In altre parole, se si ammette che i processi produttivi siano processi fisici (che dovrebbe essere un’ovvietà, ma non lo è), si deve dire addio all’utopia della crescita infinita.  Il che significa dire ai poveri che resteranno tali, oppure ai ricchi che devono smettere di esserlo; o magari entrambe le cose.   Comunque, prospettive politicamente assai indigeste sotto qualunque regime politico.

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Robert Solow (1924-vivente).  E’ l’autore di un modello matematico che, secondo lui, descrive l’evoluzione nel tempo del rapporto fra capitale e lavoro, considerati come gli unici due fattori di produzione e largamente, se non totalmente, intercambiabili.  In base a questo assunto, il modello prevede che, sui tempi lunghi, si arrivi ad un punto di stallo in cui il risparmio copre esattamente il deprezzamento del capitale dovuto a consunzione, obsolescenza ed inflazione.   Dunque un limite, ma solo teorico perché può essere costantemente allontanato dal progresso tecnologico che è in grado di aumentare all’infinito la produttività sia del lavoro che del capitale.   Lo stesso Solow era infatti solito affermare che nemmeno l’esaurimento delle risorse può fermare a lungo la crescita economica in quanto il progresso tecnologico ed il capitale d’investimento sono in grado di sostituire le risorse via via perdute con altre ancora disponibili.
Dunque un quadro idilliaco in cui, almeno in linea di principio, niente impedisce un incremento indefinito della popolazione e dei consumi.  Niente di strano che sia molto popolare.

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Thomas Piketty (1971 – vivente).  Piketty non si interessa di limiti fisici od ecologici, ma solo di dinamiche storiche, giungendo alla conclusione che la struttura interna del sistema capitalista (v. post 1) sia tale da tendere ad una sempre maggiore sperequazione fra vincitori e vinti nell’agone sociale e che solo decisi interventi politici (o disastri bellici) possono controbilanciare questa tendenza.   Dunque, anche facendo astrazione dai fattori fisici ed ecologici che Piketty ignora, il capitalismo, privo di limiti politicamente imposti, sarebbe intrinsecamente autodistruttivo in quanto condurrebbe fatalmente a livelli di ineguaglianza insopportabili e, quindi, ad una rivolta.  Dunque una conclusione che riecheggia quella marxista, ma meno ottimista in quanto, da buono storico, Piketty (dichiaratamente non comunista) sa benissimo che il frutto di grandi rivolte è spesso più miseria e non più ricchezza per tutti.  Del resto, dai suoi dati appare con assoluta evidenza che durante il XX secolo furono 30 anni di guerre e distruzioni che ridussero drasticamente il grado di ineguaglianza nei paesi capitalisti.
Piketty sposa appieno l’idea che il principale fattore di livellamento dei redditi sia rappresentato dall’istruzione e dalla qualificazione professionale, in grado di far crescere la produttività e dunque la remunerazione del lavoro.   Curiosamente, non menziona neppure il fatto che l’istruzione e la qualificazione aumentano la produttività in quanto permettono di gestire maggiori flussi di energia esogena.  Un punto invece cruciale perché stiamo vivendo una fase critica in cui tecnologia ed istruzione tendono effettivamente ad aumentare la produttività, mentre il degrado delle risorse tende a ridurla.  Finora ha vinto la tecnologia, ma il suo margine di vantaggio si va rapidamente erodendo in quanto soggetta ai fatali ritorni decrescenti, mentre il degrado delle risorse non può che aumentare.  Anzi, proprio il progresso tecnologico tende ad accelerare tale degrado, consentendo un più rapido ed efficiente sfruttamento di ciò che rimane, oltre che aumentare il flusso di rifiuti in quello che resta della Biosfera.

Conclusioni 7

Non credo che qui sia necessario tornare sul fatto che i limiti fisici alla crescita esistono e che la tecnologia può fare molto, ma non cambiare le leggi di Natura.  Una miriade di post hanno sviscerato l’argomento su queste stesse pagine ed altrove.
Ciò che mi preme evidenziare è che ci troviamo di fronte ad una situazione che non ha alcun precedente storico: Il capitalismo è diventato l’unico sistema socio-economico a livello globale.   Anche se vi sono differenze importanti (in particolare il capitalismo cinese è molto diverso da quello occidentale), tutte le economie sono talmente strettamente correlate fra loro che il collasso di una trascinerebbe tutte le altre.  Lo abbiamo ben visto con il susseguirsi di crisi avvenute negli anni scorsi, da quella delle “tigri asiatiche” a quella dei “subprime”.
Contemporaneamente, il fatto che l’umanità nel suo complesso abbia ampiamente superato la capacità di carico del Pianeta (circa del 50% secondo stime molto prudenziali) ci dice che, collettivamente, la crescita economica è diventata un gioco a somma negativa: chi cresce lo fa necessariamente a scapito di altri e, in ultima analisi, a scapito di ciò che resta della biosfera.  O, perlomeno, cosi’ è stato finora e cosi’ avviene attualmente.   Questo pone sotto una fosca luce il futuro non solo del capitalismo, ma dell’umanità e del Pianeta intero.

 

 

 

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