“Viviamo alla fine di quella che potrebbe sembrare un’era di abbondanza, di flussi di cassa infiniti, per i quali ora dobbiamo affrontare le conseguenze in termini di finanze statali, di un’abbondanza di prodotti e tecnologie che sembravano essere perennemente disponibili e che ora non ci sono più”.

L’intervento al consiglio dei ministri di Emanuel Macron del 24 agosto scorso, benché tenuto di fronte alle telecamere, non ha ottenuto la risonanza che avrebbe meritato. Capita di rado, infatti, che gli attuali politici si comportino alla maniera del presidente francese, affermando cioé pubblicamente cose molto poco popolari, per quanto condite all’interno della melassa retorica per edulcorarle e renderle meno indigeste. Quando, oramai nove anni fa, Larry Summers (ex consulente della Banca Mondiale e delle amministrazioni Clinton e Obama, ex Segretario al Tesoro ed ex Direttore del National Economic Council degli Stati Uniti) parlò apertamente di ‘stagnazione secolare’, lo fece però nel contesto più riservato di una conferenza del FMI, destando quindi poco scalpore.

Le repliche alle esternazioni di Macron sono state per lo più sparute e superficiali, forse perché la “fine dell’abbondanza” è qualcosa che neppure si riesce a immaginare. Emblematica la reazione di Leopoldo Gasbarro sul blog di Nicola Porro, che, senza entrare minimamente nel merito delle argomentazioni a sostegno, l’ha definita “una frase indegna per un capo di stato” consigliando di dare le dimissioni o ispirarsi alla condotta tenuta da Winston Churchill durante il secondo conflitto mondiale, volta a instillare nella popolazione inglese speranza e ottimismo riguardo al futuro successivo alla fine della guerra.

L’opposizione di sinistra e la CGT (principale sindacato transalpino) hanno invece eccepito sulla presunta ‘abbondanza’, evidenziando le crescenti sacche di povertà e disagio sociale contrapposte a spudorate manifestazioni di opulenza. Una critica sinceramente abbastanza ingenua e spuntata, dal momento che ‘abbondanza’ fa solo rima con ‘uguaglianza’: per i sedicenti neomarxisti alla Mélenchon, dovrebbe essere lapalissiano che l’unica ‘abbondanza’ possibile nel capitalismo sia quella della famigerata media dei polli di Trilussa.

Semmai, avrebbe più senso obiettare a Macron di non aver osato infrangere fino in fondo i tabù parlando apertamente di ‘fine della crescita economica’, una dichiarazione che in questa forma avrebbe forse ottenuto maggiore risonanza e, c’è da scommetterci, avrebbe scatenato reazioni ancora più stizzite. Infatti, implica conseguenze di grandissima portata, tali da investire prepotentemente tutta la vita sociale. Sintetizzando brevemente:

  • sconvolgimenti sociali: come fa notare Luca Ricolfi ne L’enigma della crescita, senza crescita economica non è più garantita alcuna forma di ascensore sociale e l’unica redistribuzione possibile è quella in stile Robin Hood, togliendo ai ricchi per dare ai più poveri, fomentando quindi tensioni inevitabili se non addirittura sentimenti rivoluzionari.
  • sconvolgimenti economici: senza crescita, non solo si contraggono i consumi ma diventa alquanto problematico implementare strategie ispirate al deficit spending; si riduce pertanto la possibilità di erogare incentivi, sussidi, ecc, mentre la piaga del debito diventa definitivamente insanabile. Faccio notare che, mentre sono state teorizzate misure ad esempio per affrontare la cosiddetta ‘fine del lavoro’ da automazione totale (come il reddito di base incondizionato), poco o nulla è stato concepito in previsione della fine della crescita.
  • sconvolgimenti tecnologici: la società globale si regge su infrastrutture tecnologiche tanto sofisticate quanto delicate (vedi la rete Internet) che, oltre a un consistente dispendio energetico, richiedono costanti e costose opere di aggiornamento e manutenzione, inevitabilmente sempre più difficili da sostenere.
  • sconvolgimenti ecologici: se non altro, si potrebbe auspicare che al declino economico corrisponda un risanamento almeno parziale degli ecosistemi, come avvenuto temporaneamente con i lockdown generalizzati all’inizio della pandemia da coronavirus. E’ assai probabile, però, che la carenza di risorse e materie prime possa indurre a provvedimenti molto pericolosi per l’ambiente, come abbattere indiscriminatamente boschi e foreste bruciando il legname per produrre elettricità e calore, tentando di compensare il minor apporto di fonti fossili. Di sicuro, sarà alquanto complicato realizzare la transizione ecologica (almeno nelle forme auspicate) e sostenere le opere di tutela del territorio necessarie per far fronte agli sconvolgimenti climatici, tentando di prevenire situazioni catastrofiche come quella recentemente accaduta nelle Marche.
  • sconvolgimenti politici: quelli meno considerati anche dai cultori dei limiti dello sviluppo, sui quali invece occorre concentrare l’attenzione. Fino al recente passato, nonostante le contese elettorali condotte in un clima spesso molto bellicoso (talvolta nel vero senso del termine, basti pensare a DC vs PCI durante la guerra fredda), tutte le formazioni politiche erano accomunate dall’intento di promuovere la crescita economica per lo sviluppo nazionale, divergendo solo sulle ricette per centrare l’obiettivo. Venuto a mancare questo terreno comune a tutto l’elettorato, si perde un importante elemento di coesione per la tenuta della democrazia liberale. Senza un nuovo obiettivo trasversalmente condiviso che legittimi la posizione dell’avversario politico, si fa sempre più concreto il rischio di concepirlo come nemico nazionale o traditore, con tutte le tentazioni autoritarie che ciò può ingenerare.

Partendo da questo quadro a tinte fosche, mi sento di proporre delle modeste linee guida forse di qualche utilità nella drammatica fase storica che stiamo vivendo.

Innanzitutto, rifuggiamo da qualsiasi scappatoia mentale. Mi riferisco al negazionismo tipico anche di tanti ‘alternativi’, secondo cui le preoccupazioni esternate dai membri della super élite sarebbero solo menzogne per ordire chissà quale complotto contro i popoli.  Mettere la testa sotto la sabbia oggi è il modo migliore per prenderlo in quel posto domani, per opera di Macron o altri  membri delle alte sfere che il problema se lo sono posti e intendono risolverlo alla loro maniera.

In secondo luogo, gli ambientalisti devono comprendere che, nel nuovo contesto storico, dove si ripresentano spettri angoscianti come la guerra nucleare, non si possono riproporre le strategie di persuasione forse efficaci ancora al tramonto dell’era della crescita. Mentre scrivo, è in corso lo sciopero del clima dei Friday For Future: esorto loro e i movimenti analoghi ad abbandonare le campagne incentrate quasi solo sul “basta emissioni” in favore di una linea inevitabilmente più politica e ‘concreta’. Le attività tenute quest’estate al Climate Social Camp di FFF di Torino e il richiamo alla giustizia sociale sono incoraggianti in tal senso, ma c’è ancora molta strada da fare (soprattutto, bisogna trovare voglia e coraggio di intraprenderla fino in fondo, perché conduce inevitabilmente a uno scontro frontale con i piani alti).

Piccola considerazione a latere: stiamo in guardia dai piagnistei di taluni perché, quando si tratta di ambiente, citando i Sex Pistols no one is innocent (o quasi). Al riguardo, condivido in toto l’opinione espressa su il Cambiamento da Paolo Ermani, dove stigmatizza la tanto decantata piccola-media impresa che oggi si straccia le vesti per il prezzo delle bollette ma che, sollecitata da  decenni per intraprendere misure per l’efficientamento energetico ed emanciparsi dalle fossili, ha sempre fatto spallucce malgrado si trattasse di traguardi ampiamente alla sua portata. Pertanto, va bene la solidarietà, ma attenti a non farci commuovere troppo da certe lacrime di coccodrillo. 

Infine, l’ammonimento che ritengo più importante. Uno dei maggiori successi dell’egemonia culturale capitalista è consistito nel creare una sensazione artificiosa di scarsità, malgrado il capitalismo abbia instaurato il periodo di maggior ricchezza materiale (e sperequazione) della storia umana. Come hanno rimarcato grandi intellettuali quali Herbert Marcuse e Murray Bookchin, viviamo invece in un’era potenzialmente post scarsità, dove, grazie a tecnologie adeguate e a pratiche sociali opportune, pur non potendo ripetere i fasti del recente passato in termini di punti di PIL, si può garantire un benessere generalizzato largamente superiore a quello goduto dalla civiltà umana per gran parte della sua storia.

Ecco quindi la grande sfida: riconoscere l’imbroglio, evitare di inseguire vanamente il fantasma della crescita (in favore di una abbondanza vera, per quanto ‘frugale’, come direbbe Latouche), sforzarsi per arginare e superare la triplice crisi ecologica, politica e sociale.

Immagine in evidenza: città giapponese abbandonata sull’isola di Hashima

 

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