“Viviamo alla fine di quella che potrebbe sembrare un’era di abbondanza, di flussi di cassa infiniti, per i quali ora dobbiamo affrontare le conseguenze in termini di finanze statali, di un’abbondanza di prodotti e tecnologie che sembravano essere perennemente disponibili e che ora non ci sono più”.
L’intervento al consiglio dei ministri di Emanuel Macron del 24 agosto scorso, benché tenuto di fronte alle telecamere, non ha ottenuto la risonanza che avrebbe meritato. Capita di rado, infatti, che gli attuali politici si comportino alla maniera del presidente francese, affermando cioé pubblicamente cose molto poco popolari, per quanto condite all’interno della melassa retorica per edulcorarle e renderle meno indigeste. Quando, oramai nove anni fa, Larry Summers (ex consulente della Banca Mondiale e delle amministrazioni Clinton e Obama, ex Segretario al Tesoro ed ex Direttore del National Economic Council degli Stati Uniti) parlò apertamente di ‘stagnazione secolare’, lo fece però nel contesto più riservato di una conferenza del FMI, destando quindi poco scalpore.
Le repliche alle esternazioni di Macron sono state per lo più sparute e superficiali, forse perché la “fine dell’abbondanza” è qualcosa che neppure si riesce a immaginare. Emblematica la reazione di Leopoldo Gasbarro sul blog di Nicola Porro, che, senza entrare minimamente nel merito delle argomentazioni a sostegno, l’ha definita “una frase indegna per un capo di stato” consigliando di dare le dimissioni o ispirarsi alla condotta tenuta da Winston Churchill durante il secondo conflitto mondiale, volta a instillare nella popolazione inglese speranza e ottimismo riguardo al futuro successivo alla fine della guerra.
L’opposizione di sinistra e la CGT (principale sindacato transalpino) hanno invece eccepito sulla presunta ‘abbondanza’, evidenziando le crescenti sacche di povertà e disagio sociale contrapposte a spudorate manifestazioni di opulenza. Una critica sinceramente abbastanza ingenua e spuntata, dal momento che ‘abbondanza’ fa solo rima con ‘uguaglianza’: per i sedicenti neomarxisti alla Mélenchon, dovrebbe essere lapalissiano che l’unica ‘abbondanza’ possibile nel capitalismo sia quella della famigerata media dei polli di Trilussa.
Semmai, avrebbe più senso obiettare a Macron di non aver osato infrangere fino in fondo i tabù parlando apertamente di ‘fine della crescita economica’, una dichiarazione che in questa forma avrebbe forse ottenuto maggiore risonanza e, c’è da scommetterci, avrebbe scatenato reazioni ancora più stizzite. Infatti, implica conseguenze di grandissima portata, tali da investire prepotentemente tutta la vita sociale. Sintetizzando brevemente:
- sconvolgimenti sociali: come fa notare Luca Ricolfi ne L’enigma della crescita, senza crescita economica non è più garantita alcuna forma di ascensore sociale e l’unica redistribuzione possibile è quella in stile Robin Hood, togliendo ai ricchi per dare ai più poveri, fomentando quindi tensioni inevitabili se non addirittura sentimenti rivoluzionari.
- sconvolgimenti economici: senza crescita, non solo si contraggono i consumi ma diventa alquanto problematico implementare strategie ispirate al deficit spending; si riduce pertanto la possibilità di erogare incentivi, sussidi, ecc, mentre la piaga del debito diventa definitivamente insanabile. Faccio notare che, mentre sono state teorizzate misure ad esempio per affrontare la cosiddetta ‘fine del lavoro’ da automazione totale (come il reddito di base incondizionato), poco o nulla è stato concepito in previsione della fine della crescita.
- sconvolgimenti tecnologici: la società globale si regge su infrastrutture tecnologiche tanto sofisticate quanto delicate (vedi la rete Internet) che, oltre a un consistente dispendio energetico, richiedono costanti e costose opere di aggiornamento e manutenzione, inevitabilmente sempre più difficili da sostenere.
- sconvolgimenti ecologici: se non altro, si potrebbe auspicare che al declino economico corrisponda un risanamento almeno parziale degli ecosistemi, come avvenuto temporaneamente con i lockdown generalizzati all’inizio della pandemia da coronavirus. E’ assai probabile, però, che la carenza di risorse e materie prime possa indurre a provvedimenti molto pericolosi per l’ambiente, come abbattere indiscriminatamente boschi e foreste bruciando il legname per produrre elettricità e calore, tentando di compensare il minor apporto di fonti fossili. Di sicuro, sarà alquanto complicato realizzare la transizione ecologica (almeno nelle forme auspicate) e sostenere le opere di tutela del territorio necessarie per far fronte agli sconvolgimenti climatici, tentando di prevenire situazioni catastrofiche come quella recentemente accaduta nelle Marche.
- sconvolgimenti politici: quelli meno considerati anche dai cultori dei limiti dello sviluppo, sui quali invece occorre concentrare l’attenzione. Fino al recente passato, nonostante le contese elettorali condotte in un clima spesso molto bellicoso (talvolta nel vero senso del termine, basti pensare a DC vs PCI durante la guerra fredda), tutte le formazioni politiche erano accomunate dall’intento di promuovere la crescita economica per lo sviluppo nazionale, divergendo solo sulle ricette per centrare l’obiettivo. Venuto a mancare questo terreno comune a tutto l’elettorato, si perde un importante elemento di coesione per la tenuta della democrazia liberale. Senza un nuovo obiettivo trasversalmente condiviso che legittimi la posizione dell’avversario politico, si fa sempre più concreto il rischio di concepirlo come nemico nazionale o traditore, con tutte le tentazioni autoritarie che ciò può ingenerare.
Partendo da questo quadro a tinte fosche, mi sento di proporre delle modeste linee guida forse di qualche utilità nella drammatica fase storica che stiamo vivendo.
Innanzitutto, rifuggiamo da qualsiasi scappatoia mentale. Mi riferisco al negazionismo tipico anche di tanti ‘alternativi’, secondo cui le preoccupazioni esternate dai membri della super élite sarebbero solo menzogne per ordire chissà quale complotto contro i popoli. Mettere la testa sotto la sabbia oggi è il modo migliore per prenderlo in quel posto domani, per opera di Macron o altri membri delle alte sfere che il problema se lo sono posti e intendono risolverlo alla loro maniera.
In secondo luogo, gli ambientalisti devono comprendere che, nel nuovo contesto storico, dove si ripresentano spettri angoscianti come la guerra nucleare, non si possono riproporre le strategie di persuasione forse efficaci ancora al tramonto dell’era della crescita. Mentre scrivo, è in corso lo sciopero del clima dei Friday For Future: esorto loro e i movimenti analoghi ad abbandonare le campagne incentrate quasi solo sul “basta emissioni” in favore di una linea inevitabilmente più politica e ‘concreta’. Le attività tenute quest’estate al Climate Social Camp di FFF di Torino e il richiamo alla giustizia sociale sono incoraggianti in tal senso, ma c’è ancora molta strada da fare (soprattutto, bisogna trovare voglia e coraggio di intraprenderla fino in fondo, perché conduce inevitabilmente a uno scontro frontale con i piani alti).
Piccola considerazione a latere: stiamo in guardia dai piagnistei di taluni perché, quando si tratta di ambiente, citando i Sex Pistols no one is innocent (o quasi). Al riguardo, condivido in toto l’opinione espressa su il Cambiamento da Paolo Ermani, dove stigmatizza la tanto decantata piccola-media impresa che oggi si straccia le vesti per il prezzo delle bollette ma che, sollecitata da decenni per intraprendere misure per l’efficientamento energetico ed emanciparsi dalle fossili, ha sempre fatto spallucce malgrado si trattasse di traguardi ampiamente alla sua portata. Pertanto, va bene la solidarietà, ma attenti a non farci commuovere troppo da certe lacrime di coccodrillo.
Infine, l’ammonimento che ritengo più importante. Uno dei maggiori successi dell’egemonia culturale capitalista è consistito nel creare una sensazione artificiosa di scarsità, malgrado il capitalismo abbia instaurato il periodo di maggior ricchezza materiale (e sperequazione) della storia umana. Come hanno rimarcato grandi intellettuali quali Herbert Marcuse e Murray Bookchin, viviamo invece in un’era potenzialmente post scarsità, dove, grazie a tecnologie adeguate e a pratiche sociali opportune, pur non potendo ripetere i fasti del recente passato in termini di punti di PIL, si può garantire un benessere generalizzato largamente superiore a quello goduto dalla civiltà umana per gran parte della sua storia.
Ecco quindi la grande sfida: riconoscere l’imbroglio, evitare di inseguire vanamente il fantasma della crescita (in favore di una abbondanza vera, per quanto ‘frugale’, come direbbe Latouche), sforzarsi per arginare e superare la triplice crisi ecologica, politica e sociale.
Immagine in evidenza: città giapponese abbandonata sull’isola di Hashima
Purtroppo il sistema capitalistico non conosce vie di mezzo: o cresce o collassa (e sotto le macerie ci finiamo noi). Non vedo come sia possibile una gestione equilibrata della fine di quest’era, specie considerando l’ignoranza della situazione da parte della gente comune e l’inerzia di politica ed economia. Più facile prevedere tumulti e disordine sociale, con esiti molto spiacevoli.
Ma davvero si crede che l’elite non sia già sul pezzo, in modo da affrontare gli sconvolgimenti economici restando sempre dalla stessa sponda del fiume in piena? Ovvero, che se noi non ne vediamo le contromisure… sia solo perché loro non san più che pisci pigliare? Non ci bastano i moltissimi segnali di una rivoluzione dall’alto dell’architettura monetaria e finanziaria mondiale, a partire dalla virtualizzazione sempre più spinta della moneta? Io credo che l’elite si giochi tutto lì. Sta a noi cogliere che la questione della sostenibilità è più profonda e urgente, senza cadere nella trappola di chi dice “non ci sono soldi” (in cui cadrebbe anche un Robin Hood). Macron però pensa solo alla futura difficoltà a procurarsi gas e uranio, mica vuole cooptare Latouche…
Come ho parlato chiaramente riguardo al prenderlo in quel posto, non penso minimamente che Macron voglia cooptare Latouche, ma che ci sia altro in testa.
https://www.foodnavigator.com/Article/2022/04/11/microharvest-meet-the-start-up-with-the-fastest-protein-production-on-the-planet#
Diciamo che il capitale sta trovando nuove mucche da mungere. In questo caso si tratta di batteri. Comunque è difficile pensare che si possa tornare al passato. Le cose vanno avanti, nel bene e nel male, spinte da ragioni più economiche che ambientali.
Perché prendersela in particolare con la famosa piccola-media impresa? Sono le aziende energivore (definite proprio così) ad avere sconti in bolletta, e quelle più grandi ancora a non pagare, spesso, quasi nulla di tasse grazie a complicati meccanismi finanziari.
L’obiettivo principale da avere è che la decrescita non sia ingiusta. Bisogna cominciare dai più grandi, non dai medi o dai piccoli.
Ti rimando all’articolo di Ernani che ho linkato. La grande impresa è totalmente immune a qualsiasi forma di pressione, quella piccola e media invece è da almeno 20 anni che viene sollecitata da organizzazioni come PAEA e altre per affrontare un problema che, prima o poi, si sapeva che sarebbe saltato fuori in tutta la sua urgenza. Agendo per tempo, in un periodo di vacche decisamente meno grasse, sarebbe stato alquanto più semplice intervenire.
La grande impresa riceve sussidi pubblici a non finire e trova spesso il modo di non pagare le tasse. Queste dovrebbero essere le pressioni, e funzionerebbero.
Articolo lucidamente e crudamente realista ma non catastrofista, al quale aggiungerei un richiamo al “convitato di pietra” di ogni dibattito riguardante le problematiche ambientali (e sociali): il problema della crescita demografica (locale, nazionale e globale), che in territori più o meno estesi ma cmq dalle risorse disponibili limitate NON può essere illimitata.
In breve: la fine della crescita economica di cui si parla nel Post deve (dovrebbe) segnare anche la fine dell’inesausta propensione delle principali ideologie economico-politico-religiose alla crescita demografica tout court!
https://oilprice.com/Energy/Crude-Oil/An-Oil-Supply-Shock-May-Be-Imminent.html
Shock petrolifero imminente?
“L’evidenza è proprio sotto tutti i nostri nasi: l’Europa. Nonostante tutti i suoi sforzi per convertirsi all’emettitore più basso del mondo, cosa che ha fatto per un po’, l’Europa ha prosperato non con l’energia solare e l’eolico a buon mercato, ma con gas a buon mercato e petrolio in abbondanza. Ora che questi sono spariti, le economie europee stanno cominciando a disgregarsi. Evitare uno shock dell’offerta di petrolio sarebbe difficile nelle circostanze attuali”
Le cose si mettono male. Accade tutto troppo in fretta.
Siamo noi ad essere in ritardo. Bisognava cambiare rotta decenni fa, ma figurati…
La Germania ha investito un sacco su solare ed eolico, eppure è messa così male che si sta aggrappando a carbone e nucleare…
L’articolo è interessante e pone problemi cruciali, ma non mi è chiaro il messaggio di fondo. Si inizia, mi pare, sostenendo che la crescita è necessaria per affrontare i problemi menzionati, per concludere che bisogna “riconoscere l’imbroglio, evitare di inseguire vanamente il fantasma della crescita”.
In ogni caso, affermare che la crescita è necessaria non dimostra che essa sia possibile nel futuro. Il punto, come da decenni economisti come Herman Daly e studiosi come Dennis Meadows vanno ripetendo è: “E’ possibile la crescita infinita in un mondo finito?” Gli economisti standard rispondono sì, soprattutto per la fede nell’onnipotenza della tecnologia, mentre altri (pochi) rispondono “NO”, perché la crescita implica consumo di risorse non riproducibili e di risorse riproducibili oltre la soglia della loro riproducibilità (si pensi agli alberi in Amazzonia). Risorse che, appunto, sono destinate ad esaurirsi (aria ed acqua pulite incluse), in barba alle mirabolanti tecnologie del futuro. Dunque dovremmo seriamente porci il problema di come gestire il mondo futuro senza crescita (che poi tanto futuro non è, visto che nonostante tutti gli sforzi in realtà ormai le economie crescono ben poco).
Il biologo ed antropologo Jared Diamond ha scritto: «I problemi ambientali del globo si risolveranno di certo, in un modo o nell’altro, nel corso della vita degli individui che sono oggi bambini o giovani adulti. Non sappiamo ancora se la soluzione avverrà piacevolmente, in un modo che abbiamo scelto noi, oppure in modi spiacevoli e sgraditi, quali la guerra, il genocidio, la morte per fame, le epidemie, il crollo della civiltà» (da “Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere”, Einaudi, 2007, p. 504).
Infine, facendo questi discorsi sulla “crescita” non dimentichiamo di cosa parliamo in effetti: parliamo di un aumento duraturo del flusso di PIL in termini monetari : flusso che aumenta anche quando ci sono eventi come quello, menzionato, nelle Marche: per le paghe degli addetti alla rimozione delle macerie e dei cadaveri, per i premi delle assicurazioni, ecc.
Ci va bene anche questo tipo di crescita?
Che oramai anche nelle alte sfere si parla apertamente di fine della crescita, quindi certi confini concettuali (oltre che fisici) sono stati ampiamente sdoganati. Ma che la decrescita fatta dai sostenitori della crescita è foriera di guai.
A scanso di equivoci (forse è un nuovo lettore) per noi di Apocalottimismo i Limiti dello sviluppo, Daly e anche Diamond sono nostri punti cardinali per capire la realtà. La crescita è ‘necessaria’ per il capitalismo, nel senso che può mostrare un volto vagamente umano solo se c’è una crescita continua e sostenuta. Questo non vuol dire che escludiamo l’idea di una società non solo sostenibile ma anche preferibile senza crescita, anzi.
Ovviamente no, per citare Daly quella che è rimasta oramai è in gran parte crescita anti-economica.
E’ molto interessante come analisi, ma se non erro Latouche (o forse un altro decrescista) in un luogo delle sue opere critica larvatamente l’idea di post-scarsità bookchiniana ritenendola una forma di utopismo filo-tecnica che non tiene conto della progressiva rarefazione delle risorse. Il settore dei servizi è impattante come qualunque altro, la tecnologia non è a costo zero e il sogno di una società dematerializzata è lungi dal realizzarsi (vedesi il bello e definitivo report Decoupling debunked), forse sarebbe bene di contro a quanti come Kallis parlano di cultura del limite (ritenendo che non esistano limiti intrinseci perché i limiti costruttivisticamente sono sempre tali in relazioni a noi che li definiamo nel suo Why Malthus was wrong e why Environmentalist should care) familiarizzare con il fatto concreto che le risorse terrestri sono realmente finite (anche beccandosi l’accusa di positivismo), che i processi energetici come spiegava bene Georgescu-Roegen portano alla dissipazione di energia in maniera irreversibile aumentando l’entropia in un sistema chiuso quale il pianeta, da cui l’obiettivo bioeconomico di riportare la popolazione ad un livello compatibile con l’agricoltura organica e la critica dello stato stazionario di Daily che non sarebbe mai permanentemente tale. La scarsità capitalista è fittizzia, d’accordo, ma esiste ontologicamente una scarsità data dal fatto che la biosfera ha un quantum di risorse che se soggetto a pressione per il suo sovraconsumo… finisce per scarseggiare e non rendere compatibile la vita umana (non tanto perché la Natura ne ricavi danno ma perché al mutare delle condizioni degli ecosistemi noi ci andremmo in mezzo). Forse dovremmo recupare una visione olistica ecocentrica per la quale la decrescita sarebbe un’esperienza di finitudine per dirla alla Heikkurinen, una sobria accettazione quasi stoica di quanto è dato nei limiti in cui è dato. Allo stesso tempo per i paesi del Sud del mondo ci dovrebbe essere un post-sviluppo come suggerito anche dal Wuppertal Insistute, una contrazione (delle economie occidentali opulente) e una convergenza (nel senso che i paesi del Sud del mondo dovrebbero raggiungere una dignity line con tecnologie meno impattanti, leggere e allo stesso tempo i paesi ricchi dovrebbero cominciare una cura dimagrante)
Non ricordo neppure io se fosse Latouche, di sicuro l’anarchismo post-scarsità, per quanto presenti alcune idee interessanti, rappresenta una delle concezioni più deboli di Bookchin. Più interessanti sono le proposte della low tech technology.
Cioé più o meno quello che l’umanità ha fatto prima dell’avvento dell’era industriale.
Troppa gente fatica a capire questa contraddizione, nel senso che la scarsità nel capitalismo è un concetto permamente e quindi fittizio, ma in termini ecologici è reali. Da qui tutti i troppi dialoghi tra sordi tra marxisti e cultori dei limiti dello sviluppo. Pare però che il marxista giapponese Kohei Saito abbia fatto un salto in avanti in questo senso, ma mi riprometto sempre di leggerlo per vedere se sono veri i commenti entusiasti su di lui e non l’ho ancora fatto.
Saito però è stato per l’appunto bersagliato da Jacobin come “neo-malthusiano” (poi bisogna vedere se sulla rivista il parere è condiviso o solo del singolo recensore), forse davvero il marxismo per via della sua mitologia delle forze produttive denunciata da Baudrillard nel suo “Lo specchio della produzione” poi ripreso da Latouche è in un’impasse teorica di difficile soluzione (in Italia l’elaborazione di Saito è stata criticata anche da J. N. Bergamo su “Le parole e le cose” ritenendola a tratti contraddittoria per il marxismo). Forse bisognerebbe valorizzare la pars destruens di Marx e se davvero quel genere di filosofia è figlia di un mental frame modernista (come riteneva Latouche ne “La scommessa della decrescita”) farne una critica per l’assenza di un afflato ecologico, focalizzando come fa lo stesso Saito i planetary boundaries di Rockstrom e del suo Resilience centre di Stoccolma intendendo quelli unitamente alla formula di Ehrlic I=PAT come una forma di limite da monito alla specie (fioccheranno accuse di positivismo e di naturalismo ingenuo però si potrebbe sempre rispondere che se è vero che i limes sono sempre kantianamente in relazione alla nostra soggettività per la rivoluzione copernicana della conoscenza della Critica ecc. valgono come delle utili approssimazioni e degli indici per evitare la catastrofe della biosfera). Forse anche per quanto riguarda la concezione olistica si tratta di rivalorizzare (penso a “Pluriverso. Dizionario del post-sviluppo” curato da Escobar e Acosta dove si parla di aspetti ecologici dell’Islam, del gianismo e degli amerindiani) conoscenze pregiudizievolmente giudicate arcaiche di popoli non occidentalizzatisi integralmente.
“l’entropia in un sistema chiuso quale il pianeta”
Probabilmente gia’ lo sottointendi nell’economia di tutto il tuo discorso, ma scusami se preciso: il pianeta non e’ assolutamente un sistema chiuso… tutta la vita sulla terra dipende** dal flusso di energia che arriva dal sole, viene utilizzata, e infine viene reirradiata e temperatura inferiore sotto forma di radiazione di corpo nero mantenendo cosi’ l’equilibrio termico, da cui le recenti preoccupazioni circa la lieve variazione di spessore del “cappotto-serra” dovuta all’aumento della CO2.
A suo modo, la terra e’ una “macchina termica”, come quelle descritte dalla termodinamica ottocentesca di Carnot.
Le piante “autotrofe” e fotosintetiche, come suggerisce fuzzy citando poeticamente Empedocle, sono il primo anello della catena alimentare, dal quale discende e dipende tutto il resto: niente energia dal sole, niente fotosintesi, niente vita.
Quindi, qualunque cosa succeda, qualunque limite di sostenibilita’ si superi, a meno che non si riesca a distruggere tutto il manto vegetale, le condizioni di base per l’agricoltura e l’allevamento credo che permarranno anche dopo. Cioe’ torneranno le condizioni di base per ricominciare daccapo anche dopo una “grande estinzione”, visto che e’ stata l’agricoltura il primo grande passo di modifica pesante degli ecosistemi compiuto dell’uomo, l’industria tutto sommato ne e’ una conseguenza, e anche se a noi non sembra e’ avvenuta in un batter di ciglia dal punto di vista dei tempi geologici. 😉
In sostanza, ci si adattera’ a quel che viene e a quel che c’e’, come facciamo e abbiamo sempre fatto sia noi che il resto della vita. L’utopia di un mondo stabile e tranquillo non solo e’ un’utopia, ma ho l’impressione che l’ossessione recente e di moda oggi che abbiamo per renderlo tale, visti anche i recenti sviluppi del green washing e la conseguente coercizione consumistico-rottamatoria, serva solo a “peggiorare” la situazione, dal nostro punto di vista. Metto le virgolette perche’ in fondo si tratta solo di un giudizio di valore, umano.
Provate ad accendere la radio e sintonizzarvi sul canale degli industriali, radio24, come ho fatto per sbaglio qualche tempo fa: non si parla di altro, freneticamente come fanno loro, che di sostenibilita’ e green, e lo stesso esce a flusso continuo dagli altoparlanti degli ipermercati. Lo stesso se non peggio accadra’ nelle scuole di ogni ordine e grado, suppongo. Parole parole parole. E fatti, quando ci sono, al contrario.
** in realta’ la vita dipende anche, indirettamente, dal flusso di energia che arriva dalle viscere della terra grazie al decadimento radioattivo, che rende possibile l’attivita’ tettonica della “crosta” e quindi vulcanica di reimmissione della CO2 dalla crosta terrestre all’aria. Senza CO2 niente fotosintesi e niente vita. Non ce ne accorgiamo, ma la terra e’ anche un piccolo sole a bassa temperatura. Lo scoprirono uno o due secoli fa quando, valutando l’eta’ della terra, si accorsero che senza produzione di energia dall’interno si sarebbe abbastanza raffreddata da escludere l’attivita’ tettonica e quindi, senza vegetali fotosintetici grazie alla CO2 cosi’ reimmessa in aria, “morta”. Piu’ le si studia, e piu’ le condizioni per la vita come la vediamo sono complicate e mirabili di quanto sembri!
La terra è eccome agli occhi di Georgescu-Roegen un sistema chiuso perché non riceve materia dall’esterno (si potrebbe parlare degli asteroidi ma è un argomento ad hoc) ma solo energia (la radiazione solare), in questo senso è un sistema chiuso su se stesso. E’ pericoloso quello che ritieni perché sviluppi un ragionamento tecno-ottimista e antropocentrico per il quale “vada come vada il fatto che abbiamo antropizzato a più non posso è da accettarsi perché ormai è avvenuto” quando la green revolution nell’agricoltura ha isterilito i suoli provocando anche desertificazioni per il modello intensivo dell’agroindustria senza contare i livelli di emissioni fuori norma, i danni dei fertilizzanti, l’acidificazione degli oceani galoppante e lo sterminio della biodiversità. Si rischia la china dell’ecomodernismo denunciata in un vecchio articolo dal decrescista Kallis. Forse occorrerebbe senza l’estremismo di uno Zerzan mettere in discussione e decentralizzare l’umano effettuando una rimodulazione delle attività produttive portandoci a vivere in omeostasi con gli ambienti naturali.